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Genesi del petro-dollaro

27 Ottobre 2017

Il legame tra dollaro e petrolio su cui si regge la supremazia Usa

Come è noto, l’Europa distrutta dalla Seconda Guerra Mondiale riuscì a rimettersi in piedi grazie soprattutto agli aiuti forniti dagli Stati Uniti – in cambio della rinuncia alla sovranità politica da parte degli Stati del ‘vecchio continente’ – nell’ambito dell’ormai celeberrimo Piano Marshall, il quale impedì che le prospettive di ricostruzione si infrangessero sui vincoli della bilancia dei pagamenti di ogni singolo Paese.

Eppure, dal punto di vista strettamente economico, la linea operativa portata avanti da Washington produsse ricadute molto più positive sull’Europa e sul Giappone che sugli stessi Stati Uniti, i quali, fungendo anche da mercato di sbocco per le merci prodotte in Europa, cominciarono a fare fatica a realizzare tassi di crescita analoghi a quelli conseguiti dalla Comunità Economica Europea (il cui export, nel 1960, fu per la prima volta superiore a quello statunitense) e si videro costretti a far leva sull’enorme spazio di manovra garantito dal ruolo di valuta di riferimento di cui era titolare il dollaro per emettere moneta in misura tale da finanziare il proprio deficit, che stava cominciando a crescere in maniera preoccupante.

Il consigliere economico del presidente Charles De Gaulle, Jacques Rueff, si era accorto di come la convertibilità tra dollaro ed oro fosse divenuta ormai soltanto ‘di facciata’, in quanto il dollaro aveva ormai acquisito lo status di moneta fiduciaria solo formalmente ancorata ad un valore fisico reale. Rueff fece quindi notare a De Gaulle come questo stato di cose fosse garante di pesanti squilibri valutari e consentisse agli Stati Uniti di accumulare deficit crescenti nella bilancia commerciale senza pagarne il prezzo corrispettivo.

E mentre il generale valutava il da farsi, cominciava a verificarsi un incremento costante delle conversioni di dollari in oro da parte dei detentori del metallo prezioso, che con il loro operato presero ad erodere le riserve auree statunitensi. Ciò indusse Washington ad esercitare forti pressioni sui propri alleati (Paesi europei e Giappone), dai quali riuscì infine ad ottenere la ratifica, nel 1961, di un trattato che limitava il diritto alla conversione ai soli dollari depositati nelle rispettive banche centrali.

La Repubblica Federale Tedesca, la quale aveva sviluppato il proprio sistema industriale a livelli tali da superare in competitività il concorrente statunitense, stava tuttavia fronteggiando una forte pressione al rialzo sul marco che costrinse la Bundesbank ad acquistare grandi quantità di dollari sui mercati valutari per mantenere le parità prestabilite. In breve tempo la stessa Bundesbank, vista e considerata l’inefficacia dei propri interventi di fronte alle speculazioni a favore della moneta tedesca, fu però costretta a ritirarsi per lasciar fluttuare il valore del marco, il quale cominciò a subire una serie di rivalutazioni che misero parzialmente in ombra il prestigio e la centralità del dollaro, assestando un colpo molto duro al vacillante sistema di Bretton Woods.

Così, dopo ben tre recessioni (1953/1954, 1957/1958, 1960/1961), le turbolenze generate dalla politica adottata da De Gaulle e la prorompente ascesa tedesca, Washington decise di portare fino in fondo il ‘keynesismo militare’, varando un robusto piano di riarmo nucleare in previsione di un’escalation in Estremo Oriente, dove i guerriglieri nord-vietnamiti erano riusciti a scacciare i francesi e si apprestavano a riunificare il Paese portandolo nell’orbita di Mosca.

Sotto il profilo economico, invece, gli Stati Uniti erano preoccupati per la crescente popolarità che le tesi comuniste stavano conoscendo in buona parte dei Paesi del Terzo Mondo, i quali avrebbero dovuto continuare a fornire materie prime a costi sufficientemente bassi da assicurare un consistente margine di guadagno alle multinazionali Usa senza inceppare la crescita economica europea e giapponese.

L’intervento diretto statunitense in Vietnam, ordinato dal presidente Lyndon Johnson, comportò un ulteriore aumento delle spese militari (che tornarono a superare il 10% del Pil) che il governo decise di non finanziare attraverso l’inasprimento della pressione fiscale. Le continue difficoltà incontrate dall’economia statunitense finirono rapidamente per entrare in rotta di collisione con i costi del conflitto in Vietnam e con gli sproporzionati consumi del popolo nordamericano, provocando un crescente disavanzo con l’estero che raggiunse i 36 miliardi di dollari nel 1967, a fronte del progressivo assottigliamento delle riserve auree, che passarono da oltre 20 a 12 miliardi di dollari nell’arco di un decennio. Il governo di Parigi propose allora di rivalutare l’oro, incassando lo sdegnoso rifiuto da parte di Washington e Londra (poiché anche la sterlina, che rappresentava il secondo caposaldo del sistema scaturito da Bretton Woods, avrebbe subito una forte svalutazione in seguito ad una manovra simile).

Per tutta risposta, De Gaulle annunciò l’imminente revoca del trattato del 1961 ed iniziò immediatamente a convertire in oro (il cui valore al mercato di Londra schizzò letteralmente verso l’alto) tutte le riserve di valuta statunitense depositate presso la Banque de France. Londra cedette quindi alle pressioni internazionali accettando di svalutare del 14% la sterlina e contribuendo in tal modo ad incrementare pesantemente le richieste di conversione in oro della valuta statunitense.

Nel marzo del 1968, Johnson, conscio dell’impossibilità statunitense di soddisfare tali richieste, dispose, di concerto con Londra, la sospensione temporale del mercato dell’oro e ordinò successivamente di trasferire le residue riserve auree nei forzieri di Fort Knox. Alcuni economisti avevano allora suggerito di allentare i controlli sulle esportazioni di capitale allo scopo di favorire la conquista del mercato europeo da parte delle multinazionali americane, ma ciò avrebbe ulteriormente aggravato lo stato della bilancia dei pagamenti.

In altre parole, «non esistono – annotava Henry Kissinger, fresco di nomina a capo del Comitato per la Sicurezza Nazionale – accorgimenti monetari attraverso i quali gli altri Paesi concederanno agli Stati Uniti la completa libertà di fare spese estere nella misura da essi desiderata, siano esse per difesa, aiuti, investimenti o importazioni. Anche sotto un regime di limitata flessibilità, che aiuterebbe entro certi limiti, gli Stati Uniti sarebbero soggetti a vincoli sia interni sia internazionali, se il dollaro dovesse tangibilmente deprezzarsi sui mercati del cambio in seguito a eccessive spese estere». Per le alte sfere statunitensi, il problema consisteva dunque nell’instaurare un sistema che permettesse agli Usa di effettuare investimenti esteri in misura illimitata, scaricando sull’estero le relative ripercussioni.

Nel frattempo la Comunità Europea stava implementando il cosiddetto ‘piano Werner’, finalizzato a realizzare la completa Unione Monetaria Europea (Uem) entro e non oltre l’arco temporale di un decennio. Vennero così ridotti i margini di oscillazione (dallo 0,75% allo 0,60%) consentiti rispetto alla parità tra monete, ma la Germania si vide subito costretta a lasciar fluttuare il marco per effetto del massiccio afflusso di dollari presso la Bundesbank.


Nonostante questo inquietante segnale premonitore, l’Europa, la cui industria ormai ricostruita era riuscita a colmare il divario con quella statunitense, rappresentava comunque un serio concorrente per gli Usa, specialmente grazie all’Uem che, secondo alcun autorevoli economisti come Arthur Bloomfield, avrebbe incrementato il potere contrattuale europeo in campo monetario, determinato una riduzione dei flussi di capitale tra gli Usa e la Comunità Europea e ridimensionato il ruolo del dollaro come riserva valutaria internazionale. Queste difficoltà dovute alle mosse strategiche europee andarono a sovrapporsi a quelle segnalate da Kissinger, costringendo il governo statunitense a prendere in considerazione l’ipotesi di ripudiare univocamente gli accordi di Bretton Woods, specialmente in seguito a un documento della Federal Reserve (Fed) in cui si sottolineava che: «se prendiamo l’iniziativa, coglieremo di sorpresa gli altri Paesi, e in particolare quelli della Comunità Europea, prima che siano in grado di elaborare una posizione coordinata per affrontare la crisi, e avremo maggiori possibilità di prevalere nei negoziati successivi».

Il colpo di spugna fu effettuato il 15 agosto del 1971, con la sospensione della convertibilità del dollaro in oro e la trasformazione del dollaro in moneta ‘fluttuante’, il cui valore sarebbe stato determinato dal rapporto tra domanda e offerta. Come conseguenza, il mercato internazionale piombò nel caos più assoluto, spingendo i ministri del Tesoro e i governatori delle Banche Centrali delle nazioni appartenenti al G-10 a riunirsi presso la sede dello Smithsonian Institute nel tentativo di salvare l’agonizzante Gold Exchange Standard attraverso la fissazione di nuovi rapporti di parità. La sproporzione tra dollari circolanti e oro detenuto dalla Fed era però tale da richiedere un aumento del prezzo dell’oro del 400%, cosa che avrebbe minato definitivamente la già vacillante fiducia internazionale nei confronti del dollaro.

Gli Stati Uniti, nient’affatto disposti ad accettare questa soluzione, fecero valere il proprio peso politico per far naufragare tutte le proposte avanzate dai rappresentanti stranieri presenti a quella riunione, i quali giunsero addirittura (con l’eccezione di De Gaulle) ad approvare una clausola che prevedeva il divieto di stabilire qualsiasi limite temporale alla decisione americana, che venne poi (1977) definitivamente ‘scolpita su pietra’ grazie al riconoscimento del principio di inconvertibilità assoluta del dollaro, valido e applicabile tanto nei confronti delle valute alternative quanto dei vari metalli preziosi.

Fu la fine di Bretton Woods. Si riuscì solo a raggiungere un’intesa in base alla quale il dollaro si svalutò dell’8%, innescando automaticamente i meccanismi di rivalutazione di marco, yen e franco svizzero. Nel 1972, la pubblicazione dei dati relativi ai deficit statunitensi mosse una poderosa ondata speculativa contro il dollaro guidata proprio dalle grandi banche statunitensi che, unitamente alle dinamiche di sganciamento dall’oro, provocò una svalutazione della divisa statunitense pari a circa il 40%. Dal momento che era proprio il dollaro a regolare il mercato petrolifero mondiale, il suo deprezzamento avrebbe ridimensionato gli introiti dei Paesi produttori e del cartello oligopolistico delle cosiddette ‘sette sorelle’, spingendo gli Stati esportatori a richiedere valute più stabili del dollaro per i pagamenti delle forniture di petrolio.

Per gli Usa, si trattava di un prospettiva intollerabile, che non a caso fu al centro delle discussioni vertice del Bilderberg Club tenutosi in Svezia nel 1973. Tema centrale della riunione era la questione politico-economica europea, con particolare riferimento alla stima delle possibili ricadute sui rapporti tra Stati Uniti ed Europa (incrinati soprattutto per effetto dell’unilateralismo promosso dal duo Nixon-Kissinger) che avrebbe potuto provocare l’adozione di una politica energetica e di sicurezza di carattere comunitario da parte del ‘vecchio continente’.

Secondo documenti resi pubblici molti anni dopo, nel corso dell’incontro, cui presero parte ospiti illustri (come Lord Richardson e Lord Greenhill della British Petroleum, Robert O. Anderson dell’americana Atlantic Ritchfield Corporation, Eric Roll della Warburg, George Ball della Lehman Brothers, David Rockefeller, Zbigniew Brzezinski, Arthur Dean, Giovanni Agnelli. ecc.), era stata prospettata la possibilità di favorire l’aumento esponenziale del prezzo del petrolio anche a costo di sacrificare la crescita economica mondiale, poiché ciò avrebbe consentito di rafforzare il dollaro, saldare il legame tra valuta Usa e petrolio e affidare ad alcune banche anglo-americane accuratamente selezionate (Chase Manhattan Bank, Citibank, Barclays, Lloyds, ecc.) il compito di gestire il conseguente processo di riciclaggio dei petro-dollari, consolidando lo strapotere degli istituti bancari di Londra e New York e del potente cartello oligopolistico del petrolio.

L’evento destabilizzante in grado di produrre lo scenario prefigurato dal Bilderberg Club si concretizzò il 6 ottobre del 1973, quando Siria ed Egitto entrarono in conflitto con Israele per la riconquista delle regioni del Golan e del Sinai occupate dallo Stato ebraico nel 1967. Si tratta di una guerra strana, in quanto preceduta da chiari segnali di allarme provenienti dall’Egitto, che sotto la presidenza di Anwar al-Sadat aveva dapprima espulso il personale tecnico sovietico, compromettendo un’alleanza che aveva garantito al Paese aiuti di natura sia civile che militare, e successivamente rilasciato dichiarazioni e organizzato manovre militari il cui senso profondo era difficilmente equivocabile. L’intelligence israeliana informò Tel Aviv dell’imminenza dell’attacco egiziano, ma ciò non impedì alle forze siriano-egiziane di colpire piuttosto duramente l’aviazione e le forze di terra israeliane.

Alcuni analisti tendono a giustificare la sbalorditiva inadeguatezza militare dimostrata da Israele in quell’occasione con motivazioni di carattere eminentemente politico, secondo cui fu in realtà l’intervento diretto di Kissinger a convincere i dirigenti di Tel Aviv a tenere un profilo artificiosamente passivo di fronte alla minaccia incombente, dietro il ricatto del blocco dei finanziamenti che gli Usa concedevano (e continuano a concedere) annualmente allo Stato ebraico. Mentre conflitto infuriava, Arabia Saudita ed Abu Dhabi decretarono il blocco degli approvvigionamenti di idrocarburi destinati agli Stati Uniti e a tutti i Paesi accusati di sostenere Israele, ma le grandi compagnie petrolifere si avvalsero della collaborazione dello Shah di Persia Reza Pahlavi per aggirare l’embargo e garantire il regolare afflusso di petrolio.

Quando Israele riuscì poi a rovesciare la situazione e ad avere la meglio sui propri avversari, grazie anche al forte sostegno che gli Usa avevano cominciato ad accordare, l’Opec decretò un primo aumento del prezzo di riferimento dell’oro nero da 3,01 a 5,11 dollari al barile, prima di procedere a una seconda rivalutazione l’anno seguente, che fece toccare al greggio quota 11,65 dollari per barile; un aumento complessivo del 400% circa, più che sufficiente a compensare la svalutazione subita dal dollaro. Secondo gli stessi analisti che hanno parlato di ‘passività’ artificiosa israeliana pilotata dagli Stati Uniti, questo rincaro petrolifero rappresenterebbe il punto d’approdo dell’ambiziosissima e complessa operazione orchestrata dietro le quinte dal presidente Richard Nixon e dal segretario di Stato Henry Kissinger, dalle compagnie petrolifere americane, dagli sceicchi arabi e dallo Shah di Persia Reza Pahlavi nel corso della riunione del Bilderberg Club.

Lo ‘shock’ si rivelò talmente distruttivo da inaugurare una profonda e drammatica fase recessiva, con fallimenti aziendali a catena, aumento della disoccupazione e innalzamento dei tassi di inflazione, che colpì, seppur parzialmente, anche gli stessi Stati Uniti (Ford e General Motors, assieme a tante altre compagnie dipendenti dal petrolio, furono costrette a licenziare centinaia di migliaia di lavoratori). Gli Usa ebbero tuttavia modo di conoscere un incremento dei consumi energetici del 20% a fronte di un crollo del 25% registrato a livello planetario. Le necessità economico-finanziarie statunitensi condensate nella politica estera condotta da Herny Kissinger gettarono le basi affinché presso l’intero Medio Oriente si instaurasse un clima di guerra permanente e i Paesi del Terzo Mondo venissero progressivamente risucchiati nella crisi del debito che esplose in maniera dirompente negli anni ’80.

Da questo grande disegno ideato da Kissinger trassero invece beneficio, oltre alle già citate banche commerciali, le grandi imprese multinazionali Usa (sulle 100 più potenti del mondo, ben 27 erano di origine statunitense verso la fine degli anni ’90), che grazie al nuovo status ottenuto dalla divisa statunitense riuscirono a raddoppiare gli investimenti esteri da 7,5 a 14,2 miliardi di dollari nell’arco del quinquennio 1970-1975. Grandi vantaggi spettarono anche alle grandi compagnie petrolifere, le quali ebbero la possibilità di moltiplicare esponenzialmente i propri profitti e di trovare anche la legittimazione politica degli alti prezzi per avviare una serie di estrazioni off-shore nel Mare del Nord e nelle gelide acque territoriali dell’Alaska.