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Arabia Saudita: l’inizio della fine del Wahhabismo?

25 Ottobre 2017

L’Arabia Saudita “torna all’Islam moderato”, “metteremo fine all’estremismo molto presto”: parola del principe ereditario, Muhammad bin Salman

L’Arabia Saudita «torna all’Islam moderato», parola del principe ereditario, Muhammad bin Salman. Torniamo, ha aggiunto il principe, parlando al forum economico di Riad, «a ciò che eravamo prima, una Nazione il cui Islam moderato è aperto a tutte le religioni e al mondo. Non trascorreremo i prossimi 30 anni della nostra vita avendo a che fare con idee di distruzione. Invece, le schiacceremo. Metteremo fine all’estremismo molto presto». Se queste parole corrispondessero ad un reale programma politico e, prima ancora, ad una decisione politica effettiva, sarebbe una svolta per l’Arabia Saudita e per il mondo. Vorrebbe dire che la casa reale saudita abbandonerebbe il Wahhabismo -il riferimento ideologico non solo della casata reale degli Al Saud-, quella interpretazione dell’Islam che sta alla base dell’estremismo islamico, a partire dall’ISIS. Vorrebbe dire che l’Arabia Saudita, dopo aver speso miliardi di dollari (da un minimo di 10 fino a 100, non ci sono dati ufficiali) per sostenere la diffusione del Wahhabismo in tutto il mondo, oggi l’Arabia Saudita ritornerebbe suoi suoi passi.
«Vogliamo una vita normale», ha detto il 32enne principe Mohammed, «una vita in cui la nostra la nostra religione significa tolleranza e le nostre tradizioni gentilezza. Il settanta per cento della popolazione saudita ha meno di 30 anni d’età, e non vuole avere a che fare con l’estremismo, che sarà distrutto una volta per tutte».

Un impegno ‘forte’ quello del principe: mettere fine all’estremismo, e farlo «molto presto», «schiacciare le idee estremiste», che saranno «distrutte una volta per tutte». Offre una motivazione che potrebbe essere tutt’altro che di facciata: quel 70% di sauditi che hanno «meno di 30 anni d’età», e non vogliono «avere a che fare con l’estremismo». Questa dichiarazione il potente principe ereditario la fa in un contesto economico, un forum nel quale presenta Neom, uno dei progetti di quel grande piano economico al quale da tempo lavora, Vision 2030, e al quale il principe ha dimostrato di voler legare il suo nome e la sua immagine.  Mohammed bin Salman, infatti, ieri ha annunciato un investimento da 500 miliardi di dollari per la costruzione di una città al confine tra Arabia Saudita, Egitto e Giordania. Neom, occuperà 26.500 chilometri quadrati. La città aspira ad essere «la più sicura, la più efficiente, la più orientata al futuro, il miglior posto dove vivere e lavorare» dell’intero regno, spiega una nota che presenta il progetto, la prima zona privata a estendersi in tre Paesi. Città che sarà di fatto un hub globale di attività industriali ed economiche, che per la sua posizione unica può raccogliere il meglio di Europa, Asia e Africa. Vision è il progetto di diversificazione di quell’Arabia Saudita che sta acquistando consapevolezza che il petrolio non potrà essere il suo futuro, di quell’Arabia Saudita che dopo anni di ricchezza che sembrava infinita ha iniziato a misurarsi con i morsi della crisi e con le casse del regno che iniziano segnare rosso. Altro elemento che ha gravato è la crisi di credibilità che, in particolare con l’esplosione sullo scenario mondiale dell’ISIS e della conseguente immagine sempre più compromessa -causa la violenza ISIS- che l’Islam ha acquisito, l’Arabia Saudita e l’Islam estremista stanno vivendo negli ultimissimi anni. Il sostegno al radicalismo di Al Saud, il gioco dei suoi capi per il controllo politico tramite il patrocinio finanziario e l’insistenza del clero per l’istituzionalizzazione del settarismo hanno contribuito solo ad aumentare il dissenso, spingendo milioni di persone a respingere l’impronta prepotente del regno sull’Islam. Una crisi di credibilità morale alla quale si aggiunge la crisi politica determinata dai vari errori sullo scenario internazionale, dal rapporto con l’Iran alla crisi -congelata- con il Qatar, alla guerra nello Yemen. E proprio questa consapevolezza sul futuro che ben poco avrà a che fare con il passato dei Saud, può essere alla base di questa che sembra una ‘svolta’ epocale.

Nel disegno del principe ereditario, secondo alcuni analisti, vi sarebbe un ‘ritorno’ alla fine degli anni Sessanta e ai primi anni Settanta, quando regnante era Faisal, ucciso nel 1975. Furono, nella sua visione, anni di riforme, in particolare per le donne, alle quali fu consentito, tra l’altro, l’accesso all’istruzione. Dall’altra parte punta a ridisegnare il Regno avendo in mente quanto fatto dalle altre monachie del Golfo, impegnate in progetti architettonici innovativi e ambiziosi.
Un segnale che depone a favore della sincerità delle intenzioni di combattere l’estremismo viene dall’annuncio fatto lo scorso martedì dal principe circa la costituzione del The King Salman Complex. Si tratta di un consiglio di studiosi d’élite provenienti da tutto il mondo, con il compito di sradicare false ed estremiste interpretazioni attraverso la stessa lettura dei hadith del profeta Muhammad, «eliminare testi finti e estremisti e testi che contraddicono gli insegnamenti dell’Islam e giustificano l’esecuzione di reati, omicidi e atti terroristici» deve essere l’obiettivo della Commissione, secondo quanto spiegato dal Ministro della Cultura.
Già nell‘autunno 2015 i media occidentali pubblicarono una copia delle istruzioni alle Ambasciate saudite negli Stati del Medio Oriente -documento segreto- che contiene la direttiva per tutti i rappresentanti diplomatici di cessare gradualmente il supporto finanziario all’opposizione armata siriana. Un segnale di ripensamento al tempo sottovalutato dagli osservatori occidentali, ma non a quelli di cultura islamica. L’Arabia Saudita, sosteneva già allora Ahmad Abbas, un analista iracheno residente a Londra, «sta velocemente raggiungendo una consapevolezza politica: i suoi rapporti con il terrorismo e i crimini di guerra che Riyadh continua a commettere in Yemen sono diventati troppo complicati da razionalizzare, anche per i devoti media».
Circa gli errori nello Yemen, sempre nel 2015, Antoine Macon-Perrier, analista indipendente francese che lavorava nel Golfo, sosteneva che «le politiche imperialiste di Riyadh in Medio Oriente rischiano di evidenziare il fallimento nel riconoscere la propria vulnerabilità politica dentro i propri confini. Le ambizioni egemoniche dell’Arabia Saudita non sono esattamente nuove. La Casa di Saud vanta una lunga eredità di conquiste sotto il proprio nome, partendo dalla scalata del Wahabismo nel XVIII secolo. Detto questo, il livello di aggressione militare al quale abbiamo assistito negli ultimi mesi è qualcosa che il regno non aveva mai tentato prima, ed è qui che Al Saud ha chiaramente sbagliato i calcoli, nonostante le pressioni che deve affrontare a causa del calo del prezzo del petrolio. L’Arabia Saudita non è una potenza militare, si affida a mercenari per esercitare le proprie volontà politiche e in questo modo, alla fine, le sue ricchezze vengono sperperate. Nel frattempo i movimenti di resistenza stanno fomentando la legittimità politica della regione».
Il principe nel suo intervento di ieri naturalmente non ha nominato il wahhabismo, ma l’estremismo che ha promesso sradicare è proprio quello, il wahhabismo, che sta alle radici del regno stesso, e che oramai non è più sotto controllo, i movimenti che il regno a finanziato ora il Regno non riesce più controllarli, e il cancro dell’estremismo sta colpendo il Regno stesso, inoltre i religiosi stanno diventando un potere troppo grande che potrebbe mettere a rischio quello della famiglia reale.

Il wahhabismo è un movimento di ‘riforma’ islamica fondato a metà del 1700, nel deserto di Nejd, in Arabia Saudita, da Muhammad Ibn abd al Wahhab, che promuoveva il ritorno alle pratiche degli albori dell’islam, la centralità della sovranità di Dio e sopratutto una lettura ‘letterale’ dei Testi Sacri, Sunna e Corano in particolare. Una ‘devianza’ secondo gli islamici moderati.
L’approccio di Ibn Wahhab -secondo alcuni osservatori un bigotto reclutato dall’impero britannico per erodere il tessuto dell’Islam e rompere l’armatura dell’allora impero ottomano coltivando il settarismo e il dissenso-, che si proponeva il fine di riportare l’Islam ai fasti dei primi suoi anni, si caratterizzava per la sua rigidità nel perseguimento dell’eterodossia: secondo Ibn Wahhab, per esempio, le tombe e i mausolei dei santi dovevano essere distrutte, e il pellegrinaggio verso di esse doveva essere vietato. Le pene corporali (hudud) devono essere integralmente recuperate e rigidamente applicate.
Nel tentativo di riformare l’Islam, Ibn Wahhab si opponeva a qualunque forma di innovazione (bid’a) nell’Islam, avvertendo i musulmani sulla necessità di tornare agli insegnamenti e alle pratiche dei ‘salaf’, i pii antenati, cioè i primi quattro califfi successori di Muhammad, accompagnandovi il rifiuto di storicizzarli.
Le sue idee furono fortemente influenzate dai lavori di un teologo del 1200, Ibn Taymiyah, vissuto al tempo dell’invasione mongola del Califfato abbaside, che vedeva lo Stato come un accessorio della religione e si faceva promotore di una visione esclusivista dell’Islam.
Nonostante i mongoli si fossero al tempo convertiti all’Islam dopo aver conquistato l’Asia centrale e il Levante, Ibn Taymiyah utilizzò per loro il termine di kafir (infedeli), che oggi con i gruppi terroristici come Isis e Al Qaeda -che chiamano ‘infedeli’ tutti coloro che non si adeguano alla loro visione salafita-wahhabita dell’Islam- sta recuperando una certa popolarità. I primi destinatari delle ‘scomuniche’ wahhabite sono i musulmani sciiti -la cui gran parte risiede oggi in Iran-, accusati tra le altre cose di ‘idolatrare’ il genero di Muhammad, Ali Ibn Abi Talib.
Il wahhabismo mira alla trasformazione di precetti religiosi in obblighi, meglio se sanciti per legge, e ne fa derivare la validità dal fatto che questi obblighi (e divieti) esistevano al tempo del Profeta Muhammad. E’ vietato radersi la barba, fumare tabacco, venerare santi e profeti.
La fortuna del wahhabismo si lega a doppio filo alla storia della attuale famiglia regnante in Arabia Saudita: gli al Saud. La loro alleanza ha portato nel 1932 alla fondazione della monarchia saudita, in cui gli Al Saud governano con la ‘legittimazione’ degli Ulema di orientamento wahhabita, preservandosi a vicenda.
A partire dagli anni ’70, con il sostegno degli introiti del petrolio, le fondazioni caritatevoli saudite hanno iniziato a finanziare sistematicamente madrase wahhabite in giro per il mondo: secondo il Dipartimento di Stato americano negli ultimi quattro decenni Riad ha investito più di 10 miliardi di dollari nel finanziamento di fondazioni di questo genere -altri rilevamenti parlano di 100 miliardi-, nel tentativo di rimpiazzare l’Islam sunnita ortodosso con il rigido wahhabismo. Secondo le agenzie di intelligence europee, poi, circa il 20% di questi finanziamenti sarebbero finiti nelle casse dei movimenti jihadisti come al Qaeda. Oggi il wahhabismo è il riferimento ideologico non solo della casata reale degli Al Saud, ma anche di tutti i movimenti jihadisti del Globo; la bieca ferocia dell’ISIS incarna la violenza propria del wahhabismo e del suo ramo più radicale, il salafismo.