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Suu Kyi, da paladina a capro espiatorio della crisi birmana

1 Settembre 2017

Per anni l’Occidente ha mitizzato la figura del Nobel. Ora, dopo 17 mesi di governo, la accusa di tradire le minoranze. Ambito su cui, però, non ha voce in capitolo. Il sottile equilibrio tra politica e militari.

La Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, al potere in Birmania dal 6 aprile 2016, è stata per oltre 20 anni idealizzata dall’Occidente come l’eroina mandata dalla provvidenza per liberare il Paese dal giogo dei militari e instaurare la democrazia. A un anno e mezzo dall’inizio del suo mandato, con le violenze tra gruppi etnici e le dure repressioni dell’esercito che non accennano a diminuire, il suo atteggiamento considerato debole e remissivo viene visto da molti come un “tradimento”. Ma solo da chi (media in primis) aveva costruito intorno a lei una narrativa semplice e accattivante della liberatrice western friendly, non sapendo o dimenticando che il fragile nuovo assetto del Paese si basa su un compromesso tra militari e politica che la leader non può e non deve spezzare.

A suscitare indignazione negli ultimi giorni sono gli scontri nella regione nordoccidentale di Rakhine tra il braccio armato della minoranza musulmana dei Rohingya e l’esercito, e le conseguenti rappresaglie dei militari sulla popolazione civile. Le violenze sono iniziate il 25 agosto, quando l’Esercito Arakan per la salvezza dei Rohingya (Arsa), che si presenta come milizia di autodifesa e riscossa della minoranza, ha attaccato diverse stazioni di polizia. La reazione dell’esercito è stata durissima e migliaia di Rohingya stanno cercando di fuggire nel vicino Bangladesh (in sei giorni già 18 mila persone hanno attraversato il confine).

Si tratta di una nuova dinamica nella situazione della regione, dove fino a poco tempo fa le pesanti discriminazioni a cui sono sottoposti un milione di musulmani non avevano dato lo spunto a movimenti armati organizzati. Proprio prima degli attacchi, una commissione nominata dal governo e guidata dall’ex segretario generale dell’Onu Kofi Annan aveva pubblicato il suo rapporto sul Rakhine, raccomandando misure di sviluppo economico e di giustizia sociale per ridurre la crisi tra le due comunità.

AUNG SAN SUU KYI SOTTO ACCUSA. Le notizie che arrivano dalla regione sono poche e incerte, data l’assenza di ispettori internazionali e giornalisti, ma da quel che trapela è evidente che i soldati agiscono con brutalità. Così come, ed è documentato da un rapporto dell’Onu che prende in considerazione il periodo tra l’ottobre 2016 e febbraio 2017, hanno agito con brutalità in tutti questi anni. Aung San Suu Kyi è stata pesantemente criticata dalla comunità internazionale per i suoi silenzi su tali abusi. Ma la realtà è più complessa di quello che appare in superficie, e chi conosce in profondità la situazione non si stupisce di cosa sta succedendo (come invece accade a chi ha pensato che con la salita al potere della paladina dei diritti umani il Paese avrebbe cambiato faccia subito).

LA GIURISDIZIONE DELL’ESERCITO. «Mi aspettavo di vedere quello che sta succedendo, perché è il risultato inevitabile di quanto scritto e previsto nella Costituzione del 2008», spiega a Lettera43.it Francesco Montessoro, docente di Storia dell’Asia all’Università degli Studi di Milano riguardo al protrarsi delle tensioni tra etnie, «la nuova Costituzione impone un compromesso tra militari e il partito politico di Aung San Suu Kyi. Il processo di democratizzazione è reale, ma è limitato dal patto istituzionale che stabilisce di non escludere i militari. I quali hanno il controllo di un quarto del parlamento per legge, ma soprattutto hanno la titolarità esclusiva di tre dicasteri fondamentali: gli Interni, le Forze armate e il ministero dei Confini».

Il processo di transizione, iniziato alla fine degli Anni 2000 dall’ex primo ministro e presidente Thein Sein, ha portato il Paese da un regime militare a una semi-democrazia unica nel suo genere, in cui ai militari i tre dicasteri “blindati” hanno garantito il potere su molte questioni, e in particolare quella del rapporto con le minoranze. «Non chiediamoci perché Aung San Suu Kyi non ha attuato una politica diversa nei confronti della minoranza Rohingya, semplicemente non è lei a decidere», riassume Montessoro.

UN EQUILIBRIO DELICATO. «Non è ancora chiaro se il processo democratico sarà irreversibile o se la giunta militare avrà ancora l’ultima parola su qualsiasi cosa», spiegava a L43 lo storico birmano Thant Myint U proprio a ridosso della salita al potere di Suu Kyi. Un anno e mezzo dopo, è evidente che su molte questioni l’ultima parola è ancora dei generali. Ma se il controllo effettivo sui quei territori resta al di fuori della portata della leader politica, si stanno chiedendo in molti, non si spiega il suo silenzio su questi fatti. La risposta è nel processo stesso di transizione verso uno Stato di stampo democratico, che per diventare «irreversibile» deve passare da una fase in cui i due protagonisti della storia, esercito e governo, devono convivere e non cercare di prevalere uno sull’altro.

«Suu Kyi non può farsi sentire di più, perché verrebbe meno al patto che è stato fatto a suo tempo, vale a dire democrazia per quel che riguarda la rappresentanza parlamentare, ma non per il controllo di quei dicasteri vitali», continua Montessoro, «se lei cercasse di intervenire e allargare il suo controllo a quei settori, il sistema crollerebbe. È costretta al compromesso per mantenere lo status quo». Il prezzo di questo compromesso è evidentemente alto: secondo il rapporto dell’Unhcr per il 2017, ancora 525 mila persone necessitano di assistenza umanitaria in Birmania, di cui 402 mila nella regione di Rakhine. La maggioranza buddhista occupa la maggior parte dei posti di potere e il governo ne è ampiamente influenzato. Ancora dopo l’ascesa al potere di Aung San Suu Kyi, la libertà di stampa e di espressione è compromessa.

Ma solo con uno sguardo occidentale si può giudicare un fallimento e un raggiro l’operato del premio Nobel per la Pace dell’ultimo anno e mezzo, tanto ingenuamente accusata ora quanto ingenuamente innalzata ad eroina capace di trasformare con un colpo di bacchetta un Paese vissuto per 50 anni sotto regimi militari.

FIGLIA DEL PADRE DELLA PATRIA. Suu Kyi fa il suo ingresso nella vita politica birmana nel 1988 (al tempo della rivolta popolare che scuote il regime militare), quaranta anni dopo l’assassinio di Aung San, padre della patria e maggior esponente politico e militare nella fase della lotta che precede la nascita della Birmania indipendente. Come accaduto spesso nelle civiltà asiatiche nel XX e XXI secolo, il potere è passato dal padre alla figlia: non ha seguito la carriera politica di tipo occidentale che prevede una sempre maggior approvazione popolare, ma ha assurto al suo ruolo innanzi tutto perché «figlia di suo padre», come lei stessa si definiva all’inizio del suo percorso. Allo stesso modo, la sua concezione di uno Stato democratico non è esattamente parallela a quella europea o americana.

«In un saggio del 1989 la leader rivendica il governo rappresentativo, le libere elezioni, il rispetto dei diritti umani», spiega Montessoro, «si tratta però di considerazioni da intendersi in una prospettiva più precisamente religiosa: in Birmania la democrazia e l’idea di libertà si legano alla ricerca della liberazione, in termini buddhisti, dalle costrizioni di questo mondo». L’errore di valutazione occidentale, alla fine, è sempre lo stesso: applicare i propri valori e meccanismi a culture completamente diverse. Così come (ma questa è la tentazione di qualsiasi narratore che voglia rendere attraente una storia) fuorviante è stato da parte dei media semplificare la figura di Aung San Suu Kyi fino a ridurla a un simbolo da cui aspettarsi solo il bene assoluto. A essere consapevole dei propri limiti, al contrario, è sempre stata la stessa Suu Kyi: «Ve lo dico con franchezza, non sono un mago», affermò nel corso di una conversazione nel 1997, «non possiedo nessun potere speciale che mi permetterà di darvi la democrazia».