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Avvicinamento Hamas – Fatah, cambierà qualcosa a Gaza?

18 Ottobre 2017

I nuovi scenari di un avvicinamento fra Hamas e Fatah nella Striscia di Gaza hanno alimentato previsioni su quando e se sarà possibile un’eventuale pace fra le due fazioni. Il gruppo terroristico, che da anni ha preso possesso della Striscia, ha dichiarato di voler accettare le condizioni di Mahmoud Abbas, capo di al-Fatah, e cooperare per un’amministrazione condivisa nella Striscia. Un’apertura non certo storica, visto già i precedenti nel febbraio 2007 e nell’aprile 2014, che non hanno portato a reali cambiamenti nella situazione della Striscia.

Ad oggi, la situazione economica disastrosa a Gaza, nonché la crisi che stanno vivendo Hamas da una parte e Fatah dall’altra, hanno rappresentato una situazione differente rispetto quella del 2014, precedente tentativo di trovare una mediazione per il controllo della Striscia.

“Hamas oggi si trova con le spalle al muro”, spiega Eugenio Dacrema, ricercatore associato ISPI – Istituto sulle Politiche Internazionali – dell’area del Mediterraneo. “Il suo obiettivo è quello di tornare alla lotta armata delle origini e scaricare il fardello di amministrare Gaza a Fatah”.

Oltre a questa componente, verosimilmente motivo principale che ha determinato l’apertura dei leader di Hamas alle condizioni di Abbas, ci sarebbero altri elementi che movimentano ancor più la situazione.

Uno di questi è il ruolo che sta avendo l’Egitto. Al contrario di situazioni precedenti, il Paese nordafricano sta intervenendo attivamente nella mediazione fra Hamas e Fatah. Tanto che il 12 ottobre scorso, le due parti hanno raggiunto un accordo definitivo proprio al Cairo. Il suo sforzo si è incentrato nel convincere i leader del gruppo armato di sciogliere l’Administrative Commitee, il Governo che si è data Hamas per amministrare Gaza, e mandando i propri reparti di sicurezza nella Striscia per monitorare l’evoluzione della situazione politica.

Come sostenuto da Eran Lerman, delegato dal 2005 al 2010 per la Politica Estera e Affari Internazionali al Consiglio Nazionale Israeliano, l’Egitto «ha modalità d’influenza su quanto sta succedendo a Gaza che Israele non ha più».

“L’Egitto è rimasto l’unico interlocutore possibile per i leader di Hamas”, dice Dacrema. “L’organizzazione che amministra Gaza è ormai politicamente isolata, e i vari partner su cui poteva contare, come l’Iran, al momento hanno altre grane di cui tener conto. In questo contesto, in cui Hamas è decisamente debole, l’Egitto è in grado di porre determinate condizioni e fungere da interlocutore principale”.

Quello che l’Egitto di al-Sisi ha cercato di portare oggi a termine risponde ad un’esigenza di stabilizzazione dei propri confini. Ma non solo. Esiste una situazione, nel mondo arabo, in cui sono diversi i Paesi desiderosi di ricoprire un ruolo centrale nella riunificazione della Palestina sotto un’unica Amministrazione. Turchia, Qatar e Iran hanno provato ad inserirsi nel discorso, provando ad avvicinarsi politicamente ad Hamas, senza tuttavia raggiungere risultati significativi.

Per come stanno le cose, dunque, è oggi al-Sisi che rappresenta il principale interlocutore per la normalizzazione dei rapporti nella Striscia. Un risultato che viene visto, in Egitto, come una vittoria sotto il profilo politico e di sicurezza nazionale.

Eugenio Dacrema è di parere diverso. “Difficile che Hamas e Fatah possano trovare un accordo che convinca entrambi. Per far sì che questo succeda, Hamas dovrebbe portare a termine il disarmo delle sue migliaia di miliziani. Una soluzione che, dal punto di vista di Hamas, va in senso opposto rispetto ai suoi obiettivi, ed è perciò difficile pensare che questi ultimi eventi possano risolversi verso una reale unificazione”.

Al momento l’accordo prevede un governo congiunto di tutti i Territori, il ritorno dei funzionari dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) a Gaza, e la cessione del controllo dei posti di frontiera nella Striscia all’Anp, che risponde al presidente palestinese Abu Mazen. Ma secondo indiscrezioni dei media israeliani non è stata affrontata la questione del disarmo dell’ala militare di Hamas, forte di 25 mila combattenti.

Abu Mazen ha poi parlato al telefono con il leader di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar. Hanno concordato l’ingresso in tempi rapidi di tremila poliziotti dell’Anp. Abu Mazen visiterà la Striscia entro un mese e il primo dicembre il governo di unità nazionale prenderà il potere a Gaza. E il 21 novembre ci sarà un nuovo incontro al Cairo fra le arti. Il portavoce di Hamas Hazem Qassem ha spiegato che l’incontro servirà anche per discutere «le principali questioni nazionali, compresa quella dell’ala militare di Hamas, le armi e le posizioni politiche». Ma il leader generale di Hamas, Ismail Haniyeh ha già detto, in replica ad Abu Mazen, che non intende smobilitare l’ala militare e che le fazioni armate al di fuori di polizia ed esercito sono legittime «forze di resistenza».In questo discorso, non può che inserirsi anche Israele. Come si è evinto dall’incontro fra al-Sisi e Netanyahu a margine dell’ultima Assemblea Generale Onu, il processo che si vuole avviare a Gaza è propedeutico alla ripresa dei dialoghi di pace israelo-palestinesi, da tempo rimasti congelati.
Proprio per questo, Israele ha avuto un comportamento in controtendenza rispetto a quello tenuto nel 2014, quando Netanyahu aveva commentato come «significativo passo indietro per la pace» l’incontro fra il Primo Ministro palestinese Rami Hamdallah e Hamas. Nell’occasione più recente, Israele non ha invece manifestato il suo dissenso, suggerendo una nuova strategia nelle sue politiche in Medioriente. In realtà, quella del Governo israeliano sembra più un’attesa per capire come potrà evolvere il dialogo e per venire a conoscenza delle reali intenzioni di Hamas.

Se infatti non c’è stato intralcio all’iniziativa egiziana, negli ambienti israeliani c’è molto sospetto riguardo un definitivo – e soddisfacente – accordo fra i due contendenti nella Striscia di Gaza.  La preoccupazione principale è che l’obiettivo dei miliziani possa essere semplicemente quello di riconquistare consenso, crollato nettamente negli ultimi tempi. Ma resta da vedere se Hamas, per siglare l’accordo, sarà veramente propensa a rientrare nei parametri di sicurezza richiesti, proseguendo verso il disarmo e verso il riconoscimento dello Stato di Israele e accettando i principi del Quartet Representatives. Tutte eventualità che sembrano ancora ben lontane dall’ideologia del gruppo terroristico.

“Israele sta cercando di capire come evolve la situazione”, ci dice Dacrema. “Il suo interesse tacito è comunque quello di una non risoluzione del conflitto, in modo che non si riaprano i dialoghi per una tregua israelo-palestinese. L’unico punto di vantaggio per Israele sarebbe quello di un reale disarmo delle milizie di Hamas, eventualità che, al momento, non appare attuabile”.

A conferma dei dubbi israeliani si è espresso Ghassan Khatib, ex ministro palestinese, che ha visto nella mossa di Hamas una vera e propria trappola per Fatah. Un modo per scaricare la grande responsabilità dell’amministrazione della Striscia di Gaza ad Abbas e riguadagnare consenso. Un accordo che difficilmente potrà vedere la luce. Hamas vorrebbe mantenere una sua presenza nella leadership dell’OLP – Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Fatah non potrà accettarlo finché Hamas non riconoscerà i principi dell’OLP e i requisiti di sicurezza necessari. Fatah non potrà neanche includere Hamas nella gestione di territori di confine, come quello della Cisgiordania, in cui operano anche le milizie israeliane. Insomma, di punti di contatto sembrano essercene pochi.

Nelle ultime ore poi è arrivata anche la conferma dei dubbi, con il governo israeliano che non riconosce la riconciliazione tra Hamas e Fatah e ha fatto sapere che «non intraprenderà negoziati con un governo palestinese che si appoggi su Hamas, una organizzazione terroristica che invoca la distruzione di Israele».

Il giudizio negativo potrà essere modificato solo se si realizzeranno alcune (difficili) condizioni che Israele ritiene indispensabili. Al primo posto è che «Hamas deve riconoscere Israele e cessare il terrorismo, secondo le condizioni poste dal Quartetto». Inoltre, Hamas deve cedere le armi e restituire «i corpi dei militari caduti a Gaza, nonché i civili lì trattenuti». L’Autorità nazionale palestinese (Anp), per Israele, deve poi avere «un controllo completo di sicurezza a Gaza, inclusi i valichi, e impedire il contrabbando». Altra condizione è che l’Anp continui «a neutralizzare le infrastrutture terroristiche di Hamas in Cisgiordania» e che Hamas sia separato dall’Iran. Infine, «il flusso di fondi e di materiale umanitario verso Gaza dovrà passare solo attraverso l’Anp e i suoi apparati».

Forse l’ultimo attore in grado di spostare gli equilibri potrebbe essere proprio l’America di Donald Trump. Il Presidente Usa ha nel mirino la stipula del cosiddetto ‘big deal’, l’accordo di pace nel conflitto arabo-palestinese, verso cui il tycoon ha annunciato di voler procedere nella sua politica estera mediorientale. Per arrivare a questo, è necessaria prima l’unificazione dello Stato di Palestina, e l’ultima apertura fra le due fazioni rappresenta, per lo meno, uno dei più significativi spiragli degli ultimi anni.

“Il piano del ‘big deal’ di Trump appare molto come una politica di facciata”, sostiene l’analista ISPI. “Così come Israele, l’America ha messo in conto il sostanziale fallimento della politica di pace in Medioriente fra arabi e israeliani. Ora come ora, gli Usa stanno vedendo come si evolverà quest’ultima situazione, ma senza conservare valide speranze”.