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Mai più bambini in carcere

Francesca Cusumano 31 gennaio 2017
Anita, tutti i nomi sono di fantasia per rispetto della privacy, tre anni e mezzo, bambina solare e “gentile” figlia di Antonella, detenuta rom agli arresti domiciliari, è andata alla festa della sua compagna di scuola Martina.

Ha giocato con gli altri bambini e si è molto divertita. Anita è stata la prima bambina a essere accolta insieme alla sua mamma alla Casa di Leda. La prima casa famiglia protetta aperta in Italia, che si trova all’Eur ed è intitolata a Leda Colombini, mitica fondatrice dell’Associazione “A Roma Insieme”. L’impegno dell’Associazione è di tirare fuori dal carcere i bambini e Leda Colombini ha dedicato la sua vita al raggiungimento di questo obiettivo. Sembrava impossibile che la figlia di una detenuta, per giunta rom, potesse diventare amica di una sua coetanea, figlia di una delle famiglie generalmente abbienti, che vivono tra i viali alberati e le ville del quartiere dell’ Eur. Sembrava impossibile soprattutto dopo la vera e proprio “guerra” dichiarata dagli infuriati abitanti delle ville confinanti con quella di via Algeria, 600 metri quadri circondati da un grande giardino, sottratta alla mafia e assegnata dal Comune alla realizzazione di una delle strutture previste, in tutta Italia, da una legge del 2011 totalmente ignorata fino al 2017.
Ma a volte per fortuna la reciproca simpatia tra bambini è l’unico sentimento che conta e forse col passare dei mesi i “vicini” si sono accorti come vivere nei paraggi di una struttura protetta, sia molto più sano che abitare accanto a dei mafiosi incalliti.
“Oggi i rapporti con il vicinato sono generalmente molto migliorati – dice durante la visita alla struttura – Lillo Di Mauro, neo presidente della Conferenza del Volontariato del Lazio e responsabile dell’area Giustizia della Cooperativa Cecilia che gestisce la Casa in ATI con Ain Karim, P.I.D. (Pronto Intervento Disagio Sociale) e A Roma Insieme. Dopo che il comitato di quartiere ha perso il ricorso che aveva presentato al Tar contro la decisione del Comune, il presidente che è una persona gentile ed educata, è venuto a più miti consigli. Ci ha chiesto di evitare il via vai dall’ingresso di via Kenia che è più centrale e di usare quello, completamente defilato, di via Algeria, e di lasciare chiuse le tende di una parte del salone che si affacciano direttamente sui giardini confinanti, per evitare sguardi indiscreti. Su questi punti abbiamo trovato un accordo. Certo qualche borbottio sul quartiere “ormai diventato come Scampia” lo sentiamo ancora, ma – aggiunge Di Mauro – puntando i fucili per difendersi non si ottiene niente, molto meglio il rispetto reciproco con chi è pronto a dialogare”. Al di là della diffidenza inevitabile che possono creare all’inizio questo tipo di strutture, quello che conta sono i risultati.
In pochi mesi Anita ha fatto dei progressi impressionanti – racconta Grazia Piletti che per “A Roma Insieme” coordina l’attività dei volontari – quando è arrivata era aggressiva, sporca, prepotente con gli altri bambini, raccoglieva il cibo da terra e lo mangiava, non aveva ricevuto alcun tipo di educazione. Man mano andando a scuola, sveglia com’è, è diventata la beniamina delle insegnanti e con il supporto dei nostri volontari e operatori, senza rinunciare all’affetto della mamma, si è trasformata”.
In estate i bambini sono stati accolti nei campi estivi organizzati dalle parrocchie del quartiere e un gruppo di scout il sabato e la domenica porta fuori i bambini e farli giocare. “E’ proprio questo l’obiettivo che si prefigge il progetto educativo della casa famiglia protetta – aggiunge Di Mauro – oltre a evitare ai i piccoli l’esperienza di vivere i primi anni di vita dietro alle sbarre, il progetto prevede per loro un percorso educativo attraverso la scolarizzazione, la sana alimentazione, il gioco, l’integrazione con il territorio, in modo da garantire a ciascuno un periodo di vita più sereno possibile”. Una serenità ne è convinto Di Mauro – che arricchirà la loro esistenza e che in qualche caso potrà rivelarsi una risorsa interna per non perdere l’equilibrio in situazioni di vita diverse e difficili. La seconda fase del progetto si occupa del recupero e del reinserimento sociale della donna che viene stimolata a raggiungere una sua autonomia, rispetto alla famiglia d’origine, anche in collaborazione con i servizi territoriali. Ad esempio Laura, che sembra una ventenne, è egiziana e laureata, ha 3 figli, due in affidamento presso una famiglia di Lariano, il più piccolo, Jacopo, che mentre parliamo è con gli altri “ospiti” a scuola. Finita agli arresti insieme al marito per un traffico di documenti, mi racconta della sua voglia di riscatto, attraverso l’opportunità che le è stata offerta di frequentare un corso di formazione presso la Cooperativa Cecilia per diventare assistente domiciliare per gli anziani per il Comune di Roma, in modo da avere un lavoro quando, “tornero’ a essere una donna libera”.
Tutti i bambini la mattina alle 8 vanno a scuola accompagnati dalle proprie madri che devono fare ritorno alla struttura entro le 9.30 avvertendo la questura di essere rientrate. Alle 15 del pomeriggio le detenute possono riuscire per andarli a prendere. Nella casa lavorano a turno, tra i 5 e gli 8 educatori, in rapporto uno a uno con il numero delle donne presenti nella struttura. Con loro le madri seguono un percorso individuale di recupero. Katia, l’unica italiana, è figlia di genitori tossici e con la madre quando era piccola si è ritrovata a vivere in carcere per un periodo. Esperienza che non è riuscita ad evitare anche al suo bambino, Marco, che ora è qui con lei nella casa. “Marco all’inizio – ricorda Grazia – non ne voleva sapere di porte chiuse: apriva le porte del bagno, delle camere, delle macchine quando era fuori. Probabilmente perché si ricordava di quando a Rebibbia alle 20 le porte venivano chiuse a chiave e fino al mattino non è più possibile uscire. Katia in questi casi perdeva la pazienza, lo picchiava anche perché non aveva idea di cosa volesse dire essere madre. Ora invece la stiamo seguendo da vicino e comincia a essere più affidabile, anche se ha sempre bisogno di aiuto perchè vive come al di fuori della realtà”. Undici operatori, messi a disposizione dalle cooperative e associazioni che fanno parte dell’Ati, si alternano anche per il turno di notte, per garantire la sorveglianza. Dieci volontari iscritti ad A Roma Insieme, inoltre, nel pomeriggio intrattengono madri e bambini svolgendo laboratori e attività di manualità, una operatrice in particolare, stipendiata dall’associazione, copre il turno di notte che altrimenti rimarrebbe scoperto.
Quanto costa tutta questa organizzazione? A pieno regime cioè con 6 donne ospiti e 8 figli, il costo mensile della struttura – riferisce Di Mauro – è un po’ più di 12 mila euro al mese, “circa un terzo di quello che è il costo del regime carcerario. Chi paga? La Fondazione Poste onlus ha pagato per il primo anno 150 mila euro, pari appunto a poco più di 12mila euro al mese. Soldi che sono stati ripartiti tra le varie cooperative e associazioni dell’Ati per pagare le spese ordinarie e gli stipendi degli operatori, oltre a tutte le necessità dei bambini. Siamo in attesa – conclude Di Mauro con una punta di apprensione – che venga approvato lo stanziamento per il 2018, per ora stiamo navigando a vista”.
Sabato Anita è uscita dalla casa insieme a Antonella che ha finito di scontare il suo periodo di detenzione. E’ tornata al campo dove abita, con i suoi 6 fratelli più grandi, in una casa prefabbricata regolarmente assegnata e censita dal Comune. Il padre è in carcere e la madre è sotto osservazione da parte del servizio di assistenza sociale che ha sospeso la sua potestà genitoriale, in attesa di constatare se Antonella manterrà fede all’impegno preso e sottoscritto, uscendo dal regime di detenzione, di mandare regolarmente a scuola tutti i suoi figli. In caso contrario il tribunale potrebbe decidere di dare i bambini in affidamento.