General

Catalogna, l’insostenibile maledetta assenza europea

13 Ottobre 2017

L’incapacità dell’Unione Europea di avanzare una risposta alla crisi catalana espressione dello scontro in atto a Bruxelles e in tutta Europa stato di diritto e democrazia partecipativa

Ieri la Spagna ha celebrato la sua Festa nazionale, festa dell’hispanidad, per tanto della Spagna ma anche di quei quasi 350milioni di persone di lingua spagnola e di cultura identitaria ispanica. Una festa che coglie la Spagna in uno dei suoi momenti più difficili. 3.900 uomini, tra militari dei tre corpi, agenti della Guardia Civil, e uomini della Guardia Real, oltre a 84 veicoli e 78 aerei impegnati nella parata militare, 1.500 invitati, sul palco la famiglia reale di Spagna –Filippo VI e la moglie Letizia– e i Presidenti delle Comunità Autonome che compongono la Spagna e le massime autorità del Paese. ‘Orgogliosi di essere spagnoli’ è stato lo slogan della cerimonia che, secondo la stampa madrilena, ha registrato una partecipazione popolare ‘storica’, con migliaia di persone che hanno riempito i quasi due chilometri di percorso del Paseo de la Castelllana di Madrid.
Sul palco spiccavano tre assenze tra i Presidenti delle Autonomie: quelle di Carles Puigdemont (Catalogna), Inigo Urkullu (Paesi Baschi) e Uxue Barkos (Navarra) -questi ultimi a capo dell’altra spinta autonomista che ferisce l’unità della Spagna. Assenza registrata, ovviamente, da tutte le cronache. In filigrana, percepibile da coloro che da settimane invocano un ruolo dell’Europa, si poteva osservare un’altra assenza, quella dell’Unione Europea, usuale, certo, ma che in questa occasione diveniva scandalosamente evidente. Heather A. Conley vicepresidente senior per l’Europa, l’Eurasia e l’Artico e direttore del programma europeo presso il Center for Strategic and International Studies (CSIS), ha definito l’assenza Bruxelles dalla crisi catalana ‘the Silence of the Damned’. Il silenzio di Bruxelles in un momento in cui uno dei suoi membri sta vivendo la violazione costituzionale più grave dal ritorno del Paese alla democrazia -nel 1975- ‘sembra inadeguato’, afferma Conley, per un’istituzione la cui mission è favorire la pace e la riconciliazione, impedire che nuovi conflitti si accendano in Europa. «Nel suo silenzio, l’immagine della Polizia spagnola che trascina anziani elettori catalani fuori dai seggi in strada accende i riflettori sullo scontro tra tensione all’autodeterminazione, democrazia e stato di diritto, e sull’incapacità dell’Unione europea di avanzare una risposta politica», per tentare se non altro di governare queste complessità.

Mentre a Madrid andava in scena l’istituzione, il diritto e la latitanza europea, circa 65mila unionisti sono scesi in piazza a Barcellona, per chiedere (di nuovo) a Puigdemont di fare un passo indietro e rinunciare a dichiarare l’indipendenza della Catalogna. La manifestazione, convocata da Societat Civil Catalana (Scc), si è svolta in un clima festoso sotto lo slogan ‘Catalogna sì, Spagna anche’. Diversi leader politici erano presenti al corteo, e dall’ondata di bandiere giallorosse si sono alzati slogan a favore dell’unità nazionale, ma anche cori come ‘Puigdemont in prigione’. Non sono mancati i momenti di tensione con due gruppi di giovani che si sono lanciati sedie, vetrine e vasi sono stati rotti. Nella città si sono svolte anche due manifestazioni minori di segno opposto, una dell’ultradestra per l’unità con circa 200 persone, l’altra degli antifascisti contro la repressione con circa un migliaio di partecipanti.

Per Richard Youngs, Senior Fellow Programma di democrazia e di Stato di diritto del Carnegie Europe , il silenzio di Bruxelles è l’espressione della tensione e scontro in atto a Bruxelles e in tutta Europa tra diverse concezioni della democrazia. Da una parte il riferimento è lo stato di diritto; dall’altra si pone come unico riferimento il principio della partecipazione attiva dei cittadini. Ingredienti entrambi necessari per una democrazia di buona qualità, ma qualche volta -una di queste volte è il caso della Catalogna, i due elementi confliggono. Molti dei problemi dell’UE oggi derivano da questo conflitto, sottolinea Youngs. La crisi catalana riflette, dunque, un problema strutturale proprio del come la democrazia europea si sta evolvendo. L’assenza, il silenzio di Bruxelles sarebbe, dunque, espressione dell’incapacità europea di governare questa complessità.

L’UE chiaramente attribuisce priorità allo stato di diritto rispetto la democrazia partecipativa -l’Unione è pur sempre club di governi nazionali. Così è evidente che quando la UE si pronuncia per sottolineare l’incostituzionalità del referendum catalano dal loro punto di vista -quello dello stato di diritto, quello della mentalità giuridica- ha perfettamente ragione. Ed è quei che si scontrano con l’idea di democrazia della gente, dei loro cittadini, in primis di coloro che come i catalani sfuggono a questo principio.
La «regola di diritto», afferma Youngs, «non è semplicemente l’obbedienza alle regole». Lo stato di diritto democratico è anche questione di come vengono fatte le regole, di come le norme e i valori ottengono legittimità. Nel corso dell’ultimo decennio i leader UE ha applicato una definizione minimalista dello stato di diritto: le regole sono sacrosante e alle regole si deve ubbidire.
Per esempio, si pensi a come le regole sono state applicate in Grecia e ad altri Stati debitori. La potenziale frammentazione della Spagna è, almeno in parte, l’eredità del modo in cui la crisi dell’eurozona è stata erroneamente gestita -nella misura in cui le controversie sull’austerità hanno aggiunto carburante al fuoco secessionista. Ironia della sorte, mentre i leader dell’UE dichiarano che la crisi è finita, uno Stato membro chiave sta lottando per mantenere l’unità.
Se i cittadini non hanno la capacità di influenzare le regole e di garantire la loro equa e uguale applicazione, non esiste una nozione completamente democratica di ‘regola di diritto’, il rischio è che quest’ultimo non sia più legalità al servizio della regola democratica, ma piuttosto mascheri la ridotta legittimità della politica.
Madrid, ricorda Youngs, ha richiesto flessibilità -ovvero deroga alle regole- all’UE quando ha voluto superare il suo disavanzo, ma ora insiste affinché non vi sia flessibilità nell’applicazione di regole per impedire l’indipendenza catalana.

«È importante non idealizzare il voto catalano», sottolinea Youngs, però, «Barcellona è un hub vibrante di innovazione democratica», che nulla ha a che fare con il nazionalismo neo-nazista di altre parti del continente. La collaborazione e la condivisione di esperienze tra innovatori della democrazia locale a Madrid e Barcellona -ma esperienze del genere stanno prendendo forma anche in altri Paesi UE- , che rappresentano il desiderio dei cittadini di riportare la responsabilità democratica a livello locale o comunitario, e che non deve essere confuso con il nazionalismo o il populismo, è necessario che Bruxelles la metabolizzi. L’Unione europea non ha un approccio equilibrato a questi diversi elementi della democrazia, sottovalutando l’importanza della partecipazione locale. Questo rappresenta una sfida politica in Spagna e in altri Stati dell’UE.
La crisi catalana deriva da un fallimento della moderata leadership politica sia a Madrid che a Barcellona, l’UE, a questo punto, dovrebbe essere in grado di offrire qualcosa di più concreto rispetto a un semplice invito al dialogo. La capacità di gestire la complessità di una nuova politica che si sta imponendo in Europa è essenziale a Madrid e Barcellona come a Bruxelles. Era esattamente questa l’acuta assenza sul palco dell’hispanidad di Madrid di ieri.

La giornata di ieri si è chiusa con l’agenzia ‘Efe’ che informava che l’Esecutivo ritiene che, se Puigdemont entro lunedì negherà di aver proclamato l’indipendenza, non si passerà alla seconda fase prevista dall’iter dell’articolo 155. Al contrario, si tornerà allo scenario di legalità precedente all’approvazione da parte del Parlamento locale della legge per il referendum del primo ottobre. Il segretario del partito socialista , Pedro Sanchez, ha ribadito che se Puigdemont «dice che non c’è stata una dichiarazione di indipendenza», «allora possiamo aprire un dialogo», richiamando l’intesa di massima siglata con il Partito popolare sulla riforma della Costituzione che può portare a un cambiamento nel rapporto con le Autonomie, riconoscendo la plurinazionalità e la singolarità catalana, con un maggior autogoverno nel settore dell’economia, dell’educazione, della cultura. E’ l’ultima opportunità data al Presidente catalano, che non avrebbe ancora deciso come muoversi. Rajoy, con l’appoggio delle principali forze parlamentari, ha già fatto scattare la procedura prevista dall’art. 155 della Costituzione iberica, che può portare alla sospensione dell’autonomia regionale. Allo scadere dell’ultimatum di lunedì -valido anche in caso di non risposta da parte di Puigdemont per il principio giuridico generale del silenzio assenso- la Generalitat, nell’eventualità che sostenga di aver dichiarato l’indipendenza, ha altri tre giorni, fino alle 10 di giovedì 19, per ripensarci e fare marcia indietro. Alla scadenza di questo secondo ultimatum, Rajoy chiederà la sospensione dell’autonomia al Senato, dove i popolari del premier hanno la maggioranza assoluta (149 seggi su 266 in totale) necessaria per approvare la revoca dell’autonomia e altre misure, come chiudere il Parlamento regionale (Parlament) ed indire elezioni anticipate e mettere i Mossos d’Esquadra -la controversa polizia catalana- agli ordini diretti del Ministero dell’Interno.
Proprio la riforma delle Autonomie potrebbe essere l’inizio di un percorso di cantiere di innovazione democratica della Spagna da portare come buona prassi a Bruxelles.