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Ad Afrin incombe l’ombra di un nuovo massacro yazida sotto i raid turchi

Antonella Napoli 08/02/2018
Un dramma nel dramma sta per consumarsi nel distretto di Afrin, in Siria, dove i bombardamenti dell’operazione militare lanciata dalla Turchia nel Rojava il 20 gennaio hanno già causato la morte di centinaia di persone.

Un folto gruppo di yazidi, una minoranza di origine e di lingua curda con una propria religione, rischia un nuovo massacro come ha raccontato un leader religioso rifugiato negli Stati Uniti, Pir Shammo, a “Voice of America'” la scorsa settimana.
A far temere un accanimento ulteriore nei confronti della comunità yazida, rispetto al resto della popolazione coinvolta nell’escalation militare turca, la presenza tra le milizie che supportano via terra i raid aerei di ex combattenti dell’Isis che verso coloro che ritengono “adoratori del diavolo” hanno perpetrato un vero e proprio genocidio.
In pochi giorni, nella prima settimana di agosto del 2014 nel Nord dell’Iraq, lo Stato islamico ne uccise oltre 3mila, per lo più uomini, e rapì e ridusse in schiavitù quasi 7 mila tra donne e bambini. Le femmine, anche quelle poco più che bambine, furono date in premio a qualche comandante per servirsene sessualmente e altre vendute o tenute in ostaggio a fini di riscatto.
Chi era sfuggito alla persecuzione, dopo che l’Isis era stato cacciato da Manbij, Aleppo e Raqqa era tornato alle proprie case, o ciò che ne restava. Hanno provato a riprendere una vita “normale”, nonostante il peso di quanto la loro gente avesse subito. Come nel villaggio di Basoufane ad Afrin.
Ma da alcuni mesi, ancor prima dell’avvio dei bombardamenti turchi, sono riprese nell’area le incursioni di Hay’at Tahrir al-Sham, un gruppo terroristico in passato affiliato al-Qaida, riportando il terrore in questa comunità che si ritrova a vivere gli orrori del passato.
La popolazione yazida, nonostante i ripetuti genocidi subiti in varie fasi della loro storia era presente in modo maggioritario, fino al 2014, nella regione Nord dell’Iraq al confine con la Siria dove si trovano i territori da sempre abitati dalla comunità. Luoghi sacri dove ogni elemento naturale è portatore di un significato simbolico, come nel territorio di Shengal dove si trova l’omonima Montagna sacra.
Una regione solcata dal fiume Tigri, che scorre in direzione Nord/SudOvest, segnando anche una diversità geomorfologica del paesaggio: da una parte la pianura alluvionale dall’altra le alte montagne che separano l’Iraq dalla Turchia e dalla Siria. Luoghi bellissimi, dove è nata la civiltà occidentale, deturpati con la formazione di un gigantesco bacino artificiale, a pochi chilometri dalle frontiere turca e siriana, che ha sommerso difango e di acqua parte del territorio storicamente abitato dagli yazidi, un modo per cancellare definitivamente le tracce di una cultura, la storia di una comunità che nel corso dei secoli è diventata minoritaria.
La popolazione è stata costretta a trasferirsi in quartieri appositamente costruiti, privi d’identità, sfollati e ricollocati malgrado la loro volontà.
Una strategia di annientamento, dislocazione e assimilazione della popolazione curda condivisa anche dalla Turchia con il colossale progetto di dighe denominato Gap, iniziato con la realizzazione di quella denominata Ataturk.
Nonostante le persecuzioni e i soprusi questa sfortunata minoranza è riuscita a sopravvivere fino al 2014, quando con l’avvento dell’Isis la situazione è precipitata.
A fine giugno, Abu Bakr al-Baghdadi dalla moschea al-Nuri5 di Mosul proclama lo Stato Islamico, i miliziani Daesh rafforzano la loro presenza in Iraq e nella regione yazida i coloni arabi e musulmani appoggiano, più o meno apertamente, il Califfato. Si prepara il genocidio, il racconto di una popolazione in fuga, braccata dai combattenti Daesh che conducono azioni brutali e pianificate contro la popolazione inerme che seguono il protocollo del crimine di guerra e contro l’umanità: uccidere in modo cruento, con esecuzioni di massa, infliggendo una sofferenza psicologica permanente a un’intera comunità. Niente sarà più come prima.
La persecuzione religiosa è portata avanti a tappeto contro “i figli del diavolo”, che possono salvarsi dalla morte solo con la conversione all’Islam.
Verso la comunità yazida non c’è interesse neanche da parte del governo dell’Autonomia Curda che lascerà, la notte del 3 agosto 2014, letteralmente in mano a Daesh la città di Shengal e i villaggi intorno alla Montagna sacra.
L’attacco è programmato e organizzato con la complicità di molti e portato avanti grazie all’indifferenza del mondo intero.
Oggi la popolazione a rischiare di patire di nuovo quelle sofferenze si trova ad Afrin, dove si è da subito organizzata con autodifesa e autogestione. Ma nulla può contro i raid aerei e l’avanzata delle milizie. Il suo destino è segnato. Come per il resto della gente di Afrin, soprattutto donne e bambini.
E la comunità internazionale, ancora una volta, resta a guardare.