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L’impasse americana in Siria e nei rapporti con la Russia

Federico Punzi 13/11/2017
No. Non c’è accordo tra Stati Uniti e Russia sul futuro assetto della Siria una volta sconfitto l’Isis. Premessa: bisogna ricordare che la guerra civile siriana precede l’ascesa dello Stato islamico, che ha approfittato del caos nel Paese per conquistarne ampie porzioni di territorio, quindi la sconfitta del Califfato è condizione necessaria ma di per sé non sufficiente per arrivare a una soluzione della crisi siriana.
Il comunicato congiunto Usa-Russia diffuso dopo il vertice dell’APEC in Vietnam è il minimo sindacale per far capire che le parti continuano a dialogare, ma le posizioni sono ancora piuttosto lontane. E non c’è dubbio che il Russiagate, l’indagine sulle interferenze di Mosca nelle presidenziali americane del 2016 e sulla presunta collusione con la campagna Trump, non aiuta. Sospetti, polemiche, inchieste che legano le mani soprattutto all’amministrazione Trump che politicamente non può permettersi di mettere sul tavolo concessioni nel tentativo di “scongelamento” dei rapporti con Mosca. Ha destato sconcerto la sola disposizione del presidente Trump a dare credito al presidente russo Putin, quando nega ogni coinvolgimento, piuttosto che alla propria intelligence community (la quale sarebbe stata in grado di “accertare” la mano russa dietro l’hackeraggio dei sistemi informatici del Comitato democratico addirittura senza bisogno di esaminare fisicamente i server colpiti…), ma è pur vero che negli ultimi anni non sono mancati casi dei rapporti d’intelligence Usa piegati a fini politici (Bengasi, Iran, Uranium One eccetera…).
Concessioni (e che concessioni!) poterono permettersele invece nel 2009 l’allora presidente Barack Obama e il suo segretario di Stato Hillary Clinton nel loro tentativo di “reset” dei rapporti con Mosca. Reset caldamente incoraggiato all’epoca, nonostante Putin avesse già invaso la Georgia e riconosciuto l’indipendenza di Ossezia del Sud e Abcasia. Parentesi: Facebook e Twitter c’erano anche nel 2012, così come Russia Today, l’ammiraglia della propaganda del Cremlino. Tenderei ad escludere che le operazioni di “disinformatia” russa in Occidente siano una novità del 2016, dal momento che vanno avanti da circa un secolo, e usando i criteri odierni non è difficile immaginare quale potesse essere nel 2008 e nel 2012 il candidato “preferito” da Mosca. Nel 2012, minimizzare le minacce russe alla sicurezza americana fu una posizione centrale della campagna di rielezione di Obama, ma veniva presentato come lungimirante, mentre venivano bollate come anacronistiche le posizioni anti-russe del suo avversario repubblicano Romney. Questione di “contesto”…
Tornando al comunicato, preparato dagli sherpa dei due Paesi e concordato dal ministro degli Affari esteri russo Sergej Lavrov e dal segretario di Stato Usa Rex Tillerson, Stati Uniti e Russia concordano su tre punti. Conferma dei canali di comunicazione militari esistenti per prevenire incidenti e garantire la sicurezza delle forze armate statunitensi e russe impegnate in Siria. Conferma dell’impegno a mantenere sovranità, indipendenza e integrità territoriale della Siria. E infine le due potenze si trovano d’accordo nel ritenere che non esista una soluzione militare al conflitto e che la soluzione politica debba essere trovata nell’ambito del processo di Ginevra in base alla risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu, al quale invitano a partecipare tutte le parti coinvolte nel conflitto siriano. Un punto non scontato quest’ultimo, dal momento che Putin ha investito politicamente molto nel processo parallelo di Astana con Iran e Turchia, ma è pur vero che il presidente russo ha già dimostrato di saper giocare su entrambi i tavoli.
Gli Stati Uniti in Siria si trovano in una posizione oggettivamente difficile in gran parte ereditata dagli errori dell’amministrazione Obama. Pur avendo contribuito in misura decisiva alla sconfitta ormai prossima dell’Isis, almeno come entità semi-statuale che era arrivata ad occupare grandi porzioni di territorio a cavallo di Siria e Iraq, rischiano di vedersi espulsi – di fatto, anche se non formalmente – dal processo di definizione del futuro assetto della Siria.
Ciò che ancora divide Russia e Stati Uniti è la permanenza di Assad al potere, ovvero in ultima analisi l’influenza dell’Iran sul Paese. Mosca non può rinunciarvi, perché è il regime di Assad la saldatura della sua collaborazione con Teheran in Siria, e dunque l’asse portante della sua partnership strategica con il regime degli ayatollah. E finché Washington non sarà in grado di offrire a Putin un tavolo per la risoluzione di tutti i fronti di attrito tra Occidente e Russia, in breve per una nuova Yalta, il presidente russo si terrà ben stretto la sua alleanza con Teheran. Peccato che finché l’amministrazione Trump sarà incalzata dal fantasma del Russiagate non potrà aprire quel tavolo e dunque nemmeno “tentare” la Russia per indurla ad abbandonare gli iraniani.
Somiglia molto a un vicolo cieco. Da una parte, il groviglio di errori commessi in Medio Oriente dall’amministrazione Obama (le incertezze e la confusione nella guerra civile siriana, e più in generale sulle cosiddette primavere arabe; il vuoto lasciato in Iraq; l’accordo sul programma nucleare iraniano, chiudendo entrambi gli occhi su tutte le altre attività destabilizzanti dell’Iran nella regione) ha offerto un’occasione storica ghiottissima alla Russia per tornare dopo 40 anni in Medio Oriente e all’Iran per estendere la sua influenza sul mondo arabo come mai prima in epoca moderna. Dall’altra, il Russiagate imbastito dal “deep state” obamiano e dalla campagna Clinton limita le opzioni dell’amministrazione Trump per normalizzare i rapporti con Mosca e contrastare l’espansionismo iraniano.
La prima mossa di Trump è stata quella di riallacciare i rapporti con i tradizionali alleati nella regione, Israele e Arabia Saudita, cui Obama aveva voltato le spalle pensando che la fine delle sanzioni prevista dall’accordo sul programma nucleare avrebbe trasformato l’Iran in un fattore di stabilità regionale. Miliardi di dollari, sia cash sia frutto della ripresa dei rapporti commerciali, sono affluiti nella “pipeline” delle attività terroristiche e destabilizzanti di Teheran nella regione in cambio di un semplice rinvio di qualche anno dell’atomica iraniana. Ma a questa prima mossa dovranno seguirne altre da parte di Washington per dare seguito alla nuova strategia nei confronti dell’Iran enunciata dal presidente Trump poche settimane fa.