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L’ODISSEA DI UN RIFUGIATO: “PERSEGUITATO PERCHÉ GAY, ORA HO OTTENUTO L’ASILO”

Testo e foto di Fabio Fantozzi(15 novembre 2017)
“Come fanno gli aerei a volare?” David non ha mai preso un aereo e pensa ci sia qualcosa di magico nel volo di un oggetto così pesante. I suoi occhi però hanno visto la morte più volte, a soli 20 anni. Nella traversata dalla Nigeria, alle carceri libiche fino al naufragio che l’ha portato in Italia. Sul corpo di David ancora i segni delle violenze subite nel suo Paese e quelli dell’inferno libico, nel suo animo le tante ferite invisibili che di notte diventano tremori, attacchi di panico, ansia.

Era il 31 luglio 2016 quando prese la decisione della sua vita: lasciare la Nigeria e dirigersi in Europa, abbandonare l’università, la sua famiglia, l’amore. “Nel mio Paese non ero libero – confessa – per me era l’unica scelta tra la possibilità di una vita migliore o la morte, che comunque è sempre meglio della persecuzione”.
David voleva soltanto amare un altro ragazzo ma in Nigeria le relazioni omosessuali sono reato: negli Stati cristiani del Sud si rischiano 14 anni di prigione mentre nelle zone islamiche del Nord si può morire lapidati. “Avevo conosciuto Joel nel mio villaggio – racconta – ci siamo scambiati degli sguardi per anni fino a quando abbiamo avuto il coraggio di parlarci e confessarci la nostra attrazione”. David e Joel, innamorati, si frequentavano di nascosto. Un giorno Joel andò a trovarlo al Politecnico di Auchi, dove studiava Economia, e rimase a dormire nella sua stanza del college. Altre volte in passato David era stato fatto oggetto di scherni e soprusi da parte dei suoi compagni, tante imboscate e insulti, fino a quel giorno che ha cambiato la sua vita. Nel cuore della notte i suoi compagni sfondano la porta della sua stanza e li colgono insieme. Joel riesce a scappare mentre David viene massacrato di botte e infine gettato dalla finestra. Era il terzo piano.
Viene piantonato all’ospedale, dove passa più di un mese, i medici vogliono amputargli il braccio ma alla fine, su insistenza della madre, riescono a salvarlo. Oggi quell’arto, fuori uso, è lì a ricordargli quel giorno, a farlo sentire ancora più diverso dagli altri. David se l’è cavata con una settimana di prigione, ma quella disavventura gli è costata l’esilio e sul suo capo pende ancora l’accusa ‘infamante’ di omosessualità. Joel invece è dovuto fuggire in un altro Paese africano. “Mio padre è un poliziotto e grazie a lui sono potuto uscire di prigione – spiega David – ha pagato tanti soldi per farmi uscire dalle sbarre, dove al dolore interiore si aggiungeva quello fisico. Mi pose una condizione: che lasciassi l’università e la città, perché la mia sessualità era motivo di scandalo e imbarazzo per la famiglia”.
Arriva il grande giorno. “Mamma, ho deciso di partire, non chiedermi dove andrò e non cercarmi, voglio solo essere me stesso”. Prima tappa una cittadina lontano dal suo villaggio, dove ha lavorato presso un hotel per racimolare qualche soldo: 40 euro al mese, di cui 9 andavano per l’affitto della stanza. Dopo un mese riesce ad attraversare la frontiera senza passaporto. “Il Niger è un posto terribile, ho dormito tre giorni per strada, ho preso qualche bus e pagato qualcuno che mi portasse verso la Libia: mi ci è voluta una settimana per attraversare il deserto, nelle rotte dei migranti ho visto tanti cadaveri, inghiottiti dalla sabbia, molti vagavano col timore che la polizia arrivasse per arrestarli e riportarli nel proprio Paese”. David riesce a giungere la Libia nascondendosi nel bagagliaio di una macchina, dopo pochi giorni viene fermato sprovvisto di passaporto e portato a Sebha, nel sud-ovest del Paese.
La prigione di Sebha è tristemente nota ai migranti. “Eravamo centinaia, ammassati, dormivamo per terra e non ci davano da mangiare, in molti morivano di stenti o di torture – racconta David – ma se pagavi potevi uscire”. Vista la sua giovane età, il direttore del carcere concede a David di poter uscire di giorno per svolgere qualche lavoretto che gli permettesse di comprarsi la libertà. Un mese a lavare le macchine, un lunghissimo mese di inferno che gli è costata anche una coltellata sulla spalla, prima di poter uscire e giungere a Tripoli. Nella capitale libica altri lavoretti e il contatto con un trafficante di uomini ghanese. “Sei sicuro che vuoi intraprendere questo viaggio? In molti muoiono annegati e nessuno li salva.” Ma David aveva già deciso da un pezzo, era la sua ultima carta da tentare per la libertà e una vita migliore, tanto valeva correre quel rischio.
“Sul gommone non c’era nessuno scafista, ci avevano dato una bussola e ci avevano raccomandato di seguire sempre la stessa rotta fino alle luci di Lampedusa” ricorda. Siamo partiti intorno alle 10 di mattina, eravamo circa 120, ammassati, tra cui bambini e diverse donne incinte, che probabilmente erano state violentate. Non ci hanno permesso di portare nemmeno l’acqua perché non c’era spazio. Dopo circa otto ore vediamo Lampedusa in lontananza, il gommone si rovescia, muoiono affogate circa 70 persone”. Col braccio invalido David riesce a nuotare a stento finché arriva il soccorso della Guardia Costiera. Nel centro di accoglienza di Lampedusa eseguono tutte le analisi del sangue e dispensano le cure necessarie. Procedono a una prima selezione degli arrivati in base al paese di origine, documenti, stato di salute e motivazioni.
“Io non sapevo niente delle varie forme di protezione umanitaria o permessi di soggiorno – spiega ingenuamente – quando la polizia mi chiese perché volevo restare in Italia ho raccontato la mia storia e mi hanno mandato in pullman a Roma. Sono rimasto una settimana nel centro di accoglienza per i richiedenti asilo (CARA) di Castelnuovo di Porto, poi mi ha interrogato la commissione territoriale che ha deciso di riconoscere al mio caso non un permesso di soggiorno per motivi umanitari di due anni ma quello per asilo politico di cinque anni rinnovabile”. Lo status di rifugiato è concesso allo straniero, che dimostri un fondato timore di subire nel proprio paese una persecuzione personale ai sensi della Convenzione di Ginevra, compresa quella per motivi di genere, e il caso di David era tra questi: la prova più evidente è stata l’invalidità del braccio.
David ha passato un anno in un centro di accoglienza vicino Viterbo, “un posto sperduto nelle campagne con tanti cinghiali”, di Roma ha visto solo la stazione Termini ma vorrebbe tanto visitarla. Ha ricevuto il contributo di 75 euro al mese, 2,5 al giorno, previsto per le piccole spese ma che qualche volta è riuscito anche a mandare ai suoi familiari, con cui ha ripreso i contatti. Ora deve lasciare il centro, cercarsi un posto dove dormire e un lavoro.
Lì fuori non conosce nessuno se non la comunità gay nigeriana in Italia che potrebbe essere un punto d’appoggio. Hanno una chat e un gruppo su WhatsApp con cui diffondono notizie di persecuzioni contro omosessuali in Nigeria e due-tre volte l’anno si radunano in una città del Nord Italia. “Da noi non ci sono locali e a volte di nascosto organizzano piccole feste in hotel a costi enormi – spiega David – queste sono le foto degli arrestati in seguito all’ultima retata della polizia, è molto triste che i miei coetanei finiscano in carcere per voler esprimere la propria sessualità”.
Nel centro David si sente protetto ma isolato dal mondo: nessuno osa prenderlo in giro perché potrebbe essere cacciato. Sta imparando a fatica l’italiano, mentre conosce a memoria l’inno di Mameli che ama cantare col suo “elmo di Scemio”. A distanza di un anno non riesce ancora a dormire bene, di notte si affacciano incubi e tremori. Il mare, con le sue onde, gli fa paura e non comprende perché a noi piaccia così tanto. “Carpe diem” riporta la calamita sul frigorifero. “Che posto è?” mi chiede David. “Non è un posto ma forse un luogo dell’anima che fa parte di te”.