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LIBIA: LE DECISIONI DEI LEADER EUROPEI E AFRICANI SUL FUTURO DEI MIGRANTI

“Hell, prison, shots”. Inferno, prigione, spari: con queste poche parole, sempre le stesse, i migranti descrivono la situazione che vivono in Libia. 

Sono 6 anni che le testimonianze si ripetono e si moltiplicano: secondo i dati di Frontex 679.605 persone dal 2011, l’anno della caduta di Gheddafi, a novembre 2017, sono passate dalla costa libica prima di mettersi in mare. Oltrepassano il deserto, arrivano in Libia, vengono arrestati, pagano per essere rilasciati e pagano per essere imbarcati: 1.000, 2.000, 3.000 dollari. Un iter che si ripete all’infinito.

IL SUMMIT DI ABIDJAN. Così le fiamme dell’inferno libico si propagano, al punto che non possono essere più ignorate. Nell’ultimo summit che si è tenuto il 29 e 30 novembre ad Abidjan, in Costa D’Avorio, i leader europei e africani, come si legge dai documenti ufficiali, “hanno sottolineato la necessità imperativa di migliorare le condizioni dei migranti e dei rifugiati in Libia – circa 400.000 secondo i dati dell’ Organizzazione Internazionale per le Migrazioni- e di intraprendere tutte le azioni necessarie per fornire loro l’assistenza appropriata e facilitarne il rimpatrio volontario nei paesi di origine”. È un impegno che, oltre all’Unione Europea e a quella africana, necessita della collaborazione anche del governo di Unità Nazionale libico e delle Nazioni Unite.
“Non c’è nessuna notizia”, dice Aboubakar Soumahoro, portavoce della coalizione internazionale Sans Papier in Italia, che il 24 novembre ha organizzato una manifestazione davanti all’ambasciata della Libia per accendere i riflettori sulle violazioni dei diritti umani nel paese. “Stando ai racconti di chi è riuscito a scappare o di chi è stato imbarcato su una nave dopo essere stato schiavizzato, si sa che gli stessi paesi africani, come Costa D’Avorio o Senegal ad esempio, fanno già da tempo operazioni di rimpatrio“.
IL RUOLO DELLE ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI. Secondo quanto emerso durante il summit, in prima linea saranno impegnate l’UNHCR e L’OIM. “Abbiamo lanciato la scorsa settimana un appello urgente affinché entro la fine di marzo 2018 vengano messi a disposizione 1.300 posti per il reinsediamento dei rifugiati altamente vulnerabili bloccati in Libia. Un primo obiettivo era quello di evacuare 400 persone entro la fine dell’anno: lo raggiungeremo con due evacuazioni che questa settimana porteranno circa 150 persone in Niger e 150 in Italia con un corridoio umanitario. Questi 300 vanno ad aggiungersi ai 104 evacuati nelle scorse settimane e in attesa di essere reinsediati in Francia”, spiega Federico Fossi, Senior Public Information Associate UNHCR. L’Agenzia dell’ONU continuerà a gestire le richieste per ottenere lo status di rifugiato: una possibilità che è concessa solo a siriani, iracheni, palestinesi, somali, eritrei, etiopi di etnia Oromo e sudanesi della regione del Darfur, dal momento che la Libia non ha sottoscritto la convenzione di Ginevra. In questo scenario, il governo di Tripoli si è impegnato a mettere a regime un centro di transito e partenza che possa ospitare fino a 1000 persone. Inutile dire che l’apertura si attende con urgenza, ma non ha ancora una data. La struttura rappresenterebbe uno spiraglio di luce nel buio dei 33 centri di detenzione libici, istituti nel 2012 dall’Autorità per la Lotta all’Immigrazione Clandestina e gestiti in alcuni casi anche da gruppi criminali, come emerso da un’inchiesta ONU.
LE CRITICHE. Nel frattempo l’OIM avrebbe un obiettivo ancora più immediato: permettere a 15.000 migranti di far ritorno nei paesi di origine prima della fine dell’anno 2017 ed essere assistiti nel reintegrarsi. Si tratta di rientri volontari, una scelta che Aboubakar Soumahoro sintetizza con una metafora:” ti privo anche di una goccia d’acqua, poi torno e ti dico: vuoi questa goccia d’acqua?”. Elisa De Pieri, ricercatrice di Amnesty International per l’Europa e l’Asia centrale sostiene che il rimpatrio volontario per molti migranti può essere una soluzione. “Ma qual è il livello di volontarietà se l’alternativa è la detenzione in condizioni disumane, o rischiare la vita in mare? Tornare a casa per qualcuno rappresenta un pericolo e potrebbe essere persuaso a farlo dalle condizioni che vive“.
Federico Fossi, UNHCR, precisa: “Partiamo dal presupposto essenziale secondo il quale i rifugiati non devono mai essere rimandati indietro in nessun luogo, incluso il loro paese di origine. Il rimpatrio sostenibile dei migranti che si trovano in una situazione di irregolarità e che non hanno bisogno di protezione internazionale rientra nella prerogativa degli Stati e della loro gestione dei flussi migratori. Detto questo, i rimpatri devono avvenire nel pieno rispetto della sicurezza, della dignità e dei diritti umani dei migranti“.
Amnesty International, che ha pubblicato di recente il rapporto Libya’s: dark web of collusion, ha definito il risultato del summit di Abijidan una foglia di fico umanitaria: “Senza alcuno sforzo per cambiare il sistema di detenzione automatico, le misure annunciate possono essere un aiuto ma non sono sufficienti. Si è scaricata troppo la responsabilità sulle organizzazioni umanitarie: il governo italiano deve fare di più“, continua Elisa De Pieri.
IL RUOLO DELL’ITALIA. E nel frattempo qualcosa l’Italia ha fatto, innanzitutto per i confini. Il 9 dicembre il ministro dell’interno Marco Minniti e Fayez Al Serraj premier libico si sono incontrati per dare vita a una cabina di regia comune che ha il compito di contrastare scafisti e trafficanti: ” L’Italia e l’Europa hanno un focus su trafficanti ma poco sulla protezione delle persone in Libia. La lotta ai trafficanti si deve fare ma non è l’unica soluzione. Si è deciso di porre un freno agli arrivi. La strategia è cambiata: da una politica di accoglimento l’Italia sta operando violando i suoi obblighi di protezione dei diritti umani. La Libia ha bisogno dell’Italia e la cooperazione va ripensata totalmente su questo, è necessario imporre condizioni per eliminare la detenzione automatica dei migranti“, conclude Elisa De Pieri.
IL RUOLO DELL’UNIONE AFRICANA. In questo scenario mediterraneo, le responsabilità sono da tutte e due le parti del mare: oltre l’Italia e oltre la Libia. Ma nessuno se le prende. “Noi africani dobbiamo ricostruire la nostra personalità collettiva prima di chiedere ad altri di farlo per noi. L’UA manca di visione o ha una visione ma non la pratica. A chi risponde una organizzazione che ha più della metà del suo budget che non proviene dalla quotizzazione degli stati? Che autonomia, indipendenza e autorevolezza ha rispetto a decisioni che riguardano la popolazione africana? C’è un gioco di complicità nella messa al bando del presente e del futuro del continente e infatti in tutta l’Africa c’è un fermento sociale dal basso. Qui non se ne parla, ma la gente sta interrogando i dirigenti. Si portano avanti continue campagne per invitare le persone a restare, ma cosa si fa per garantire una condizione di vita dignitosa? Viaggiare è piacevole, migrare no“, conclude Aboubakar Soumahoro.