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Raqqa e il futuro dell’area mediorientale

20 Ottobre 2017

Cosa accadrà in Medio Oriente dopo la caduta di Raqqa? Ne parliamo con il professor Massimo Campanini

Se la caduta di Raqqa rappresenta l’inizio della fine di Daesh, non bisogna farsi illusioni su una rapida conclusione della crisi nell’area mediorientale. A combattere gli uomini del califfato in Siria ed Iraq, infatti, è stata una coalizione internazionale che, oltre a vedere coinvolte le truppe delle principali potenze mondiali (primi fra tutti Stati Uniti e Russia), è riuscita ad unire gruppi locali tradizionalmente nemici: curdi, sciiti e sunniti. Il venire meno del nemico comune, ora, rischia di mettere in crisi questa fragile unità, tanto più che ognuno dei vari gruppi che hanno collaborato nella lotta a Daesh ha propri interessi, spesso in contrasto con quegli altri cobelligeranti. La frattura del fronte si è già vista in Iraq dove, dopo la caduta di Mosul, i curdi hanno indetto un referendum per l’indipendenza del Kurdistan. Il referendum è stato considerato illegale dal Governo centrale e, nei giorni scorsi, truppe di Baghdad hanno attaccato la roccaforte curda di Kirkuk.
Ciò che accade nel Kurdistan iracheno sembra premettere ad una serie di conflitti locali che potrebbero scatenarsi ora che la minaccia del califfato sembra sconfitta.

Per approfondire la questione, abbiamo parlato con il professor Massimo Campanini, esperto di Storia dell’Islam e di area mediorientale.

Che cosa ha rappresentato, per Daesh, Raqqa? Quale era il rapporto tra la sua Capitale in Siria e quella in Iraq, Mosul?

Secondo me, bisogna innanzi tutto ricordare quello che è stato fin dall’inizio il progetto di Daesh, che è e ciò che lo differenziava da al-Qaeda, ovvero il radicamento territoriale: al-Qaeda era un’organizzazione che voleva esplicitamente essere trans-nazionale e, quindi, non aveva bisogno di un luogo fisico dove collocarsi; fin da quando è comparso nel 2014, invece, Daesh ha immediatamente cercato una collocazione e un radicamento territoriale. Lo ha trovato, ovviamente, in quella zona ambigua al confine tra la Siria e l’Iraq, appunto la zona di Raqqa e Mosul, che si trovava in una situazione di crisi: in Siria è in corso una guerra civile contro Bashar al-Assad e l’Iraq si trova in una situazione di disgregazione; la zona a cavallo tra i due Stati, Raqqa e Mosul, era particolarmente adatta per installare una forma stanziale di organizzazione politica.
Io ho avuto sempre molte perplessità riguardo all’uso e al tipo di simbologia di Daesh ma, comunque, l’alta Siria, nella tradizione dell’apocalittica e del millenarismo islamico, il luogo dove apparirà l’Anticristo, quindi il luogo dove si giocherà la lotta finale dell’Armageddon: anche a livello simbolico, quindi, questa posizione geografica risultava particolarmente appetibile. C’è questa duplice visione, strategico-politica e potenzialmente simbolica, che ha fatto di questa zona, resa fragile dal fallimento della Primavera Araba in Siria e dalla disgregazione dell’Iraq in quanto Stato unitario, il luogo perfetto per il progetto di Daesh.

Pensa che, dopo la caduta di Mosul, la riconquista di Raqqa segni l’inizio della fine per Daesh?

La domanda mi fa ritornare col pensiero al 2014. Proprio nel momento in cui Daesh emergeva e cominciava la sua, a mio avviso resistibile, ascesa in quei territori, gli studenti dell’Università di Trento organizzarono un’assemblea a cui io venni invitato in quanto insegnante di Storia dell’Islam: erano tutti spaventatissimi, come il resto dell’opinione pubblica d’Europa, del resto. Il succo del discorso che ho fatto agli studenti è stato questo: l’ISIS è una bufala. Con questo intendevo dire che io non sono mai stato convinto che Daesh fosse ciò che ci hanno detto; per questo ho sempre avuto l’impressione che dietro all’ISIS si muovessero interessi e convergenze che non possono essere ricondotte semplicemente all’insorgenza di un movimento terrorista islamico che voleva realizzare uno pseudo-califfato: secondo me, dietro a Daesh, si sono mossi attori mascherati che possono essere stati gli Stati Uniti, l’Arabia Saudita, Israele o il Qatar; si sono mossi degli interessi in cui io ho sempre visto la presenza di venditori di armi, di gruppi petroliferi, insomma, ho sempre visto Daesh come un’entità molto ambigua e completamente diversa da al-Qaeda, nonostante quanto sia stato accreditato dall’opinione comune.

Fatta questa premessa, alla domanda se con la caduta di Raqqa e di Mosul Daesh sia finito, rispondo che Daesh non è mai cominciato, nel senso che Daesh è stato un qualcosa che è stato costruito in maniera artefatta, facendo convogliare ed interagire elementi diversi tra cui ex-ufficiali sbandati dell’Esercito iracheno, elementi qaedisti deviati rispetto alla casa madre, interessi esterni di Arabia Saudita, Qatar o di Israele e degli Stati Uniti, piuttosto che dei venditori di armi o delle ‘Sette Sorelle‘: tutto questo brodo di coltura, opportunamente catalizzato, ha prodotto Daesh.

Il fatto che adesso abbia perduto questa centralità territoriale, che aveva cercato fin dall’inizio, fa sì che Daesh sia finito: ai ragazzi di Trento avevo detto che tra due tre anni da allora Daesh non sarebbe più esistito, ed è esattamente ciò che è accaduto.

Se il discorso significa, invece, che la caduta di Raqqa segnerà la fine del terrorismo, la risposta è naturalmente negativa: il terrorismo continuerà ancora e potrà colpire ancora più indiscriminatamente perché è evidente che quel convergere di fattori che hanno provocato il fenomeno terrorista di Daesh è ancora totalmente operante. Anche se non saranno in grado di riorganizzarsi territorialmente, ci saranno comunque ‘cani sciolti’ o micro-organizzazioni che cercheranno di ramificarsi in giro per il Medio Oriente o di colpire nuovamente in Europa. La caduta del cosiddetto Stato islamico non vuol dire affatto che il terrorismo sia finito, anche perché, se vogliamo ammettere che Daesh fosse veramente ciò che ci hanno detto che fosse, le cause che hanno provocato Daesh, così come le cause che prima avevano provocato al-Qaeda, sono ancora tutte sul terreno: la crisi economica che ha impoverito le classi medie, la disgregazione politica dello Stato in Medio Oriente, la presenza a lungo termine di dittature militari, l’interferenza neo-colonialista dell’Europa e soprattutto degli Stati Uniti (e, se vuole, anche della Russia), la xenofobia e lo scontro di civiltà che pone l’Islam e i non europei al centro di attenzione morbosa; tutti questi fattori sono ancora pienamente operanti. Quindi, Daesh, secondo me, è stato un fenomeno totalmente diverso da al-Qaeda ma, anche ammettendo che fosse un fenomeno consecutivo rispetto ad al-Qaeda, le cause che hanno provocato, ancora prima dell’emergere di al-Qaeda, l’emergere delle formazioni di lotta armata degli anni ’70, ’80 e ’90 del secolo scorso, sono ancora tutte sul terreno. Non c’è alcun dubbio che, dopo la fine di al-Qaeda e Daesh, verrà fuori un terzo soggetto che raccoglierà il testimone del terrorismo.

Secondo alcuni analisti, l’azione del califfato ha segnato la fine degli equilibri creati dopo la Grande Guerra a partire dagli Accordi Sykes-Picot (che sancivano il dominio, politico ma anche ideologico, sull’area da parte delle potenze europee): se la fine del dominio politico era già arrivata con la Decolonizzazione, è possibile che la presenza dello stato islamico, che all’universalismo di stampo liberale europeo sostituisce l’universalismo della religione musulmana, segni la fine del dominio dell’ideologia europea?

Innanzi tutto, agli Accordi Sykes-Picot bisogna aggiungere la Dichiarazione Balfour, perché gli Accordi Sykes-Picot, senza la Dichiarazione Balfour, non volevano dire assolutamente niente: certamente c’è stata una spartizione mandataria del Medio Oriente, ma c’è stata anche la Dichiarazione Balfour che praticamente apre la strada all’immigrazione ebraica in Madio Oriente e quindi alla nascita dello Stato di Israele. La nascita dello Stato di Israele è stata, assieme all’esperienza mandataria, uno dei fattori fondamentali di disgregazione degli equilibri in Medio Oriente.

Partendo da questo presupposto, la mia opinione è che la fine di un certo tipo di equilibri in Medio Oriente è ben precedente a Daesh e ad al-Qaeda: la fine di questi equilibri avviene con la fine del periodo della Decolonizzazione, quindi bisogna risalire agli anni ’70. In ogni caso, la vera data spartiacque è il 2003, ovvero la sciagurata ed insensata guerra contro Saddam Hussein del Presidente George W. Bush: quella è stata la vera idiozia mondiale che ha, di fatto, disgregato quel territorio e quella zona geo-politica e ha provocato l’emergere di correnti che poi non sono state più controllate.

Un elemento ulteriore di disgregazione è stato il fallimento delle Primavere Arabe. La disgregazione della Siria, della Libia (dove si dice che adesso Daesh stia cercando di riconsolidarsi e di riradicarsi), la dissoluzione dello Yemen, la difficoltà che l’Arabia Saudita ha nel tenere sotto controllo tutti i contrasti, hanno avuto quattro date di snodo fondamentali: il 1967, ovvero la fine del periodo della Decolonizzazione con la caduta di Nasser; l’11 settembre 2001, che ha segnato un salto di qualità in questo tipo di lotta internazionalista ammantata di islamismo; il 2003, con la guerra di Bush in Medio Oriente (una delle più grosse idiozie che siano mai state fatte nella Storia Contemporanea); il 2010, con le Primavere Arabe e i loro effetti disastrosi. Certamente Gheddafi, Assad, Mubarak, Ben Ali erano dei dittatori, però erano dei dittatori che stabilizzavano: nel momento in cui queste dittature sono cadute, nel vuoto di potere venuto a crearsi hanno potuto infilarsi, anche sostenute dall’Arabia Saudita (che ha sempre sostenuto al-Nousra), delle correnti e delle organizzazioni che hanno evidentemente peggiorato la situazione e hanno trasformato il Medio Oriente in quello che oggi è veramente un buco nero. La caduta di Raqqa e di Daesh, quindi, non vuol dire assolutamente la soluzione dei problemi del Medio Oriente.

Le cinque Primavere Arabe sono state molto diverse una dall’altra, sia per motivazioni, sia per contestualizzazione, sia per svolgimento, sia per soluzione: quello che è accaduto in Tunisia è completamente diverso da quello che è avvenuto in Egitto, in Siria e così via; a mio avviso, alcune di queste Primavere Arabe, principalmente quella libica, sono state, se non proprio ‘etero-dirette’, comunque diverse da come ci sono state presentate (se non ci fosse stato l’intervento diretto della NATO, dell’Europa e soprattutto della Francia, Gheddafi non sarebbe caduto perché aveva un appoggio tribale e perché la situazione libica). Considerate queste variabili, si può dire che le Primavere Arabe sono fallite perché si è tentato di applicare un tipo di modello che non è congruo (se non attraverso una serie di correzioni e di adattamenti alle situazioni locali): una democrazia mediorientale non può essere identica ad una democrazia europea e non può esserlo perché la Storia è stata diversa, le condizioni sono diverse, le situazioni sociali, politiche ed economiche sono state e sono attualmente diverse.

Questo per quanto riguarda il condizionamento esterno delle Primavere Arabe, il neo-colonialismo dell’Occidente. Se le guardiamo dall’interno, invece, il problema fondamentale è che, anche là dove queste sollevazioni sono state veramente popolari, come in Tunisia e in Egitto (in Siria forse, in Libia no), si è trattato di rivolte spontanee, prive di un retroterra di direzione politica che avrebbe potuto realizzare un’autentica trasformazione istituzionale. Il risultato, infatti, è che la Siria è caduta nella guerra civile, l’Egitto è tornato ad un regime militare peggiore di quello di Mubarak, la Libia e lo Yemen si sono disgregati; la Tunisia è l’unica che sta cercando di uscire dal guado, ma con delle forti tensioni e delle dialettiche politiche interne non facili da risolvere: in tutte queste situazioni, per motivazioni tanto interne quanto esterne, è chiaro che questo tipo di esperienza si è rivelata, non solo fallimentare, ma addirittura peggiorativa e ha aumentato la situazione di disordine e di caos in cui il Medio Oriente già versava per la presenza di queste forze oscure, qaediste o jihadiste che dir si voglia, che già operavano nella zona.Con il diminuire della comune minaccia di Daesh, l’alleanza interna tra sciiti, sunniti e curdi cederà probabilmente il posto alle vecchie rivalità (si veda ciò che accade in questi giorni a Kirkuk tra curdi e governo iracheno): la fine della guerra al califfato segnerà l’inizio di altre guerre?


Al di là del fatto che curdi abbiano dato un contributo militare essenziale prima alla resistenza, poi alla sconfitta di Daesh, l’aver celebrato il referendum sull’unità del Kurdistan in questa situazione è una cosa folle allo stesso livello della Brexit e della Catalogna che se ne vuole andare dalla Spagna; in una situazione di mancanza di centro aggregante, di vuoti di potere (con la Siria disgregata, con l’Iraq i cui pezzi vanno ognuno per proprio conto, con lo Yemen in guerra, con la rivalità tra l’Arabia Saudita e l’Iran, con Israele che soffia sul fuoco appena può), realizzare uno Stato curdo (che vorrebbe dire togliere un quinto del territorio turco, togliere una grossa fetta nord-occidentale del territorio iraniano, separare una parte della Siria, eliminare definitivamente l’unità dello Stato iracheno) sarebbe una ‘bomba atomica’. Avendo studiato la Storia del Kurdistan, so che i curdi si sono sempre fatti la guerra tra di loro e quindi la loro situazione è anche, in gran parte, conseguenza delle loro rivalità interne, quindi personalmente non ho molta simpatia per l’irredentismo curdo in generale; a parte questo, però, dal punto di vista puramente strategico e relativo ad una logica di ricostruzione politica del Medio Oriente, creare oggi uno Stato curdo sarebbe un ulteriore elemento di disgregazione e di caos: una follia esattamente come la Brexit o come una secessione catalana, che potrebbe avere conseguenze potenzialmente distruttive non solo per la Spagna ma per tutta l’Europa.

Inoltre, i curdi hanno fatto questo referendum, ma non sono assolutamente d’accordo tra loro: i curdi iracheni non sono d’accordo con i curdi iraniani, il clan Barzani con il clan Talabani (che continuano ad essere avversari irriducibili), i curdi turchi del PKK non sono disponibili a sottomettersi al dominio ‘tribale’ dei Talabani. Non penso che uno Stato curdo potrebbe sussistere in questo modo: se vogliamo vederla in maniera positiva, si tratta di una sorta di romanticismo anti-storico, altrimenti bisogna considerarla una assoluta mancanza di logica di movimento politico all’interno di un quadro così complicato e difficile come quello dell’area mediorientale.

Ancora una volta, la caduta del califfato non ha risolto nessuno dei problemi che ne hanno provocato la nascita: fino a che quegli elementi economici e politici, quelle interferenze neo-coloniali e quelle rivalità di potere nel Golfo Persico, non saranno risolti, e certamente la caduta del califfato non costituisce una risoluzione, i problemi continueranno. Noi, in occidente, sappiamo benissimo come mai accadano certe cose, ma non vogliamo ammetterlo perché il riconoscerlo significherebbe riconoscere che dobbiamo cambiare radicalmente politica all’interno del Medio Oriente: abbandonare vecchi alleati come l’Arabia Saudita per rivolgersi verso altri. Alla fine del suo mandato, sembra che Barak Obama lo avesse capito; naturalmente Trump ha rovesciato immediatamente le aperture di Obama. Bisogna trovare una politica più equilibrata, più equidistante: non tutto a favore dell’Arabia Saudita e di Israele, mettendo nell’angolo l’Iran o la Turchia, semplicemente perché vogliamo che la politica del Medio Oriente sia quella che fa comodo a noi e non quella che risponde alle esigenze di riequilibrio politico, economico e strategico che emergono da quella zona. Finché non ci si rende conto che le politiche dell’Occidente (a cui va aggiunta la Russia) sono state sbagliate, a partire dagli Accordi Sykes-Picot ad oggi, e non ci si decide a cambiare questo tipo di politica, il Medio Oriente sarà sempre una polveriera che potrà deflagrare da un momento all’altro e provocare dei disastri inenarrabili.

Con la fine di questa fase del conflitto, che cosa bisognerà spettarsi, da un lato, dagli attori internazionali come Stati Uniti e Russia e, dall’altro, dalle potenze regionali, in particolare Iran, Arabia Saudita e Turchia?

La mia opinione è abbastanza pessimistica. Obama, nelle ultime fasi della sua presidenza, aveva fatto dei passi positivi e potenzialmente lungimiranti che, però, non ha fatto in tempo a concretizzare; la politica di Trump, in queste prime fasi della sua presidenza, a parte che non è chiaro quale sia la sua logica, è comunque una politica che ritorna a degli antichi errori, ovvero focalizza l’attenzione sui due alleati privilegiati (Arabia Saudita ed Israele) a svantaggio degli altri (Iran e Turchia). Questo tipo di politica non può che essere divisiva e non può che essere fonte di ulteriori complicazioni. In questo quadro, la Russia può avere una funzione stabilizzante dovuta al fatto che la politica di Putin è stata estremamente più coerente (ovviamente perseguendo gli interessi russi) di quella americana.

Se guardiamo quelli che sono gli attori fondamentali della zona, Turchia, Iran ed Arabia Saudita, è molto difficile che questi attori possano sedersi ad un tavolo e mettersi d’accordo su una politica comune quando hanno interessi completamente divergenti: l’Arabia Saudita e l’Iran utilizzano le loro differenze religiose, sunniti e sciiti, come copertura ideologica per giustificare la loro lotta egemonica che ha nelle risorse petrolifere del Golfo Persico come oggetto; la Turchia, che è sunnita e quindi potenzialmente alleata dell’Arabia Saudita, ma che viene da questa emarginata, potrebbe più facilmente optare per una convergenza con l’Iran. In questo gioco triangolare non è facile prevedere una soluzione o ipotizzare una ricomposizione. Oltre tutto, bisognerà vedere come e cosa le grandi potenze faranno della Siria: una Siria distrutta può essere un elemento di destabilizzazione enorme. In Siria ci sono interessi gli turchi, i curdi che vogliono andare per conto loro, i sauditi che continuano a finanziare i movimenti salafiti e reazionari all’interno di tutti i Paesi arabi: è estremamente difficile ipotizzare possibili quadri di soluzione del problema, e questo proprio perché le motivazioni che hanno portato a questo disastro, in cui è precipitato il Medio Oriente, sono ancora tutte irrisolte sul tavolo.

Finché queste contraddizioni non verranno risolte, sarà assolutamente impossibile, a mio avviso, ipotizzare una ricomposizione veramente stabile del quadro mediorientale; anche perché manca un pivot, un centro di stabilità permanente. Manca un’asse di equilibrio che possa stabilizzare queste scosse telluriche che percorrono la zona: nessuno ha né l’autorità, né la forza, né il prestigio per farlo. Se la Turchia si propone come capofila del sunnismo, ovviamente l’Arabia Saudita si oppone; se è l’Arabia Saudita a voler guidare i sunniti del Medio Oriente, la Turchia si oppone; l’Iran, che è sciita, va per ragioni politiche in un’altra direzione; in Nord-Africa, abbiamo un Egitto che potrebbe essere sull’orlo di una esplosione interna; in Libia, il presunto Presidente sostenuto dall’Occidente e quello che ha il potere effettivo, cioè Haftar, non riescono a mettersi d’accordo: in questo pasticcio è davvero molto difficile fare ipotesi attendibili. L’unica cosa che andrebbe fatta, a mio avviso, è mettersi tutti attorno ad un tavolo, a partire dall’Occidente, e cambiare veramente politica: questo non succederà in quanto mancano le condizioni perché possa succedere.