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Il rischio Kenya. Uno Stato-guida vicino alla guerra civile

Giovanni Masotti 18/02/2018
L’inviato Rai Giovanni Masotti racconta la drammatica situazione del Paese africano che tiene col fiato sospeso gran parte del mondo.

Nel 2016 il quarto Paese al mondo per crescita del Pil, da anni al di sopra del 5 per cento. Una moderna classe media in espansione, “cuscinetto” tra i pochi ricchissimi (il 2-3 per cento) e i milioni di diseredati, quasi la metà della popolazione. Grande impulso alle infrastrutture.
La capitale Nairobi, una megalopoli di sei milioni di abitanti, calamita del business internazionale e polo d’attrazione degli investimenti stranieri – cinesi e occidentali – sospinti dalla presenza di manodopera qualificata e dalle agevolazioni fiscali. Il Kenya ormai Stato-guida, porta obbligata dell’intera Africa orientale. E strategico argine contro il terrorismo jihadista, minaccioso ai confini con Sudan e Somalia. Una prospettiva di sicuro progresso, l’arretratezza gradualmente alle spalle. Sembrava.
Tutto questo, dopo oltre un anno di ininterrotta campagna elettorale – costellata da infinite violenze e tensioni – rischia drammaticamente di sgretolarsi. La giovane democrazia kenyota, non ancora pienamente matura, vacilla sotto i colpi di un’aspra lotta politica, polarizzata tra due fazioni inter-tribali – immobili in un reciproco, atavico, odio – e alimentata da una corruzione dura da sradicare. 


Dopo due contestate, poco limpide, elezioni – la prima, in agosto, clamorosamente annullata dalla Corte Suprema, mai accaduto prima in uno Stato africano; la seconda, in ottobre, disertata e boicottata dall’opposizione, ma convalidata, Uhuru Kenyatta, 53 anni, confermato presidente – il Paese è ostaggio dell’incertezza e del caos, la guerra civile in agguato.

Perché l’ultrasettantenne Raila Odinga, eterno candidato allo scranno più alto della Repubblica e regolarmente sconfitto, storico rivale della famiglia Kenyatta (prima del padre Yomo, artefice della guerra di liberazione dai colonialisti britannici, poi del figlio Uhuru) non si rassegna e chiama i suoi alla Resistenza contro l’”usurpatore”. Fino a optare – dopo il fallimento di uno stentato avvio di trattativa sottobanco con il legittimo vincitore – per una teatrale e spericolata prova di forza, sfidando i reiterati appelli degli alleati europei e africani, degli Usa, della Chiesa: la tragicommedia della cerimonia “alternativa” di insediamento alla presidenza.
Giuramento sulla Bibbia e incendiari inviti alla disobbedienza civile e al boicottaggio delle imprese legate all’establishment. Due presidenti per una sola nazione. Un’assurda farsa che tiene il Kenya – e mezzo mondo – col fiato sospeso.
La gente è stanca e sfiduciata, l’economia e l’occupazione arretrano. La spregiudicatezza del “tribuno del popolo” Odinga chiama la repressione dell’allarmato Kenyatta, incerto se procedere alla sua incriminazione – e all’arresto – per “alto tradimento”. Consapevole che la scintilla della rivolta potrebbe innescarsi. Con conseguenze devastanti.