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Fatna, Soraya, Yamina, Fattoum: il Corano ve lo spieghiamo noi

4 Ottobre 2017

Quattro donne contro l’islamismo radicale. Il progetto pilota UCOII-DAP in otto carceri italiane

Il carcere di Terni è un grande edificio, relativamente ‘giovane’: lo hanno aperto nel 1992, in periferia. La caratteristica di questo penitenziario è di essere l’unico ad aver messo a disposizione un locale al suo interno adibito a moschea per i detenuti musulmani. Un imam di Terni, El Hachmi Mimmoum, naturalmente autorizzato dal ministero della Giustizia, settimanalmente presta assistenza ai detenuti di fede islamica. In sostanza fa quello che per i cattolici fanno i cappellani. “Il mio lavoro”, spiega, “è dare l’assistenza sia spirituale che umana alla comunità musulmana qui in carcere”.

La moschea fa parte delle iniziative per favorire i processi di integrazione delle popolazioni islamiche; al tempo stesso, in questo modo si cerca di limitare il rischio che detenuti musulmani cadano preda dell’estremismo islamico: “Lavoriamo per l’integrazione”, dice sempre Mimmoum, “siamo contro il terrorismo e l’integralismo. Lavoriamo per una reale integrazione”.

Un lavoro di stretta intesa con il ministero di Giustizia, sulla base di accordi stipulati con associazioni musulmane certificate e accreditate. “I controlli”, assicura il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri, “sono accurati. Anzi, a volte è lo stesso imam a segnalarci i casi sospetti…”.

Da Terni a Verona. Anche nel locale carcere di Montorio, da sei mesi circa, un progetto pilota. Una donna islamica ‘assistenza spirituale’ ai detenuti musulmani; scopo dichiarato contribuire a evitare che si radicalizzino: “Quando qualcuno ha bisogno mi avvisano. E io vado a parlargli”. Non è così usuale che una donna parli di certi argomenti in carcere detenuti islamici. Si chiama Fatna Ajiz, è nata in Marocco. Con i detenuti parla di Islam. Vive a Verona da 19 anni. E’ cittadina italiana, come il marito e i due figli: L’UCOII (unione delle comunità islamiche in Italia) l’ha scelta per un progetto sperimentale siglato con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria.

A predicare questo Corano ‘pacifico’ sono in quattro. La ‘filosofia’ del progetto: “Se è nelle celle che nasce il radicalismo, allora si può insegnare che non solo quello non è l’Islam e lo si può fare scardinando uno dei principi del fondamentalismo, vale a dire quello che vuole le donne relegate ai margini della società”.

Fatna è la prima donna musulmana ad essere entrata in un carcere come mediatrice culturale, grazie alla cooperativa con cui lavora. Ora non si occupa solo dei problemi “materiali” dei suoi interlocutori; da sei mesi nel carcere veronese, è “guida spirituale”. Racconta: “Quando sono arrivata al carcere di Montorio come mediatrice ho spiegato alla direzione, alla polizia penitenziaria e a chi lavora nella struttura quali sono le esigenze e le cose fondamentali per chi segue la fede musulmana. Cosa prevede e cos’è il Ramadan, ad esempio. O altre festività. O cosa è permesso mangiare. Così un po’ alla volta anche la struttura penitenziaria ha accolto i detenuti islamici”.

Fatna ha seguito un master all’università di Padova, che analizzava la vita dei detenuti musulmani nelle carceri italiane e il rischio di radicalizzazione all’interno delle celle: “Quando l’UCOII e il DAP hanno dato vita al progetto hanno chiesto una serie di nominativi. E grazie a quel master è spuntato il mio nome”. Così Fatna ai carcerati racconta di un Islam che molti di loro faticano a ricordare: “Parlo di un Islam di pace, di accoglienza e di convivenza”.

Porta il velo, Fatna. Per scelta, dice, non per imposizione: “Il Corano non obbliga la donna in nulla. Il velo per me è una scelta. Ma in carcere preferisco portarlo. Se devo parlare di religione, e la religione in cui credo e di cui parlo lo prevede, mi sembra giusto farlo. Altrimenti più di qualcuno potrebbe mettermi in dubbio”.

Una Imam donna? Fatna scuote la testa: “Io non conduco la preghiera. Quella del venerdì e delle feste sacre dell’Islam viene condotta da imam della comunità islamica veronese. Io faccio altro. Se qualcuno esprime il desiderio di parlare della propria fede, vado e insieme discutiamo, cerchiamo quelle risposte che loro cercano e che l’Islam sa dare”. Islam ‘moderato’, o ‘aperto’, come lo chiama.

“Quando arrivo, sono in pochi a meravigliarsi o a contrariarsi del fatto che io sia una donna. Per qualcuno diventa un elemento quasi rassicurante. Ma dipende molto dai Paesi e dalle tradizione di origine. I marocchini, i tunisini e gli egiziani non hanno nessun problema. Le difficoltà le ho con i pakistani, o gli afgani. Con chi arriva da zone in cui l’Islam mette la donna ai margini, coprendola anche fisicamente. Ma alla fine riesco a dialogare anche con loro”.

Un progetto sperimentale anti-radicalizzazione che coinvolge un migliaio di reclusi.

Nel carcere milanese di Bollate lavora Yamina Salah, che il Corano lo conosce bene: si è laureata in diritto islamico ad Algeri, è presidentessa delle donne musulmane d’Italia, è in grado di spiegare detti e precetti del Profeta a chi non è neppure in grado di leggerli: “In prigione abbiamo trovato un 70 per cento di analfabeti tra la nostra gente, tanti non hanno fatto neppure le scuole, per questo sono così rigidi, chiusi”.

Al momento operano in quattro: Yamina Salah e Soraya Houli a Milano; Fatna Ajiz a Verona; la tunisina Fattum Boubaker a Canton Mombello, nel bresciano.

“La prima volta erano cinquanta detenuti, nel teatro del carcere di Bollate”, racconta Yamina. “Poi abbiamo sentito le voci che giravano tra loro: ‘sono donne in gamba’, dicevano. E la cosa è cresciuta”.

Le carceri coinvolte nel progetto pilota sono per il momento otto: Torino, Cremona, Modena, Sollicciano a Firenze, San Vittore a Milano oltre a Bollate, Canton Mombello e Verona. La partecipazione va dagli 80 ai 140 detenuti per carcere, un migliaio di detenuti sugli undicimila provenienti da Paesi islamici oggi reclusi in Italia.

Secondo l’ultimo rapporto dell’associazione Antigone i detenuti islamici a rischio sarebbero 365. Di questi, 165 sono “monitorati”; 76 ‘attenzionati’ per atteggiamenti che fanno’presupporre la vicinanza all’ideologia jihadista’ (per esempio l’esultanza dopo gli attentati); e ‘124 segnalati per relazioni con soggetti che appartengono ai due precedenti livelli’. I criteri sono elaborati dal NIC (il nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria), e dal CASA (Comitato di analisi strategica antiterrorismo).