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FEMMINISMO ISLAMICO. UN PASSO VERSO LA PARITÀ E LA DEMOCRAZIA

Melissa Aglietti 15 GENNAIO 2018
«La liberazione femminile è possibile nel nome dell’Islam. Ma questo oggi non rappresenta più solo una religione. In molti Paesi arabi è diventato un’espressione del potere e una colonna portante del diritto. In poche parole, è degenerato in islamismo, ossia in una forma patologica dell’Islam stesso».

Da oltre 30 anni Abdessamad Dialmy, sociologo marocchino ed ex professore presso le università di Fez e Rabat, indaga la complessa relazione fra Islam, sessualità e femminismo, sostenendo la necessità di una reinterpretazione dei testi sacri islamici in chiave femminista. Un’indagine originale e moderna a cui Dialmy dà nuovo vigore con il suo ultimo libro “Transition sexuelle: entre genre et islamisme” (Paris, L’Harmattan, 2017), e che a partire dalla fine degli anni Novanta gli è costata insulti e minacce di morte.


Professore, si può parlare di una “primavera femminista” nel mondo arabo?


Certamente. I primi movimenti femministi nel mondo arabo-musulmano sono nati intorno alla metà del diciannovesimo secolo. Un importante contributo in questo senso fu apportato dallo studioso islamico tunisino Tahar Haddad, il quale sosteneva che l’interpretazione del Corano seguita fino a quel momento negasse la libertà delle donne e che per questo fosse necessaria una nuova lettura dei testi sacri che conciliasse Islam e liberazione femminile.


Una convinzione che troverà un significativo riscontro anche in campo politico.


In questo senso, il nuovo codice della famiglia promulgato in Tunisia nel 1957 da Habib Bourguiba, che, fra l’altro, bandiva la poligamia e il ripudio unilaterale, costituisce un atto rivoluzionario: per la prima volta, in uno Stato non secolarizzato si concedevano alle donne libertà fino a quel momento impensabili, non contro l’Islam ma in nome dell’Islam. Non è un caso infatti che durante la stesura della sua riforma Bourguiba si sia servito anche dell’aiuto degli ulema tunisini per giustificare dal punto di vista islamico il divieto della poligamia e del ripudio.


E così cominciò a farsi sempre più forte l’idea di una forma di liberazione femminile in nome dell’Islam.


Esatto. Ma i primi riformisti islamici femministi si fermarono al concetto di “equità”, che riconosceva agli uomini e alle donne differenti diritti sulla base della loro diversa natura. Sarà solo agli inizi degli anni Settanta che un altro movimento femminista islamico, stavolta di stampo secolare e legato ai partiti di sinistra, comincerà ad introdurre il concetto di “parità”, in nome dell’Islam. A tal fine si rese necessario andare oltre il significato letterale del Corano e cercare una nuova interpretazione. Si capì che l’emancipazione femminile non avrebbe mai potuto prescindere, oggi come allora, dall’Islam, che nel mondo arabo costituisce tuttora la religione dello Stato e della società, vale a dire la base della legittimazione dell’ordinamento giuridico. Ma a partire dalla fine degli anni Novanta, con la nascita di quello che possiamo definire femminismo islamista, si è ritornati al concetto di “equità” e a un approccio letterale al Corano e alla Sunna. Per i femministi islamisti, “equità” non significa “parità”.


Ma non è una forzatura voler reinterpretare il Corano in chiave femminista?


La nostra società è cambiata dal VII secolo, sebbene al momento della sua nascita l’Islam concedesse alle donne molte più libertà che in Occidente. Oggi dobbiamo recuperare lo spirito originale dell’Islam se vogliamo costruire una società più giusta. In questo senso, il Corano e la sua reinterpretazione in chiave femminista rappresenta uno strumento tattico per rendere questo cambiamento più accettabile per le masse, o meglio, “islamicamente” accettabile.


Eppure i più giovani sembrano intenzionati a voler recuperare un’interpretazione letterale dei testi sacri.


Attualmente il femminismo islamista è la corrente predominante. I giovani musulmani si sentono umiliati ed emarginati dall’Occidente e per questo sono alla ricerca di un’identità forte in cui riconoscersi. E in quest’ottica una buona soluzione sembra essere rappresentata da un ritorno a un’interpretazione letterale del Corano, che è anche la più semplice da comprendere. Ecco perché è necessaria una svolta. Ma non sarà un cambiamento facile. La maggior parte dei governi arabi non è democratica e la religione si è rivelata un ottimo strumento per il mantenimento del potere. Per questo non sono interessati ad alcun processo di secolarizzazione.


Non a caso secondo Bernard Lewis, storico e orientalista britannico, la rivoluzione democratica del Medio Oriente partirà proprio dalle donne.


Non sono totalmente d’accordo. Certamente le donne hanno meno da perdere e più da guadagnare in questo processo. Ma la liberazione femminile implica il coinvolgimento di tutti gli attori sociali. Come ho dichiarato in occasione del IV Congresso internazionale sul femminismo islamico, il femminismo non ha sesso. Ecco perché secondo me le donne non saranno l’unico strumento attraverso il quale il mondo arabo potrà raggiungere la democrazia e la parità dei sessi. Molte di loro credono ancora nel sistema patriarcale alla stregua degli uomini.


Negli ultimi attacchi terroristici, l’attentatore si è accanito su delle donne. Ѐ una semplice coincidenza oppure rivela qualcosa di più profondo?


Indiscutibilmente l’islamismo radicale odia le donne. Generalmente i terroristi non sono sposati, non hanno una vita sessuale soddisfacente. Per loro una donna non velata rappresenta un oggetto negativo, capace di risvegliare il desiderio e di portare caos. Per questo le donne costituiscono l’obiettivo preferito dagli estremisti violenti. Ma in questi casi potrebbe trattarsi di una coincidenza. Il fine ultimo dei terroristi è l’eliminazione fisica di tutti gli infedeli, a prescindere dal sesso o dalla nazionalità. Per loro gli infedeli esistono anche fra i musulmani.


A proposito del velo. Strumento di autodeterminazione o simbolo del dominio maschile?


Per il femminismo islamista, si tratta di uno strumento che permette alla donna di non essere più percepita come un corpo. Per il femminismo islamico, invece, ciò implica l’accettazione di una visione per cui il corpo femminile rappresenta un elemento di disturbo nella vita pubblica e sociale. Ma indubbiamente la decisione di indossare o meno il velo deve essere frutto di una scelta personale e non politica. Anche costringere le donne a non velarsi costituisce quindi una forma di violenza.


Oggi il velo, però, è diventato anche uno strumento di protesta.


Certamente. Il velo può rappresentare un mezzo per contestare il sistema occidentale e i suoi canoni. Velarsi significa dunque affermare la propria identità.


E in che modo il mondo islamico potrà finalmente conquistare la parità dei sessi?


La ragione, la libertà e l’uguaglianza costituiscono le fondamenta di questo processo. Per questo è necessario partire dall’educazione, dal rispetto verso l’altro sesso, dalla democrazia e dal rifiuto delle tradizioni ostili all’emancipazione femminile. Un altro punto fondamentale è rappresentato dall’indipendenza economica. Se le donne acquistano potere economico, si guadagnano di conseguenza il diritto a essere riconosciute come vere cittadine, spezzando la catena del dominio maschile. E questo l’Islam radicale lo sa bene e ne ha paura.