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A Sud del Sudan: l’orizzonte della pace tradito. E l’Italia?

20 Ottobre 2017

Guerra perenne e riconfigurazioni territoriali. Prospettive di lettura, nell’ambito di un ‘ravvicinamento’ italiano ed europeo in grado di guardare al di là del passato coloniale

Se pensiamo alla sfera di azione geopolitica dell’Italia, ‘vediamo’ il Mediterraneo: lo scenario in cui essa è costantemente confrontata con la gestione del fenomeno migratorio e la questione delle minacce alla sicurezza pubblica internazionale (con tutte le proiezioni che interessano il suo territorio). Tuttavia, benché il suo passato coloniale non sia stato – per ragioni di potenza e per un’unità nazionale tardivamente acquisita – pari a quello di Paesi come la Francia o la Gran Bretagna, non possiamo ignorare il fatto che la macro-regione del Corno d’Africa è indissolubilmente legata alla storia italiana.

Il nostro ‘tempo delle colonie’ è durato quasi un secolo: dal 1869, anno in cui la società genovese ‘Rubattino‘ acquista la Baia di Assab, al 1960, quando la Somalia, unendosi al Somaliland, diventa Stato indipendente. Il Sudan anglo-egiziano è un colosso che delimita, dal 1899 al 1956, il confine occidentale di Etiopia ed Eritrea. Paese immenso, i suoi territori sono stati teatro della formazione, negli anni Ottanta del XIX secolo, di un esercito ribelle riunito sotto il ‘Mahdi‘ – ‘Ben guidato (da Allah)‘ – Muhammad Ahmad, che costituirà uno Stato islamico e un movimento politico capace di influenzare la storia del Paese per tutto il Secolo successivo.

Protagonisti di una lunga guerriglia contro avamposti e distaccamenti governativi, furono migliaia di uomini reclutati attraverso il Kordofan, la vasta regione centrale di quasi 147 mila kmq (riannessa come provincia soltanto dopo la riconquista inglese del 1898). Di umile estrazione, questi combattenti erano contadini, schiavi, artigiani, pastori-cacciatori nomadi – non certo proprietari terrieri o allevatori abbienti. La forza aggregante di questa unificazione politica a base religiosa, incarnata ben oltre la sua morte (poco dopo la resa di Karthoum del 1885) dalla figura carismatica del Mahdi, risultava fondata sulla legge islamica (shari’a), repressiva delle differenze sociali e culturali, in rivolta contro la dominazione straniera e aggressiva verso i territori confinanti, come l’Egitto, l’Etiopia o l’Eritrea italiana, nel 1893.

L’anno successivo le truppe italiane del Gen. Baratieri avrebbero sconfitto i mahdisti a Cassala, occupandone l’area fino alla disfatta di Adua, nel 1897, imputata dallo stesso Baratieri alla «viltà dei propri uomini». Adua segnò la fine di una chimera: l’Italia – nonostante i successivi sviluppi della campagna libica – non sarebbe mai stata una potenza coloniale.

Tornando alla ‘ricetta politica’ del mahdismo sudanese, ne ritroveremo gli ingredienti – con l’aggiunta della retorica delle etnie – nelle guerre che, a più riprese, hanno sconvolto il Sudan nel corso della sua storia, anche recente: al vaglio del tempo, l’intera regione si è dimostrata, ciclicamente, un epicentro di conflitti, tanto da provocare un’immagine – mediatizzata – di ‘inferno perenne’. Nonostante la distanza temporale, per la storia del Paese, e la lontananza prospettica imposta dal contesto geografico all’osservatore europeo, il mahdismo ci mostra come l’offerta costituita da un mix di religione, verticismo, repressione dell’organizzazione tribale e guerra al dominatore straniero abbia incontrato la domanda di chi, estremamente povero o privo di status, sperava in un miglioramento della propria condizione più che nella beatitudine garantita dalla morte in battaglia.

Con la prima guerra civile, che durerà quasi 20 anni (1955-1972), il conflitto di potere tra Nord e Sud si inasprisce all’alba dell’indipendenza (1956). Nel 1959 è costituita l’Agip Sudan Ltd (100% Agip), allo scopo di commerciare e distribuire prodotti petroliferi, con un deposito interno a Karthoum (2000 mc) e uno costiero a Port Sudan (6000 mc) – ancora oggi, i centri nei quali si trovano le principali raffinerie. La Società sarà venduta tra il 1998 e il 2000. Il riferimento, oltre richiamare l’importanza, per la ricostruzione dell’Italia di quegli anni, della nuova politica energetica nazionale che ebbe in Enrico Mattei il suo alfiere, segnala la presenza di un potente (il più potente?) fattore di interesse e di divisione, che alimenterà le guerre civili.

Il ‘Nile‘, definito «sweet and light» dall’International Crude Oil Market Handbook, è un greggio pregiato per la leggerezza e il basso contenuto di zolfo (0,045 %). Dopo il 1999, l’esplorazione nelle regioni orientali e nel bacino del Nilo Azzurro e l’accesso possibile ai giacimenti nel Sud, hanno fatto decollare la produzione e l’export verso l’Asia, specie dopo la costruzione, da parte della Cina, di un oleodotto di 1600 km che collega il centro del Paese al Mar Rosso, con una produzione di circa 250 mila barili al giorno, che nel 2007 sarà quasi raddoppiata e destinata al mercato asiatico. Circa la metà di questo prodotto è destinata alla Cina (che, dal 1996, ha rafforzato il suo controllo sulla ‘Greater Nile Petroleum Operating Company‘), seguita da Giappone, India, Indonesia e Corea del Sud.

Intanto, nel 2003, scoppia il conflitto nella regione del Darfur, un’area che, insieme al Sud Sudan , dove la guerra è ripresa nell’agosto del 2016, è oggi ritenuta dalle Nazioni Unite la più colpita in termini di violazioni di diritti umani. La crisi del Darfur, come è scritto nel Rapporto 2016 dell’Associazione ‘Italians for Darfur‘, è un «conflitto sociale, ancor prima che militare» che «nasce negli anni ‘80, quando lungo tutto il Sahel si affermava l’arabismo, la supremazia degli ‘arabi’ in Africa. (…) Le discriminazioni a tutti i livelli verso gli ‘africani’, principalmente Fur, il 30% della popolazione totale, gli Zagawa, il 10 %, e i Masalit del Darfur, si susseguivano incalzanti fino a portare alla presa di posizione di un gruppo ribelle anonimo, il cui messaggio viene diffuso su larga scala attraverso il Black Book».

Nel «libro nero» erano denunciate «con tabelle ed esempi circoscritti, le ingiustizie subite nella società e nella politica sudanese» per conto di una classe dirigente rappresentativa dell’8% demografico nazionale. Riemerge, mai sopito, il conflitto tra centro e periferia. E riaffiorano costruzioni basate su vecchi miti razzisti che ebbero successo per tutta l’età coloniale. Pensiamo, ad esempio, alla stirpe maledetta di Cam, ritenuto dagli evangelizzatori dell’Africa progenitore dei ‘neri’, in contrasto con le popolazioni nilotiche, dalla pelle più chiara. Un mito che, nella storia del continente, ha portato – grazie all’azione congiunta di amministratori ed ecclesiastici e alle successive riconfigurazioni del potere – a una violenza genocidaria come quella del Ruanda.

Se uno storiografo antico come Diodoro Siculo parlava di differenze negli usi, come nell’aspetto fisico, per significare le trasmissioni culturali e la varietà della geografia umana, la razziologia sviluppata nell’Ottocento su basi scientifiche prive di fondamento, crea false opposizioni che serviranno le esigenze del dominio coloniale e le retoriche del potere dei nuovi Stati indipendenti oltre ogni aspettativa.

Nella sua portata asimmetrica, la relazione è sempre la stessa: egiziani/etiopi, bianchi/neri, civilizzati/selvaggi. In Sudan, l’’arabismo‘, figlio del mahdismo, costituisce ormai un’arma ‘storica’ contro le popolazioni cristiane e tradizionaliste del Sud, in quanto meccanismo bipolare abile a creare squilibri e disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza, nell’accesso alle cariche politiche, e in tutti gli aspetti pertinenti – in una prospettiva di democrazia – alla condizione di ‘cittadino’. Il bilancio in vittime della prima guerra tra il governo di Karthoum e i separatisti del Sud è di circa mezzo milione di persone. Del contrasto fu responsabile anche l’amministrazione anglo-egiziana, che governò separatamente le due regioni, poi unificate per obiettivi strategici di mera spartizione e controllo, totalmente estranei alle ragioni dei governati.

Il lungo iter verso la pace del 1972 non impedisce, 11 anni più tardi, una nuova repressione contro chiunque si opponga all’applicazione generalizzata della legge islamica, imposta nell’aprile del 1983 dal Presidente Gaafar Muhammad an-Nimeiry. La ‘caccia al non–musulmano’, con tanto di tribunali speciali ed esecuzioni sommarie, a cui si aggiunge lo scioglimento degli organi di governo nel Sud, porta alla formazione e alla reazione armata del ‘Sudanese People’s Liberation Army’ (SPLA), l’esercito ribelle sostenuto dall’URSS e appoggiato da altri stati africani (tra cui l’Etiopia, l‘Uganda e la Libia), guidato dal Colonnello John Garang.

È la seconda guerra civile. L’elemento religioso funziona, insieme alle altre polarizzazioni, come collettore di nuove violenze: bianchi/neri, civilizzati/selvaggi, arabi musulmani/africani cristiani o addirittura – come si dice, con una certa vaghezza di significato – ‘animisti’. Nel 1989 si arriva al colpo di stato militare di Omar Al-Bashir, leader del ‘Fronte Nazionale Islamico‘ e attuale Presidente del Sudan, condannato dalla Corte Penale Internazionale per «crimini di guerra», «genocidio» e «crimini contro l’umanità». Il conflitto durerà fino al 2005, passando per i tentativi di mediazione e dialogo dell’’Autorità intergovernativa per lo Sviluppo‘ (IGAD, un’intesa formata dai Paesi del Corno, istituita per assicurare cooperazione, sicurezza alimentare e protezione ambientale contro la desertificazione), coadiuvata dall’Egitto e dalla Libia, la nascita di nuovi movimenti di liberazione nell’Est del Paese.

La grave siccità del 2000, un altro fattore di deprivazione socio-economica e la dispersione delle popolazioni rurali, ha certamente provocato recrudescenze, affiliazioni tra fazioni in lotta e un ulteriore intensificarsi dei conflitti in tutto il Paese. Grazia anche all’intervento del Senatore e diplomatico statunitense John Danfort, Inviato speciale dell’ONU per la Pace in Sudan nel 2001, i primi colloqui di pace tra i ribelli e il regime risalgono al 2003. Dopo due anni di progressiva distensione, si arriverà, il 9 gennaio 2005, alla firma dell’’Accordo globale di pace’ di Naivasha (Kenya).

Si prevedono 6 anni di transizione, durante i quali il Sud godrà di autonomia e i redditi derivanti dal petrolio dovranno essere equamente ripartiti, così come i posti di lavoro. Tuttavia, diversamente dal discorso avviato nel 2003, Naivasha è apparso alla maggioranza della popolazione sudanese un tentativo riuscito di rafforzamento del regime islamista, destituito di ogni legittimità ai loro occhi. La seconda guerra civile ha provocato 2 milioni di morti e 4 milioni di sfollati, causando spopolamento, malattie e povertà estrema. Gli aiuti umanitari, con l’eccezione dell’emergenza siccità nel 2000, sono stati sospesi, complice anche l’isolamento internazionale provocato dall’embargo statunitense, revocato solo a gennaio 2017 dal Presidente uscente Barack Obama. Con effetto a partire dallo scorso 12 ottobre, il governo USA ha definitivamente revocato le sanzioni economiche imposte al Sudan.

Nel luglio 2011, al termine del Referendum, nasce il Sud Sudan, 54esimo Stato dell’Africa. Tuttavia, il conflitto, per una specie di ‘effetto periodico’ di scissione interna, riprende nel 2013, in seguito all’accusa del suo Vice, Riek Machar (un nuer), da parte del Capo dello Stato, il Presidente Salva Kiir, (di etnia dinka, la più numerosa nel Paese) di avere tramato un colpo di Stato. Divisa in due fasi intervallate da una breve tregua nel 2015, la guerra, mai sopita – le perduranti violenze in Darfur ne sono conferma- torna a mostrarsi nei numeri: 300 mila morti e 2 milioni di sfollati, dal 2013.

Il ‘diritto di fuga’, non riconosciuto, si pratica in direzione degli Stati di confine o dei campi di accoglienza allestiti dall’ONU, impegnata in una missione di peacekeeping (UNMISS, che presidia 2 campi) e criticata dalla stampa internazionale per la propria «inazione» di fronte all’uccisione di 300 persone durante gli scontri che, lo scorso luglio, hanno insanguinato Juba, la nuova capitale.

Oggi, in Sud Sudan, lo Stato di diritto è assente e l’economia nazionale dipendente al 95% dal petrolio. Mentre aumenta l’insicurezza (lo stesso personale sanitario, non retribuito da mesi, abbandona il proprio posto per procurare il sostentamento alla famiglia), il tasso di analfabetismo tocca l’80%, l’inflazione l’850%, e i massacri di persone inermi assumono connotati di ‘ordinaria’ attualità. La guerra contro i ribelli del Sud aveva fatto ampio uso di milizie paragovernative, mobilitate anche a cavallo sul territorio, che si sono macchiate di crimini efferati e hanno saccheggiato e distrutto centinaia di villaggi.

Oggi, nella nuova fase della guerra civile che interessa il Sud Sudan, il reclutamento dei miliziani fa leva (con modalità comparabili a quelle degli eserciti ribelli che combattevano Al-Bashir) su giovani privi di una prospettiva socio-economica, provenienti anche da altri Paesi come l’Uganda. Come scrive il giornalista Fulvio Beltrami, esperto di politica e conflitti regionali africani, «Il reclutamento dei giovani ugandesi sfrutta l’alto tasso di disoccupazione registrato nel nord-Uganda. Vengono sfruttati anche i rancori che ancora nutrono gli acholi», membri del gruppo sociale dell’ex-Presidente ugandese Milton Obote, «nei confronti del governo centrale». Il Sudanese People Liberation Army – In Opposition (SPLA-IO), avverso a Salva Kiir, «considera», scrive Beltrami «l’Uganda come un Paese nemico causa il supporto militare offerto dal Presidente Yoweri Kaguta Museveni, che salvò il governo di Salva Kiir dalla resa nella prima fase della guerra civile 2014-2015». Questi giovani sono impiegati in imboscate lungo il tratto compreso tra la Capitale e Nimule a scopo di destabilizzare la rete commerciale e di approvvigionamento militare: «Gli effetti negativi si espandono al mercato ugandese che ha trasformato il Sud Sudan in un florido mercato per le esportazioni di prodotti nonostante la guerra civile».

In effetti, nonostante il conflitto in corso da 3 anni, il Governo di Juba punta al rilancio della produzione nazionale e della capacità di raffinazione del greggio, con un ritorno agli standard anteriori al 2013 e l’obiettivo di vendere i propri prodotti in Sudan, Etiopia Uganda e Kenya. In proposito, il Ministro del Petrolio Ezekiel Lol Gatkuoth prevede, entro la metà del 2018, un rialzo produttivo dagli attuali 130 mila barili a 350 mila barili giornalieri. Per incentivare un ritorno dei principali investitori (Cina, India e Malesia, rappresentate da 3 rispettive compagnie), sono state rafforzate le misure di sicurezza nelle aree interessate dai giacimenti.

Nell’ambito di un ‘ritorno’ di interesse dell’Italia sul Corno d’Africa, capace – negli intenti – di lasciarsi alle spalle il peso del passato coloniale, nel luglio 2014 l’allora Viceministro degli Esteri italiano Lapo Pistelli, in visita nei diversi Stati della regione, comunicava dalla Farnesina la necessità di superare le «rispettive recriminazioni che ormai attengono alla sfera storica del nostro rapporto e devono smettere di condizionare l’attualità». Lo sviluppo di una politica discreta, che ponga la fiducia al centro dei nuovi rapporti economici italiani (soprattutto con Asmara), porta con sé la necessità di sottoporre le iniziative di intesa bilaterale al rispetto dei diritti umani. In coerenza con questa prospettiva, in Sudan Pistelli ha incontrato Meriam Ibrahim, giovane donna convertitasi al cristianesimo, condannata a morte per apostasia, e poi assolta in Appello, a seguito delle pressioni esercitate dalla comunità internazionale. Grazie all’intervento diplomatico dello stesso Pistelli, Meriam ha potuto lasciare il Paese, diretta in Italia, dove è arrivata con i due figli il 24 luglio.

Parlando dei rapporti complessi tra Africa ed Europa, che il 29 e il 30 novembre saranno oggetto del Summit di Abidjan, in Costa d’Avorio, le cause dello spopolamento e della mobilità riuniscono tutte le figure di ‘fattore migratorio’ destabilizzante con cui l’Italia e la comunità internazionale si sono confrontate negli ultimi anni. Nel caso sudanese, oltre alla problematicità che comporta il distinguo tra migranti ‘ambientali’ o climatici’ (non tutelati dal sistema di protezione internazionale) e richiedenti asilo o rifugiati, le risposte non sono state sempre trasparenti. Ricorderemo, in proposito, il respingimento forzato del 24 agosto 2016, che ha riportato in Sudan 48 ‘irregolari’ del Darfur. Le denunce di totale illegittimità, sollevata dal ‘Tavolo Nazionale Asilo’, degli accordi segreti con la polizia di Al-Bashir, mai passati al vaglio del nostro Parlamento, è valsa all’Italia un nuovo ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Dopo la condanna del 2012 per i respingimenti in Libia, il diritto è stato nuovamente rimpiazzato dalla prassi.

Per ciò che riguarda il Sudan e il Sud Sudan, Paese off-limits per le guerre e il lungo embargo subito, l’Italia è attiva con progetti di cooperazione allo sviluppo e di intervento umanitario. In base ai dati forniti dall’’Agenzia italiana per la Cooperazione allo Sviluppo’ (AICS), l’impegno degli ultimi 15 anni, interessa soprattutto il settore medico e sanitario, nel campo del primary care e con l’attività del Salam Centre, ospedale cardiochirurgico gestito da ‘Emergency‘. In collaborazione con diverse Agenzie delle Nazioni Unite, siamo inoltre presenti soprattutto nell’Est del Paese (Gadaref, Cassala, Red State) con programmi di riduzione della povertà e tutela delle donne, oltre a partecipare a un programma dell’’United Nations Development Programme’ (UNDP) nello Stato del Nilo Azzurro per la de-radicalizzazione e il reinserimento degli ex-combattenti del Sud. In Sud-Sudan, uno Stato tuttora in guerra, è tutto più difficile. Una particolare menzione va a Intersos e al suo progetto educativo, coordinato ‘sul campo’ da Davide Berruti. L’Organizzazione è presente in 5 regioni del Sud dal 2006. In generale, il ‘ravvicinamento’ dell’Europa (e dell’Italia, come membro del ‘Global Fund’) si traduce in un impegno negli Stati del Corno per contrastare la povertà, controllare meglio le frontiere e implementare tecniche agricole programmi di sviluppo alimentare collaborando con le Nazioni Unite.

Sul piano economico, in Sudan si prospettano anche nuovi rapporti con le imprese italiane per il bisogno urgente di infrastrutture. Sono lontani i tempi dell’Agip Sudan, eppure il petrolio, finora gestito dai giganti asiatici – Cina in testa -, costituisce un fortissimo polo di attrazione. In uno scenario che appare così lontano dal contesto euro-mediterraneo, è più facile cedere ad automatismi di lettura che tendono a tagliare fuori ogni discorso in merito alle cause profonde e al radicamento del conflitto armato che appare perenne: una guerra ‘etnica’ (ma non si sa mai esattamente cosa voglia dire), con massacri indiscriminati di civili e lotte senza quartiere tra le fazioni che oggi si contendono il potere nel nuovo Stato del Sud. È vero: si combatte, e la crudezza dei fatti e delle cifre, nel loro periodico riproporsi, si impone come un macigno La tentazione è forte a bollare, con lo scontro identitario, qualcosa di ‘connaturato’ a quelle società.

Ci sono, tuttavia, elementi che permettono, se non di comprenderle, di ‘avvicinarsi’ alle ragioni profonde della crisi umanitaria a cui assistiamo. Uno è la lettura del contesto in prospettiva storica e comparativa, mettendo in relazione i rivolgimenti politici interni con i rapporti di forza internazionali (lo abbiamo visto con la sopravvivenza degli aspetti unificanti del mahdismo, la spartizione dei territori decisa dalle potenze coloniali, le sfere di influenza durante la guerra fredda e lo scoppio di guerre legato al controllo delle risorse, con una preminenza del petrolio a partire dalla sua scoperta). Gli sforzi dell’IGAD, un attore-chiave della pace nell’intera regione tuttora impegnato nella ricerca di un dialogo politico tra le parti – oltre alle sue istanze fondative, volta a combattere piaghe come la siccità e la fame – sono oggetto di un’attenzione rinnovata da parte dell’Unione Europea, che ha ribadito a più riprese l’importanza dell’ONU come attore internazionale e della sua missione di pace in Sud Sudan.

Infine, l’ausilio dell’antropologia permetterebbe un più lucido collegamento delle dinamiche di affiliazione tra la parti in conflitto con la struttura sociale delle popolazioni coinvolte nel conflitto. Se l’ordine tribale è, per definizione, un riferimento del gruppo sociale al territorio che esso occupa, l’etnia, il gruppo sociale e il territorio non coincidono. L’etnia è un ‘prodotto’, un’attribuzione di natura politica: essa serve a prendere posizione (o a collocare qualcuno) rispetto a determinati interessi; ma una stessa persona, giocando sulla discendenza parentale e le alleanze, potrà appartenere a due etnie diverse secondo la circostanza. L’etnia può meglio essere accostata alla lingua parlata, che è qualcosa di molto fluido e in continuo adattamento. Ma non è nulla di definitivo: restando in Sud Sudan, i Nuer e i Dinka, ai quali appartengono i fautori dei nuovi massacri in atto, sono ‘ambiti di riferimento’ che ben si prestano a polarizzare lo scontro, come è successo tristemente in altre guerre etniche (dai Grandi Laghi ai Balcani, dalla Georgia al Bengala occidentale).

I livelli dello scontro sono molteplici e possono interessare il controllo di risorse strategiche nello scenario regionale e internazionale, m anche la sopravvivenza in aree abbandonate, devastate e desertificate. L’affiliazione passante, tra le popolazioni di origine nomade, per il lignaggio è stato oggetto del lungo studio, negli anni Trenta del Secolo scorso, dell’antropologo Edward Evans Pritchard. Questo aspetto organizzativo, che Pritchard chiamò un’ «anarchia ordinata» funzionava come un complesso sistema di faide per ristabilire l’ordine in una società segmentaria priva di Stato e a potere diffuso come la società Nuer, difesa da guerrieri nomadi.

Difficile escludere che un simile retaggio culturale non si sia trasformato, continuando per certi aspetti a funzionare in nuovi contesti, dove il dissesto politico, il controllo dei territori l’abbandono delle terre rendono impossibile il riproporsi delle realtà studiate da Evans Pritchard. Questo retaggio, che ha a che fare i rapporti di forza (guerra compresa) attraverso una parentela estesa nel tempo e nello spazio, può essere in qualche misura trasmesso e oggi potrebbe aiutarci, soprattutto in sede di mediazione e peacebuilding, a capire meglio i meccanismi di adesione a un gruppo armato e le retoriche del potere operanti all’interno del giovane Stato del Sud – e lungo i suoi confini.