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Filippine: la guerra alla droga e ai diritti umani

Alessandro Graziadei 04 Gennaio 2018
A qualcuno il presidente delle Filippine Rodrigo Duterte era piaciuto per i suoi modi “decisi” di combattere il traffico di stupefacenti.

Tuttavia, come ben ricordava la nostra collega Miriam Rossi in maggio, da mesi “le gesta da far west dei suoi uomini” contro lo spaccio di droga si collocano “fuori da qualsiasi sistema giudiziario” e quando spacciatori e tossicodipendenti sono individuati vengono “immediatamente assassinati in strada: proprio i loro corpi lasciati alla pubblica visione diventano un monito per invitare alla rettitudine i cittadini, come i cartelli attaccati agli uomini esanimi indicano chiaramente”. Ma che questo Presidente eletto alla guida delle Filippine il 30 giugno del 2016 non si limitasse alle esecuzioni extragiudiziali dei “cattivi”, era immaginabile già in campagna elettorale, quando dichiarava “Se vinco, potrei uccidere non mille criminali, ma 100.000 in 6 mesi” e invitava alle esecuzioni sommarie di trafficanti e criminali con premi ai poliziotti e la promessa dell’immunità per cittadini giustizieri. Non è un caso, quindi, se nelle Filippine sono stati uccisi a fine novembre altri due attivisti che indagavano sulle violazioni dei diritti umani dopo l’accaparramento di terre ai danni dei contadini dell’isola di Negros.

In un breve comunicato, l’associazione Karapatan, ha spiegato che i due attivisti uccisi a Bayawan nel Negros Oriental erano Elisa Badayos, coordinatrice proprio di Karapatan e Eleuterio Moises, membro dell’organizzazione contadina locale Mantapi Ebwan Farmers Association. Con Carmen Matarlo, di Kabataan Partylist-Cebu, rimasta ferita nell’agguato, i due facevano parte del team Freedom fire ministries (Ffm) composto da 30 persone che era nella zona per indagare sulle violazioni dei diritti umani nella zona. Secondo la segretaria generale di Karapatan, Cristina Palabay, non si tratta di un caso isolato visto che “L’attacco ai difensori dei diritti umani nelle Filippine è sempre più dilagante, più brutale e senza paura. Coloro che li perpetrano sanno che resteranno impuniti, dal momento che i diritti umani hanno perso forza e significato soprattutto sotto questo regime”. Per le realtà che difendono i diritti umani i tempi sembrano sempre più bui dal momento che il regime di Duterte sta trovando sempre nuovi modi per paralizzare non solo spacciatori e trafficanti di droga, ma anche gli attivisti che criticano la situazione dalle comunità povere, emarginate e facili vittime dalla militarizzazione del Governo filippino.
“Condanniamo nei termini più forti questo recente attacco ai lavoratori dei diritti umani – ha dichiarato la Palabay – Anche se gli attivisti per i diritti umani che conducono missioni incisive a Batangas, Negros, Mindanao e altrove sono stati sottoposti ad attacchi da parte di forze dello Stato, non cederemo mai nel continuare a lottare con il popolo filippino per opporsi a questo regime omicida di Duterte”. Ma la violenza extragiudiziaria è accompagnata da una legislazione “sui generis” che sta tentando di facilitare in tutti i modi i metodi spicci di Duterte. Secondo un’ordinanza del Governo filippino è fatto divieto alle organizzazioni non governative e ad altre associazioni di condurre qualsiasi missione umanitaria nel Negros Oriental senza chiedere il permesso al governatore, al governo municipale e alla polizia municipale. Chi non rispetta l’ordinanza viene condannato a 6 mesi di galera e ogni partecipante alla missione deve pagare una multa di 5.000 pesos. Un atteggiamento che già nel 2016 aveva attirato l’attenzione del Consiglio per i Diritti Umani dell’Onu e del Relatore speciale delle Nazioni Unite, Agnes Callamard, che aveva chiesto al Governo filippino a metter fine alle “esecuzioni extragiudiziali” nella lotta al narcotraffico e di sottoporre Duterte al giudizio degli organi internazionali.
Una richiesta rimasta inascoltata visto che Duterte si è sempre opposto in maniera categorica alla visita ufficiale della Callamard nelle Filippine per un’indagine indipendente sugli omicidi extragiudiziali della polizia e il 10 novembre, intervenendo al summit dell’Asean in Vietnam di fronte al presidente Usa Donald Trump e a quello cinese Xi Jiping, ha minacciato di “schiaffeggiare” la Callamard “se continua a indagare sulle uccisioni extragiudiziali frutto della guerra alla droga del Governo Filippino”. Per la Palabay le ripetute dichiarazioni pubbliche di Duterte nei confronti della Callamard, “non sono solo dichiarazioni deplorevoli e poco diplomatiche di un Capo di Stato, ma sono atti pericolosi che minano i meccanismi internazionali dei diritti umani in atto per fornire risarcimenti alle vittime di violazioni dei diritti e alle persone che soffrono per la violenza dello Stato”. Una posizione ribadita il 22 novembre anche dall’Alto commissario dell’Onu per i diritti umani, Zeid Ra’ad Al Hussein, che aveva difeso la Callamard e un’eventuale iniziativa Onu contro il presidente filippino, visto che è nel mandato e nelle procedure speciali dell’Onu la possibilità di esaminare e sollevare preoccupazioni attorno alle violazioni dei diritti umani negli Stati. 
Nonostante l’ostinato rifiuto da parte del governo Duterte di consentire alla Callamard di realizzare un’indagine ufficiale nel Paese, la ong Karapatan ha assicurato che continuerà a impegnarsi con la Callamard e altri esperti indipendenti dell’Onu, presentando denunce e portando avanti indagini sulle uccisioni extragiudiziali e altre violazioni dei diritti umani da parte del regime di Duterte. “Come organizzazione per i diritti umani – ha concluso la Palabay – abbiamo il mandato e il diritto di riferire i casi e di perseguire la responsabilità dello Stato per tutti gli atti commessi dalle forze di sicurezza dello Stato contro il popolo, in tutti i luoghi disponibili compresi i meccanismi internazionali dell’Onu. Non ci tireremo mai indietro per le parole e gli atti di un tiranno. Continueremo a fornire assistenza alle vittime della violenza di Stato e ad essere un tutt’uno con loro nella loro lotta per la giustizia”.