General

Quando fallisce lo Stato: fra crisi economica e settarismo la fine dell’Iraq e del Kurdistan

12 Ottobre 2017

Il referendum per l’indipendenza del Kurdistan iracheno complica la partita mediorientale. Ne parliamo con Loretta Napoleoni

L’Iraq è uno Stato  che, di fatto, esiste solo sulla carta. Nato poco più di un secolo fa sulle ceneri dell’Impero ottomano e disegnato a tavolino da Francia e Gran Bretagna, le due maggiori potenze coloniali dell’epoca, l’Iraq è sempre stato un grande ‘calderone’ multietnico  in cui far convivere a forza etnie religiose profondamente ostili l’una con l’altra, quali sunniti, sciiti e curdi. L’esasperato settarismo e il fallimento di quella ‘esportazione della democrazia’ tentata con il conflitto del 2003 , naufragata di fronte all’impossibilità di far accettare i valori democratici imponendoli con la forza, hanno dato un contributo decisivo al fallimento dello Stato iracheno. E l’influenza dei vicini iraniani, che ha trovato una sponda nei governi sciiti insediatesi a Baghdad nell’ultimo decennio, rischierà ancora di più di spaccare il Paese.

Il Kurdistan, attualmente, non è nemmeno uno Stato sovrano. Il referendum del 25 settembre non ha avuto valore vincolante ed il presidente Barzani non intende, al momento, dichiarare unilateralmente l’indipendenza: la consultazione verrà utilizzata come arma politica per tentare di portare Baghdad al tavolo del dialogo. Ma tanto una scelta secessionista quanto una maggiore autonomia dall’Iraq rischieranno di strangolare l’economia del Kurdistan. Un’economia fragile, eccessivamente dipendente dalle esportazioni petrolifere e priva di fonti di approvvigionamento autonome. E il sistema politico locale, largamente inquinato dalla corruzione dei funzionari pubblici, rischia di pregiudicare il futuro della nazione curda. Infine, se oggi un Kurdistan privo di sovranità non può certamente ricorrere ad aiuti internazionali per far fronte ai problemi economici, domani un Kurdistan indipendente si troverà sulle spalle il macigno del debito pubblico pregresso, attualmente nelle mani di Baghdad.

La nascita di due Stati falliti nel cuore del Medioriente rischia di accrescere ancor di più le radicalizzazioni già esistenti in un’area che non conosce pace e stabilità da decenni. Sulle cause di questa problematica e sugli scenari che potrebbe aprire abbiamo intervistato la Dottoressa Loretta Napoleoni economista e saggista di fama internazionale.

Dal punto di vista economico si può affermare, in particolare dopo il referendum in Kurdistan del 25 settembre, che tanto il Kurdistan quanto l’Iraq rischiano di diventare dei cosiddetti Stati falliti?

Secondo me si può affermare questa cosa soprattutto dal punto di vista della democrazia che non ha funzionato, ma dobbiamo poi decidere quale definizione di Stato fallito vogliamo dare. Certamente Iraq e Kurdistan stanno assomigliando sempre di più alla Somalia però nello stesso tempo non li considererei degli Stati veri e propri. Se si considerassero invece  i profili della situazione economica interna e dello scarso controllo che i rispettivi Paesi hanno sul territorio allora si potrebbe sicuramente dare questa definizione.

Il Kurdistan ha una serie di problemi economici piuttosto rilevanti primo fra tutti un’eccessiva dipendenza dalle esportazioni di petrolio, quanto ha influito tale dipendenza, anche in considerazione del calato prezzo del greggio avvenuto negli ultimi anni?

Si tratta di una dipendenza che ha pesato moltissimo perché stiamo parlando di regioni in cui il petrolio gioca un ruolo fondamentale. Quello è successo è che l’indipendenza, come nel caso della Catalogna, è legata al fatto che esiste una risorsa economica e che questa risorsa economica vuole essere gestita direttamente dalla popolazione locale, però si dimentica che la risorsa economica di per sé  non basta perché esistono anche le spese necessarie al mantenimento di uno Stato. Se si guarda alla Catalogna, ad esempio, stiamo vedendo come la sua possibile secessione dalla Spagna stia causando un terremoto economico e politico che potrebbe generare nella regione grandi difficoltà economiche. E la stessa cosa si può dire del Kurdistan: alla fine, questi movimenti di indipendenza tengono in considerazione solo le risorse e non i costi per gestirle. Se una regione si trova all’interno di uno Stato abbastanza grande, una nazione che funziona e che non è uno Stato rentier, allora le estrazioni della principale risorsa in quella regione non hanno un impatto economico così rilevante. Se viceversa una regione dipende esclusivamente da una risorsa e non ha alternative ad essa allora la situazione diventa seria ed in questo caso non converrebbe separarsi né guadagnare un’indipendenza, ma al contrario gestire un’autonomia regionale piuttosto che uno Stato nazionale.
Sulla scarsa capacità, da parte dei curdi, di gestire le proprie risorse in che modo ha pesato l’elevato tasso di nepotismo e di corruzione all’interno della regione?

Nepotismo e corruzione sono certamente degli elementi sempre negativi nell’organizzazione di uno Stato. Tuttavia, torno a ripetere che anche nel caso in cui non ci fossero, i problemi sussisterebbero lo stesso, non è che  un sistema non corrotto, mantenendo tutte le altre variabili immutate, avrebbe funzionato meglio,  vi è comunque, nel caso del Kurdistan, il problema dell’eccessiva dipendenza dal petrolio, che è la questione principale. La corruzione è sicuramente un problema che tutti i Paesi della regione hanno ed è un problema che si risolve nel lungo periodo attraverso un vero processo di democraticizzazione. Anche in Siria vi è una problematica analoga: tanto gli Assad in Siria quanto i Barzani in Kurdistan  sono famiglie che  sono da considerarsi corrotte, ma non secondo il significato di corruzione in senso mafioso che siamo abituati a conoscere in Occidente. Si tratta di famiglie tribali, clan familiari estesi che diventano organizzazioni tribali,  naturalmente vi sono tribù che hanno più potere di altre e questo evidenzia quanto siamo ancora lontani da quel processo di democraticizzazione che sarebbe auspicabile. L’organizzazione statuale di questa nazione funzionava certamente meglio all’epoca di una dittatura secolare come quella di Saddam Hussein in cui queste divisioni non esistevano più e paradossalmente si poteva superare la barriera della corruzione tribale entrando nell’esercito e facendo carriera al suo interno, una possibilità oggi impraticabile, attualmente è impensabile che un curdo possa entrare nell’esercito iracheno e fare carriera.

Spesso uno Stato fa fronte ad un problema di crisi economica finanziando il suo debito pubblico o ricorrendo ad aiuti economici internazionali, questo è impossibile per Kurdistan non essendo quest’ultimo uno Stato sovrano. Quanto pesa per i curdi questa impossibilità di ricorrere ad aiuti internazionali o al finanziamento del proprio debito a tassi credibili?

Chiaramente il debito pubblico sussiste solo nel momento in cui una regione diventa uno Stato indipendente, al contrario il debito della regione del Kurdistan è parte del debito pubblico dello Stato iracheno. Fino a quando il Kurdistan non si separerà realmente, sarà sempre Baghdad a rispondere del suo debito, debito che si sta accumulando negli anni. Il problema è che in seguito ad una eventuale indipendenza, il debito del Kurdistan aumenterà perché bisognerà sommare il debito proprio della regione alla parte di debito accumulata in passato ma che è ancora nelle mani di Baghdad. I processi di secessione generalmente aumentano il debito piuttosto che diminuirlo. Per quanto riguarda la questione degli aiuti internazionali, io non credo che la comunità internazionale intervenga a favore del Kurdistan aiutandolo a pagare il debito perché un’eventuale intervento in tal senso irriterebbe le Nazioni confinanti e destabilizzerebbe ancor di più la regione. Se dal punto di vista umanitario si può tentare di comprendere le istanze dei curdi, non si può d’altra parte fare a meno di guardare la realtà delle cose. Se il Kurdistan dovesse dichiarare l’indipendenza si rischierebbe una carneficina, si pensi anche solo a quello che potrebbe fare la Turchia, il Presidente  Tayyip Erdogan manderebbe l’esercito pur di evitare la secessione dei curdi.

Un progressivo distacco del Kurdistan dall’ Iraq, anche se al momento ancora  non ufficiale, quanto pesa in termini economici sullo Stato iracheno?

Io credo che rispetto ad una secessione della regione del Kurdistan, peserebbe molto di più un eventuale distacco della parte meridionale dell’Iraq. Gli iracheni per esempio hanno perso il controllo di tutta la regione di al-Qa’im, dove risiede attualmente ciò che rimane dello Stato islamico, regione in cui vi sono numerose minieri di fosfati e c’era anche una linea ferroviaria da cui transitava la produzione di fertilizzanti e gas naturale, ma non mi sembra che questo abbia avuto un impatto economico eccessivamente drammatico. Pertanto non vedo un’incidenza tale da dire che Baghdad potrà essere strangolata da un’eventuale secessione del Kurdistan. Al contrario, sarebbe proprio il Kurdistan a subire le maggiori ricadute economiche della secessione. Bisogna infatti ricordare la scarsità di risorse economiche diverse dal petrolio nella regione curda ed in particolare la mancanza di una rilevante produzione alimentare la quale, al contrario, è situata molto più a sud del Kurdistan: se i curdi dovessero realmente dichiarare l’indipendenza rischierebbero di essere tagliati fuori da ogni approvvigionamento. Si pensi ad esempio alle risorse di grano. Il mercato del grano è un mercato controllato, tutta la produzione viene venduta a Baghdad che poi mette un calmiere sui prezzi di farina e pane, se il Kurdistan dovesse separarsi si troverebbe privo della possibilità di comprarlo a prezzi calmierati, il prezzo del pane salirebbe alle stelle e si creerebbe un problema di inflazione alimentare. Questi sono tutti problemi contingenti che avrebbero un’incidenza notevole più sull’economia curda che sull’economia irachena.

Quanto sono stati determinanti, in Iraq, i conflitti interni fra  sciiti e sunniti?

Il problema fondamentale è che l’Iraq ha un governo sciita ed è dominato da un settarismo profondissimo che prima della guerra  non esisteva. Questo settarismo è nato con le sanzioni economiche che furono applicate contro Saddam Hussein e poi si è consolidato con l’invasione dell’Iraq nel 2003. In precedenza, invece, il Paese era gestito da un dittatore secolare e non vi era nessuna distinzione fra una religione e l’altra. Invece adesso la situazione è mutata: a Baghdad vi è un governo sciita che discrimina apertamente i sunniti e i curdi. Allora è chiaro che tutto questo inasprisce i moti indipendentisti e secessionisti che stiamo vedendo, moti che però non costituiscono la soluzione al problema. Paradossalmente si potrebbe dire che il maggior successo nazionalista è quello dello Stato Islamico: l’apparato messo in piedi dall’Isis era riuscito a creare una gestione dello Stato migliore di quella che c’era prima e di conseguenza ha potuto consolidare il suo consenso. Dal punto di vista teorico, è inutile cercare di risolvere i problemi di convivenza attraverso le multietnie, risulta al contrario preferibile creare uno Stato nazionalista, etnicamente omogeneo, e tutto diventa più semplice. Ma nel mondo attuale la realpolitik spesso non viene presa in considerazione e tutto deve essere modellato dalla democrazia multietnica che poi non funziona nemmeno a casa nostra.

L’ Influenza che l’Iran esercita sul Governo iracheno quanto sta contribuendo alla frammentazione della coesione interna?

Sicuramente tale influenza è un fattore determinante. Se l’Iraq dovesse cadere veramente sotto l’influenza dell’Iran non sarebbe positivo perché verrebbe completamente assoggettato ad esso, si creerebbe una sorta di protettorato certamente negativo anche per la popolazione sciita locale. E se questo dovesse accadere  non escludo un ritorno dello Stato Islamico, anche se magari sotto un’altra denominazione: un soggetto che consisterà in ogni caso in una forza sunnita, secessionista e fortemente nazionalista destinata a  incunearsi fra i curdi e gli sciiti. I sunniti, infatti,  pur essendo una minoranza, hanno di fatto sempre gestito il Paese.

Questo ritorno sarà possibile nonostante la grande potenza iraniana nella regione?

Certamente, anche perché nell’area non vi è solo l’Iran, c’è per esempio anche la Turchia che è un attore politico importante. L’Iraq può essere definito uno Stato fallito anche perché non si è trovata una soluzione alternativa all’attuale assetto politico iracheno che possa davvero funzionare.

Quale potrebbe essere una soluzione per scongiurare il rischio di avere due Stati falliti nel cuore del Medioriente?

Attualmente credo che si sia passato il punto di non ritorno. Vi è un processo di radicalizzazione in corso nella regione, processo che rende difficile il raggiungimento di una soluzione pacifica anche perché una soluzione di questo tipo non è raggiungibile senza la partecipazione delle forze settarie alla gestione della politica quotidiana. La situazione non potrà non peggiorare e rischierà di seguire sviluppi anche imprevedibili, si pensi per esempio al’evoluzione della politica estera della Turchia negli ultimi anni.

Spesso la soluzione ad un problema delicato viene raggiunta più grazie ad una personalità forte che non in virtù di un progetto, vi possono essere personalità politiche o religiose idonee a rivestire tale ruolo? Si pensi per esempio alla figura dell’Ayatollah Ali al-Sistani, l’attuale guida religiosa dell’Iraq.

Il processo è talmente radicalizzato che personalità come l’Ayatollah al-Sistani possono anche suggerire una determinata soluzione al problema, il punto è che poi tale soluzione non verrebbe comunque attuata. Quando chi è al potere si confronta con la realtà locale, se vuole rimanere al potere o addirittura non essere ammazzato deve cambiare strategia. E la radicalizzazione è visibile già a livello locale: nei villaggi che sono  stati riconquistati dall’esercito iracheno le case appartenenti ai sunniti non sono state ricostruite e quindi abbiamo 4 milioni di sunniti nei campi che inevitabilmente si radicalizzeranno.

In conclusione, Lei non ritiene credibile una futura nascita dello Stato curdo?

Certamente no e anche qualora dovesse sorgere non durerebbe nel tempo. E anche un eventuale futuro appoggio degli Stati Uniti non avrebbe un grande peso tenendo conto di quanto l’influenza americana nella regione sia andata riducendosi. D’altra parte uno Stato non lo si costruisce bombardando, le bombe portano solo conseguenze negative.