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Ti racconto la mia – Quando l’occasione di lavoro diventa un ricatto.

Maria Laura è una mamma precaria e ha tre figli. Lavora in ospedale e una mattina all’alba viene bloccata tra il muro e la fotocopiatrice da un collega. Quando scrive, ricorda le mani sul collo e la lingua che cercava di entrare nella sua bocca serrata. Lo ha detto a qualcuno, ma poi ha pensato ai bambini che l’aspettavano a casa e alle bollette da pagare, quelle sì inevitabili. 
Carla invece era la più promettente dell’ufficio. Il capo l’ha notata subito: l’ha stimolata, sostenuta e l’ha fatta salire di grado velocemente. Poi un giorno, erano in macchina e le ha messo la mano sulla coscia. Lei ricorda di aver smesso di respirare, ma soprattutto il senso di schifo per se stessa, come se ogni successo ottenuto non avesse più nessun valore. C’è sopratutto la rabbia nelle storie che quaranta lettrici (ma anche qualche lettore) hanno deciso di inviare a ilfattoquotidiano.it (casella mail tiraccontolamia@ilfattoquotidiano.it) per parlare delle molestie sul lavoro: la rabbia di chi sa di aver ceduto a un vero e proprio ricatto solo per poter proteggere ciò che spettava di diritto, un posto fisso oppure una promozione. Poi la vergogna e il senso di colpa, quella domanda che ritorna a martellare in testa: forse sono io? La sceneggiatura è più o meno sempre la stessa: c’è un superiore, la maggior parte delle volte uomo, che usa il suo potere per chiedere qualcosa di più sapendo che resterà impunito. La vittima molto spesso, troppo spesso, è precaria: è sola e soprattutto non vuole accettare di dover rinunciare alla sua occasione di stabilità per colpa di un aguzzino incontrato per la strada. Di solito, vince sempre l’aguzzino. Qualcuna ha denunciato. Altre non hanno voluto, o non avevano abbastanza prove. Altre ancora hanno una scia di violenze che si trascinano dall’infanzia: famigliari, amici o conoscenti. Episodi che perseguitano la memoria e che rendono ancora più difficile venire allo scoperto.

Caterina è tra quelle che hanno trovato la forza di denunciare. Ricorda le mani sul seno e sul sedere ogni giorno in ufficio, ad ogni occasione buona. Ricorda che ha avuto bisogno della sua famiglia per riuscire a reagire. Angela era in prova da qualche mese quando il capo le ha chiesto prima di uscire e poi di salire in casa con lui. Ha detto due sì e si è fermata al terzo: non voleva avere rapporti sessuali con il suo superiore. Il lavoro non lo ha mai avuto. Carlotta è stata per mesi la dama di compagnia del suo capo: sognava un contratto fisso e per questo ha accettato tutto, come se “dal suo benessere con me dipendesse il mio futuro”. Non è mai stata assunta. E al colloquio successivo per un’azienda il responsabile le ha chiesto di chinarsi e simulare di raccogliere una monetina: lo ha fatto, presa dall’imbarazzo e dall’ansia di chi ha bisogno di uno stipendio a fine mese. Se ne è vergognata per anni. Arianna faceva l’attrice e ha lasciato l’Italia dopo che, per l’ennesima volta, un produttore l’ha accolta nell’ufficio facendole vedere “quanto era eccitato il suo pene”. Laura è stata costretta ad assistere al regista che si masturbava mentre le teneva bloccati i polsi. Alice invece non ha mai dato l’esame di latino all’università: il professore le ha detto che se avesse voluto le domande, avrebbe dovuto andare in albergo da lui a fare uno spogliarello. Maria è una giornalista di successo. Il suo caporedattore un giorno, mentre discutevano della posizione da dare a una notizia, le ha messo la mano sui suoi genitali per darle un esempio concreto di “quanto spazio avrebbe voluto darle”.

Il caso Weinstein, nel bene o nel male, ha aperto una finestra sul mondo dello spettacolo. Ma gli abusi e le molestie non avvengono solo in quel contesto. Il lavoro è la dimensione che assorbe la maggior parte del tempo delle nostre vite e dove lo squilibrio delle posizioni di potere spesso è la condizione che crea un ricatto. E ogni contesto ha le sue dinamiche diverse. Abbiamo diviso le testimonianze ricevute in base alla professione: le aziende, dove i dipendenti sono inquadrati in specifiche mansioni e hanno come obiettivo quello di poter avanzare di grado; gli enti pubblici, dove la tutela del posto fisso rischia di diventare una gabbia in entrambi i sensi: chi da una parte subisce la violenza o la molestia teme di perdere la garanzia guadagnata con fatica, dall’altra chi la esercita si sente intoccabile. Poi la scoperta del mondo dei precari: la maggior parte delle storie vengono da loro, ultra trentenni che non possono nemmeno immaginare di non avere il lavoro, ragazze che stringono i denti e sopportano perché c’è il mutuo da pagare, donne sole che vengono colpite perché ritenute deboli. Da non dimenticare il giornalismo, luogo di uomini con dinamiche consolidate in cui portare a un colloquio un mazzo di rose rosse viene considerato da molti semplice adulazione. Ma a cui, se c’è un rifiuto, segue la perdita del lavoro. Infine naturalmente il mondo dello spettacolo, ma anche quello opposto dell’università, dove professori molto potenti minacciano di non far andare avanti le allieve.
Le testimonianze raccolte parlano di violenze e molestie. Ma non solo. Dalle lettere risalta con chiarezza un clima di sessismo e maschilismo negli ambienti di lavoro che, quando viene raccontato sempre simile e con le stesse dinamiche in decine di lettere, costringe anche i più scettici a riconoscere almeno che esiste un problema. Le battute sono all’ordine del giorno, dove chiamarle battute è il primo errore: non fanno ridere nessuno se non chi le ha inventate. Gli altri devono mostrarsi divertiti. Le donne in particolare, altrimenti sono definite “bigotte” o “noiose”. “Ti piace scopare eh?”, ha detto il dirigente alla 21enne mentre puliva una sala ricevimenti. “E’ la mia posizione preferita”, ha sussuratto un capo alla sua segretaria mentre chinata studiava i documenti. “Vi abbiamo fatto dirigenti, ora potete stare zitte?”, ha detto un altro. Poi le osservazioni sui vestiti “da maestrina” o le lamentele perché la dipendente non porta abbastanza la minigonna: le lavoratrici sono controllate e riempite di attenzioni, con osservazioni sul fisico che infastidiscono e mettono in imbarazzo. E’ un capitolo difficile da spiegare a chi non lo ha mai subito, ma racconta il disagio di donne che lavorano in ambienti dove la volgarità, il sesso, la scopata, sono normali conversazioni da bar che – secondo i colleghi maschi – non dovrebbero scandalizzare nessuno. Tra tutte le storie basti quella di Stefania: ha passato la prima settimana in prova ad ascoltare i racconti delle performance sessuali del vicedirettore di un’agenzia pubblicitaria. Si è lamentata e quella prova non l’ha mai superata.

Sono pochi gli uomini che ci hanno scritto. Volutamente abbiamo scelto di aprire la nostra inchiesta a tutti coloro che si sono sentiti molestati o discriminati sul posto di lavoro, consapevoli che molte volte non dipenda dal genere. Per il momento abbiamo ricevuto solo tre testimonianze maschili su cui stiamo lavorando per proporre, nelle prossime settimane, un focus dedicato proprio agli uomini (alla mail tiraccontolamia@ilfattoquotidiano.it potete inviarci le vostre esperienze). Nei prossimi giorni seguiranno altre puntate di approfondimento sul tema, dai codici di condotta delle aziende alle difficoltà di supporto nei confronti di chi si sente vittima. Abbiamo deciso di dedicare la prima puntata alle storie che ci sono arrivate e come prima cosa, abbiamo scelto di pubblicare integralmente tutte le lettere ricevute. I nomi (tranne uno che pubblichiamo su richiesta della protagonista) sono di fantasia per proteggere l’anonimato di chi si è aperto con noi. In quei racconti dettagliati c’è una fotografia, sicuramente parziale ma autentica, del mondo del lavoro in Italia.
 | 23 novembre 2017