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Usa e Israele hanno un piano comune per contrastare la penetrazione dell’Iran in Medio Oriente

Umberto De Giovannangeli 29.12.2017
Una vittoria militare, quella ottenuta in Siria, che può trasformarsi in un boomerang esplosivo per l’Iran.

Perché l’incidenza delle spese militari, a tutto vantaggio della Pasdaran holding, sulle casse dello Stato è tale da acuire la crisi economica e innescare proteste di piazza che si susseguono da ottobre. Una nuova “Onda Verde” investe la Repubblica islamica dell’Iran. Stavolta, a innescare la protesta è il crescente malessere sociale: la disoccupazione è ancora al 12,4 % con un aumento di 1,4 punti nell’ultimo anno. Circa 3,2 milioni di persone sono senza lavoro, su una popolazione di 80 milioni.

Il governatore di Mashad, Mohammad Rahim Norouzian, ha confermato le dimostrazioni ma ha precisato all’agenzia Isna che “anche se illegali, sono state gestite dalla polizia con tolleranza”. Altre proteste si sono svolte davanti al Parlamento di Teheran, il Majlis, con circa duemila persone che hanno gridato: “Vergogna Rohani”, “Ridateci i nostri soldi”. Il gruppo di opposizione National Council of Resistance ha diffuso video della manifestazione. Le proteste sono esplose dopo che migliaia di risparmiatori hanno visto i loro conti bloccati dopo aver investito in istituzioni finanziare legate al governo ma ancora sotto sanzioni e in crisi di liquidità.
Nel mirino è l’uomo che aveva garantito aperture sul terreno dei diritti civili e, soprattutto, un deciso impulso alla crescita economica: il presidente Hassan Rohani. A portarlo per la seconda volta alla presidenza dell’Iran è stato soprattutto il voto dei giovani, delle donne, della classe media delle grandi città. Un voto per sbarrare il passo all’ala più conservatrice del regime, quella che ha nella Guida suprema, l’Ayatollah Ali Khamenei, il suo referente massimo. Le speranze tradite hanno generato la protesta, così come la denuncia di una corruzione che dilaga ad ogni livello dell’apparato pubblico.
Il sindaco di Teheran Mohammad Bagher Ghalibaf ha detto che “il Paese si trova ad affrontare crisi economica, disoccupazione, recessione e inflazione. Un albero dal quale non è nato alcun frutto in quattro anni non produrrà nulla di positivo per il futuro”, ha detto Ghalibaf riferendosi ai primi quattro anni di presidenza Rohani.
Tanto più che le uniche a crescere sono le spese militari. Sono già stati stanziati miliardi per l’acquisto dei carri armati russi T-90, per l’artiglieria, per i nuovi aerei da combattimento Su-30 e per elicotteri, e nel corso del biennio 2016-2017 il settore della difesa iraniana è cresciuto del 45%. A ciò si aggiungono i finanziamenti – calcolati in circa 600 milioni di dollari – elargiti a Hezbollah, Hamas e agli Houthi yemeniti.
A placare gli animi non bastano certo i successi militari conseguiti dai Pasdaran in Siria a fianco dell’esercito di Bashar al-Assad. Una vittoria che ha cementato il fronte sunnita e avvicinato Riyadh a Gerusalemme. Un patto a tre, perché nella triangolazione entra d’imperio Washington. Gli Stati Uniti e Israele hanno definito un piano comune per contrastare la penetrazione dell’Iran in Medio Oriente. L’intesa sarebbe stata raggiunta il 12 dicembre scorso in un incontro segreto tra funzionari israeliani e americani alla Casa Bianca, alla presenza del consigliere per la Sicurezza nazionale H.R. Mcmaster. A scriverlo è il sito Axios. Da Gerusalemme non vengono conferme ufficiali, ma a “microfoni spenti” fonti vicine al primo ministro Benjamin Netanyahu confermano ad HP che “in queste settimane sono proseguiti incontri a vari livelli con l’amministrazione Usa per valutare una risposta strategica a una minaccia comune quale è quella rappresentata dall’Iran”. Una strategia, aggiunge la fonte, “che si fonda sul giudizio fortemente negativo, comune a Trump e Netanyahu, sull’accordo con l’Iran sul nucleare”.
La strategia di contenimento dell’Iran passa dunque dalla cancellazione da parte americana di quell’accordo. Un impegno, assicurano a Gerusalemme, che il presidente Trump intende formalizzare già nei primi mesi del 2018. E questo con il plauso dell’Arabia Saudita. Dopo la decisione su Gerusalemme, Trump starebbe valutando l’ipotesi di “uccidere” lo storico accordo sul programma nucleare dell’Iran firmato con Teheran nel 2015 da Barack Obama e le principali potenze mondiali. Lo riporta Politico, sottolineando come il presidente americano – per mantenere un’altra delle sue promesse elettorali – potrebbe agire ancora una volta contro le indicazioni dei suoi più stretti collaboratori. Due le scadenze di gennaio – una sulle sanzioni e una sul rinnovo della certificazione dell’intesa – che potrebbero fornire al tycoon il pretesto per mandare definitivamente all’aria l’accordo. Quelle di Politico non sono solo indiscrezioni fondate su buone entrature tra i consiglieri più ascoltati alla Casa Bianca. È lo stesso Trump a confermare la volontà di formalizzare l’uscita dall’accordo con l’Iran sul nucleare. “Dobbiamo bloccare il piano nucleare dell’Iran, dobbiamo punire la Guardia nazionale di Teheran. Chiederò al Congresso di abrogare il patto con l’Iran”, aveva ribadito Trump nel suo discorso di presentazione del Piano della Sicurezza nazionale americana. “Il mondo vede che l’America sta tornando, sta tornando forte”, aveva aggiunto.
Il memorandum Usa-Israele, stando a fonti di Washington, prevede la creazione di quattro gruppi di lavoro che si concentrano su una serie di questioni chiave relative ai programmi nucleare e balistico dell’Iran, così come la fornitura di armi nella regione. Una conferma viene da Gerusalemme. Secondo il canale televisivo “Channel 10”, il primo gruppo di lavoro sarà impegnato in un “lavoro segreto e diplomatico per abolire il programma nucleare iraniano”. L’obiettivo del secondo gruppo sarà “limitare la presenza dell’Iran nella regione, in particolare, in Siria e in Libano”. I compiti del terzo gruppo includono “la limitazione del programma balistico iraniano” e “la limitazione dei tentativi di consegnare missili iraniani agli Hezbollah”. Infine, il quarto gruppo lavorerà “sull’escalation nella regione a cui l’Iran potrebbe essere coinvolto”. Gli alti funzionari israeliani hanno confermato al canale televisivo che Usa e Israele hanno raggiunto un accordo strategico sulla questione iraniana. “Israele e gli Stati Uniti seguono da vicino le tendenze e processi nella regione, in particolare l’Iran, e hanno formulato una tesi finale sulla politica strategica in relazione a queste sfide”, riferisce Channel 10.
Lo Stato ebraico, concordano analisti e fonti diplomatiche israeliane, non può assistere passivamente al continuo riarmo, via Teheran, di Hezbollah. Secondo un recente rapporto dell’intelligence militare di Gerusalemme, attualmente Hezbollah disporrebbe di oltre 100mila missili, rispetto ai circa 12mila che aveva prima della guerra dell’estate 2006. Secondo il sito French Intelligence, gli Hezbollah starebbero costruendo almeno due installazioni in Libano, dove produrre missili e armamenti. Sebbene questa notizia circolasse da tempo sui siti arabi, il magazine francese ha fornito maggiori dettagli su queste due strutture, indicandone la posizione e la tipologia di armamenti prodotti. Una prima struttura si troverebbe nei pressi di Hermel, nella Beqaa, mentre la seconda sarebbe posizionata tra Sidone e Tiro. Nella prima installazione verrebbero prodotti razzi Fateh 110 capaci di colpire quasi tutto il territorio israeliano, con una gittata di 300 km e un discreto livello di precisione. Nel complesso situato sulla costa mediterranea invece verrebbero fabbricate munizioni di piccolo calibro. “Israele sa bene che cercare di sbattere fuori l’Iran dalla Siria può portare ad un conflitto diretto con Teheran – rimarca Amos Harel, tra i più autorevoli analisti militari israeliani – I comandi di Tsahal sanno che sul terreno la minaccia principale resta al momento quella di Hezbollah, ma in prospettiva la presenza di basi iraniane in Siria rappresenterebbe un rafforzamento inaccettabile, non solo per Israele ma anche per Paesi arabi come Arabia Saudita, Giordania ed Egitto, della dorsale sciita Baghdad-Damasco-Beirut”.
“Abbiamo ribadito più volte – gli fa eco il ministro dell’Energia Yuval Steinitz, tra i più vicini al premier Netanyahu – che oggi l’espansionismo iraniano rappresenta il pericolo maggiore per la stabilità e la sicurezza della regione. Gli Stati Uniti l’hanno compreso, l’Europa ancora no”. Di certo, del probabile piano strategico anti-iraniano che Stati Uniti e Israele avrebbero definito, lo Stato ebraico informerà il suo nuovo alleato saudita. In questa direzione andava peraltro l’intervista concessa a inizi di novembre dal Capo di Stato Maggiore delle Idf (Forze di difesa israeliane), il generale Gadi Eisenkot, al giornale saudita “Elaph”. In quella storica intervista, mai prima d’allora il più alto in grado nelle Forze armate dello Stato ebraico aveva parlato con un giornale saudita, il generale Eisenkot aveva definito l’Iran come “la più grande minaccia per la regione”, affermando che gli israeliani sono pronti a scambiare informazioni con i sauditi per bloccare Teheran, che vuole “prendere il controllo del Medio Oriente e creare una mezzaluna sciita dal Libano all’Iran e dal Golfo persico al mar Rosso”.
Nel frattempo, il ministero della Difesa di Israele ha aumentato le sue difese lungo il confine settentrionale negli ultimi anni, costruendo barriere elevate per prevenire qualsiasi attacco da terra di Hezbollah. Ha costruito muri con pannelli di cemento armato, blocchi di cemento e calcestruzzo e torri di guardia fortificate, ma sta anche costruendo un nuovo “recinto intelligente” di sei metri di acciaio e filo spinato che si estende per diversi chilometri con centri di raccolta di informazioni, e sistemi di allarme, sul confine libanese.
La risposta iraniana avviene, al momento, per vie indirette. Ai confini Nord d’Israele, continuando il riarmo di Hezbollah. E a Sud, sostenendo l’ala militare di Hamas, le Brigate Ezzedin al-Qassam e la Jihad islamica palestinese negli attacchi, attraverso il lancio di razzi, proseguiti anche oggi, dalla Striscia di Gaza contro le città frontaliere israeliane.
A tenere i contatti con i capi militari di Hamas e della Jihad palestinesi è una figura di primissimo piano nella catena di comando dei Guardiani della Rivoluzione iraniani, corpo di élite che fa riferimento diretto a Khamenei: il generale Qassem Suleimani, regista delle operazioni in Medio Oriente – dall’Iraq alla Siria, dal Libano allo Yemen . È lui ad aver telefonato, dopo lo strappo di Trump su Gerusalemme, ai comandanti delle forze palestinesi più forti nella Striscia di Gaza per assicurare l’appoggio dell’Iran in caso di escalation contro Israele. La risposta non si è fatta attendere. Le sirene d’allarme sono risuonate nelle città israeliane prossime alla Striscia: tre razzi sono stati lanciati da Gaza nel sud di Israele due sono stati intercettati dal sistema di difesa antimissili Iron Dome, e il terzo è caduto in un’area popolata senza però fare vittime. In risposta, Israele ha subito reagito colpendo nella Striscia “due obiettivi terroristici” palestinesi, ricorrendo a carri armati e a velivoli. A riferirlo è un portavoce militare. “Dietro i terroristi di Hamas come di Hezbollah c’è la lunga mano dell’Iran”, dichiara il ministro della Difesa israeliano Avigdor Lieberman. “Dobbiamo prepararci ad ogni evenienza”, aggiunge. E stavolta, con l’Iran non sarà una guerra per procura.