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Giustizia: la CEDU condanna, l’Italia se ne frega

27 Settembre 2017

Una bella storia: una ‘piccola’ idea che merita di essere sviluppata. E’ venuta a un detenuto che, meritoriamente, impiega il tempo che ‘in nome del popolo italiano’ deve trascorrere in cella, per studiare. Gli avvocati del detenuto-studente, e i suoi professori ne hanno data pratica attuazione: la cella 124 del Sesto Raggio del carcere milanese di San Vittore è stata riprodotta fin nei minimi dettagli in un’ala dell’università Statale, sotto il porticato di Largo Richini: stesse dimensioni, quattro brande, disposte in pochi metri quadrati; cinque visitatori volontari, a turno, sono fatti entrare per cinque minuti. Come fossero detenuti: sono perquisiti, immatricolati, privati degli effetti personali.

Il primo giorno l”esperimento’ ha visto 117 persone disposte a fare da ‘cavia’; una ragazza si è sentita mancare l’aria: due minuti appena, e ha chiesto di uscire. I visitatori lasciano un messaggio, condividono emozioni. Julian, secondo anno della magistrale in Scienze filosofiche, laureato con una tesi di ambito morale, sulla scoperta e la conquista dell’altro, racconta che i primi due anni non ha potuto frequentare, studiava in carcere. Oggi ne ha 39. E’  ancora detenuto a Bollate, ma può seguire le lezioni. «Ho letto per caso l’Apologia di Socrate e me ne sono innamorato: è un appello di vita difficile da seguire, ma ci fa riflettere sull’umanità. Cerco di dare un contributo, nel mio piccolo. La cronaca parla spesso di sovraffollamento delle carceri, qui facciamo capire di cosa si tratta. Dev’esserci un senso per chi è dentro e per chi è fuori, un incontro. È facile ripugnare e respingere chi è diverso, puntare il dito, noi vogliamo la via più difficile».

Una storia amara. E’ quella di un uomo, fermato per maltrattamenti in famiglia. Qualcosa nella testa di quest’uomo fa ‘crac’. Con la sua maglietta si impicca. Senegalese di nascita, Oumar Ly Cheiko, il suo nome; 39 anni, domiciliato a Bologna. Ce ne vuole, per riuscire a strozzarsi con una t-shirt appesa alla grata della cella di sicurezza in cui si è rinchiusi. Non lo si dice per mettere in dubbio la versione ufficiale. Tutt’altro. Magistrato e medico legale sono sicuri, gesto volontario. Così sicuri che rinunciano anche a disporre l’autopsia. E’ tutto chiaro. Del resto è accaduto altre volte, altre volte accadrà. Lo hanno fatto e lo fanno usando perfino i laccetti delle scarpe. Ci pensate, che dose di determinazione occorre per riuscire a farlo in quel modo? Che livello di disperazione si può raggiungere per decidere di farla finita così? Quasi quasi meglio sarebbe stato che Oumar Ly Cheiko fosse stato ucciso e la sua morte mascherata da suicidio…

Una storia che indigna. Siamo al vertice della classifica dei paesi europei con sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo non eseguite. Dal sovraffollamento delle carceri alla detenzione illegale nei CIE, il nostro Paese non si adegua a sufficienza per tutelare i diritti umani. Subiamo condanne per non aver rispettato i diritti umani, accumuliamo milioni di risarcimento ogni anno, non li paghiamo in tempo, non aggiorniamo le nostre leggi.

Secondo uno studio di ‘Politico’, su 9944 sentenze CEDU non implementate, 2219 riguardano l’Italia: il 22,3 per cento. Una su cinque. Le sentenze non eseguite dalla Francia sono appena 56; in Germania 17. Siamo però in buona compagnia: di Russia (1540) e Turchia (1342), che comunque ci sovrastano. Noi italiani abbiamo un bel primato: su 47 paesi del Consiglio d’Europa, siamo i più inadempienti.

La CEDU, che ha sede a Strasburgo, pronuncia le sentenze basandosi sulla convenzione europea dei diritti dell’uomo firmata a Roma il 4 novembre del 1950. L’articolo 46 vincola gli Stati ad adeguarsi alle sentenze: risarcendo con una ‘equa compensazione’ chi vince la causa e imponendo ai governi di modificare o aggiornare una legge per tutelare in futuro chi subirà una violazione del diritto umano in questione. Lo Stato deve conformarsi quindi e anche velocemente e ha al massimo sei mesi per comunicare quali misure ha adottato o intende adottare. Se non lo fa, interviene il comitato dei Ministri, l’organo decisionale del Consiglio d’Europa, con dei richiami. Il 94 per cento delle sentenze non eseguite (2105) sono o classificate come ‘enhanced‘ cioè hanno bisogno di azioni urgenti o riguardano cambi fondamentali nel sistema. Lo stesso comitato dei Ministri inserisce l’Italia tra i Paesi con problemi strutturali, alcuni non risolti da oltre dieci anni, assieme a Russia, Ungheria e Moldavia.

Una storia editoriale. Il settimanale l’Espresso compie una scelta coraggiosa. Affronta di petto la questione Giustizia, la sua ordinaria emergenza. Fin dalla copertina, di Giuseppe Fadda: una bilancia con due magistrati seduti nei piatti come fossero un’altalena. ‘Ingiustizia’, il titolo; e poi: «Ci vogliono almeno 1.600 giorni per una sentenza definitiva. Ma i magistrati sono in lotta per il Consiglio Superiore della Magistratura. E la politica pensa solo a difendersi dalle indagini. Inchiesta su un sistema malato».

Ancora: occorrono più di quattro anni per sapere se si ha torto o ragione, se si è colpevoli o innocenti. Il Consiglio Superiore della Magistratura è descritto come una macchina infernale, luogo di spartizioni di potere che serve a tutto meno che a quello che Costituzione prescrive. Si sostiene che buona parte della politica è garantista quando viene colpita la propria parte, ma si disinteressa quando viene colpito l’avversario. Il ‘la’ viene dall’editoriale del direttore Tommaso Cerno. Titolo: ‘Il golpe di latta e la vera partita sulla giustizia’. Si parte dalle inchieste su Consip e dintorni per fare un discorso più generale su quello che è, quello che è stato…Poi una lettera aperta di Lirio Abbate al ministro della Giustizia Andrea Orlando: «Malgrado le riforme, il sistema non funziona. Ecco cosa fare. Subito…» Si ricorda che «il problema dei processi infiniti fa notizia di rado, ma questo dramma riguarda, silenziosamente, milioni di cittadine e cittadini che hanno a che fare con i tribunali».

Marco Damilano scrive della ‘guerra delle toghe‘. Il succo: «Parte la campagna elettorale per il CSM. E tra le correnti dei magistrati si annuncia una lotta precedenti». Ancora: Paolo Biondani scrive di «fine processo mai». Il succo: «Lungaggini, contraddizioni e assurdità. Che gridano vendetta. Gli addetti ai lavori spiegano come uscirne». Ottimo dossier: copertina, quattordici pagine…il fascicolo de l’Espresso è un bel confezionato J’accuse di zoliano sapore  che – significherà qualcosa – nessuno ha voluto e saputo raccogliere: non un parlamentare che lo trasformi in iniziativa politica; non un commentatore, un opinionista che ne faccia oggetto di dibattito e riflessione. Un ‘sasso’ gettato in uno stagno che continua a restare limaccioso, un immobile, paralizzante e paralizzato mar dei Sargassi.

Come tutte le cose umane, anche questo dossier ha una vistosa carenza: non c’è una sola riga, in ben quattordici pagine, che faccia cenno alle lotte per la giustizia giusta condotte da Marco Pannella fino al suo ultimo respiro; e continuare da Rita Bernardini e dal Partito Radicale. Quattordici pagine, non una riga, non una citazione. Non può essere un caso. Ma se lo è, è perfino peggio.