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Legge sulla shoah in Polonia. Il grande tradimento di Varsavia verso Israele

Umberto De Giovannangeli 01/02/2018
Pensare che neanche un mese fa Benjamin Netanyahu si era congratulato con il suo omologo di Varsavia per la “coraggiosa” scelta compiuta dalla Polonia all’Onu di non seguire l’Europa “filopalestinese” nel dire no allo strappo su Gerusalemme compiuto dagli Usa.

Venticinque dei 27 Paesi Ue (più la Gran Bretagna in uscita) votarono “sì” ad una mozione che censurava la decisione americana di spostare la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, riconoscendo quest’ultima come capitale “eterna e indivisibile” dello Stato ebraico. In quel frangente, la Polonia si astenne, come peraltro fece l’Ungheria di Viktor Orban. Polonia e Ungheria, due tra i Paesi dell’Est dove spira forte un vento antisemita.
Neanche un mese dopo Benjamin Netanyahu è passato dall’apprezzamento all’indignazione. Il Senato della Polonia ha approvato la controversa legge sull’Olocausto, che mira a difendere l’immagine del Paese all’estero, ma ha scatenato una crisi diplomatica con Israele.
La legge, che è già stata approvata dalla Camera e adesso ha bisogno della firma del presidente – Andrzej Duda, esponente del partito della destra nazionalista Diritto e Giustizia – fissa una pena massima di tre anni di carcere per chiunque, polacco o straniero, accusi la Polonia di complicità con i crimini nazisti o si riferisca ai campi di sterminio nazisti definendoli polacchi. Il Senato ha approvato le misure con 57 voti a favore e 23 contrari e due astenuti.
Israele aveva chiesto di abbandonare il progetto di legge, considerandolo un tentativo di negare il coinvolgimento polacco nello sterminio nazista degli ebrei. “Non abbiamo tolleranza per la distorsione della verità e la riscrittura della storia, né per la negazione dell’Olocausto”, tuona Netanyahu. Anche il ministro israeliano per costruzione e case, Yoav Gallant, è intervenuto sulla vicenda: “Non lasceremo che la decisione del Senato polacco passi senza reazioni. L’antisemitismo polacco ha alimentato l’Olocausto e questa è una negazione de-facto dell’Olocausto”. Alla protesta della comunità ebraica si sono unite personalità di primo piano della cultura, dell’arte e ella politica polacche, tra le quali la regista Agnieszka Holland e l’ex presidente della Repubblica Aleksander Kwasniewski. Il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk ha scelto la via mediana di definire “spregevole diffamazione” l’espressione lager polacchi e di criticare la norma. Anche l’ex ministra degli esteri israeliana Tizpi Livni ha attaccato Varsavia: “Hanno sputato in faccia ad Israele due volte”, afferma, ricordando che era stato raggiunto un accordo tra il premier polacco e quello israeliano per rivedere il testo della legge e che questo “è stato ignorato”.
Una delle testimonianze più significative in merito è quella di Efraim Zuroff, lo storico americano che dirige il “Wiesenthal Center” e che ha lanciato l'”Operation Last Chance”: una campagna che dal 2001 ha portato in tribunale e fatto condannare 41 criminali, di cui tre in Germania. È lui il cacciatore più determinato, dopo la scomparsa di Simon Wiesenthal. “Quello operato dal Senato polacco è un atto gravissimo che riguarda il presente e non solo una negazione della Storia che mortifica la memoria dei milioni di ebrei sterminati nei lager nazisti – dice Zuroff raggiunto telefonicamente da HuffPost nel suo ufficio a Gerusalemme – Il problema è che oggi si tende a cancellare quella memoria autoassolvendosi mentre in Europa, non solo all’Est ma anche in Paesi come la Francia, si profanano cimiteri ebraici o si aggrediscono adolescenti solo perché portano la kippah. La politica – aggiunge Zuroff – ha le sue regole e i suoi compromessi, ma non fino al punto di far passare sotto silenzio il negazionismo, comunque motivato. Se lo desidera, potrei rinfrescare la memoria dei senatori polacchi con la storia di alcuni dei peggiori criminali nazisti nati in quel Paese”.
Criminali come Jakob Palij: nato in Polonia, accusato di crimini commessi in Polonia. Guardia SS nel campo di concentramento di Trawniki, dove furono uccisi più di 6.000 ebrei, Palij è accusato di aver impedito la fuga dei prigionieri e di aver “direttamente contribuito alla loro esecuzione”. Rifugiatosi negli Stati Uniti, grazie al lavoro del Centro Wiesenthal, gli Usa aveva deciso la sua estradizione ma nessuno dei tre Paesi europei che potevano richiederne l’estradizione, lo ha fatto. Tra questi Paesi, c’è la Polonia.
L’antisemitismo è sopravvissuto all’annientamento degli ebrei polacchi nella Shoah, ed è oggi sotto la superficie della vita civile e culturale della nazione. Annota Roberto Reale in una documentata analisi su PoloniCult, blog italiano di cultura polacca: “Polska jest krajem antysemickim. La Polonia è un Paese antisemita”. Secco, senza lasciar spazio a compromessi, senza cercare di ammorbidire i termini, è l’enunciato che apre il saggio di Stefan Zgliczyński Antysemityzm po polsku (Antisemitismo in polacco, Książka i Prasa, 2007). Il resto del libro è dedicato alla dimostrazione di questo asserto. Quanto dolosamente un incipit del genere – rimarca Reale – possa incidere sulla sensibilizzata coscienza nazionale, tutta raccolta nell’elaborazione di una vulgata “di Stato” volta ad escludere per quanto possibile ogni responsabilità polacca nella Shoah e che si dichiara offesa dal semplice accostamento delle parole lager e polacco, lo si immaginerà facilmente. Tanto più che il saggio di Zgliczyński non è una ricerca storica, ma un reportage: si parla innanzitutto dell’antisemitismo che avvelena la realtà quotidiana, qui e ora, non di quello storico che portò all’emigrazione o alla eliminazione dei 3,25 milioni di ebrei polacchi nei campi di sterminio. E se l’antisemitismo storico, per quanto più efferato negli esiti, è molto più facile da abbandonare alla rimozione, attribuendone intera la responsabilità ai nazisti (a patto di scordare le atrocità commesse con la collaborazione di volontari polacchi, come il pogrom di Jedwabne, del 10 luglio 1941, o interamente per mano polacca, come il pogromdi Kielce, del 4 luglio 1946, a guerra finita), molto più difficile è far finta che non esistano le parole, gli atteggiamenti, i programmi politici che appartengono alla trama del presente e che ci parlano di un odio ancora oggi vivo, pervasivo, sotterraneo ma implicitamente ammesso ad onta della vulgata; di un odio che attraversa tutta la storia della nazione, concretandosi in modi di pensiero, in tradizioni, in coscienza, facendosi fondamento dell’identità nazionale, approdando alla realtà di tutti i giorni….”. E di questa realtà, triste e inquietante, rientra a pieno titolo il voto negazionista del Senato di Varsavia.