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Nord Corea, gli interessi che spingono la Cina a non fermare Kim

5 Settembre 2017

Se crollasse il regime, Pechino si troverebbe una guerra in casa. Con rifugiati da accogliere. E i 30 mila soldati Usa schierati in Corea del Sud ancora più vicini. Così lo tiene in vita tramite commercio e rimesse.

Lungo il delta del fiume Yalu il muro di filo spinato compare a tratti. Il ponte dell’amicizia e i treni ad alta velocità collegano la riva cinese con la sponda nordcoreanea, la città di Dandong e il suo porto commerciale con l’area a «sperimentazione dell’economia di mercato» di Sinuiju e, per estensione, grazie alla ferrovia, le due capitali Pechino e Pyongyang.

PYONGYANG “DIPENDE” DAI VICINI. Nel bacino di acqua dolce, i due regimi si dividono oltre 200 isole, le loro imbarcazioni navigano con pari diritti e la frontiera si scioglie in un centro di commerci floridi, di scambi legali e illegali. Una fonte di reddito per tutti, e per i sudditi di Kim Jong-un a volte una via di fuga. Qui passa il 70% del commercio tra Cina e Corea del Nord, il flusso da cui materialmente dipende la sopravvivenza della dittatura di Pyongyang.

E qui si può trovare la risposta alla domanda semplice e imbarazzante insieme che molti si pongono mentre Kim minaccia di colpire Giappone, Stati Uniti e Corea del Sud con la bomba a idrogeno: perché Pechino non recide i fili? Perché non fa cadere il regime di un autocrate instabile, che oltre ad affamare il suo popolo, obnubilarlo con il culto della personalità e imprigionarlo nei campi di rieducazione, ora minaccia la sicurezza globale?

UNICO VERO PARTNER COMMERCIALE. L’ex Impero celeste ha tutte le armi in mano: è il principale – quasi unico a guardare le proporzioni – partner commerciale della Nord Corea. Le fornisce petrolio e aiuti alimentari, ne compra l’abbigliamento, e, sanzioni permettendo, il carbone, lo zinco e i minerali di ferro. Ospita la stragrande maggioranza dei nordcoreani che lavorano all’estero pronti a inviare al regime laute rimesse. La risposta è semplice quanto le tante brecce nella barriera di filo spinato: la Cina non ha nessun interesse a far cadere il regime di Kim Jong-un.

Al sesto test nucleare del dittatore nordcoreano, gli Stati Uniti d’America di Donald Trump continuano a rispondere con l’ambiguità: il presidente del Make America Great Again non ha lasciato cadere l’opzione militare, ma ha annunciato di essere pronto a interrompere tutti i rapporti commerciali con chi fa affari con Pyongyang. Detto in altri termini: soprattutto con la Cina.

SANZIONI CHE HANNO COLPITO PECHINO. Trump ha le sue ragioni perché la Repubblica Popolare è per la Corea del Nord «tutto il mondo economico», «con una mano sono la chiave e con l’altra la serratura», è la definizione di Joseph M. DeThomas, oggi professore alla Pennsylvania State University ma soprattutto ex ambasciatore americano che ha seguito il programma delle sanzioni imposte a partire dal 2006. Quelle misure hanno colpito soprattutto Pechino. Ma hanno limitato in minima parte i rapporti tra i due Paesi.

Anzi, dall’anno di imposizione delle sanzioni, le importazioni di beni cinesi da parte della Corea del Nord sono addirittura cresciute, passando da circa 1 miliardo di dollari ai 4 del 2014. Andando a nutrire l’ascesa di Kim alla guida del regime. La prima reazione cinese è stata quella di diminuire gli aiuti (nel 2009 fu la sola grande potenza a non interrompere l’invio di derrate alimentari verso il regime) e aumentare le relazioni commerciali.

NEL 2017 AUMENTO DI EXPORT E IMPORT. E anche se negli ultimi anni, con le successive misure di contenimento prese a livello internazionale, i flussi sono leggermente calati, i dati del 2017 registrano una nuova tendenza al rialzo. A inizio maggio l’autorità cinese delle dogane ha annunciato in conferenza stampa un balzo delle sue esportazioni verso Pyongyang del 54,5% e del 18,4% dell’import nel primo trimestre. Da aprile a giugno poi, secondo la società di analisi commerciale Panjiva citata dal Washington post, Pechino ha esportato in Corea 934 milioni di dollari di beni, circa 200 milioni di controvalore in più rispetto ai primi tre mesi dell’anno.

Nel frattempo l’ex impero Celeste si è distanziato a livello politico da Kim, che di certo è un problema per quella stabilità da tempo obiettivo primario dei maggiorenti di Pechino. Ha rilasciato avvertimenti ufficiali, ha aderito alle sanzioni delle Nazioni unite, dopo la risoluzione di novembre ha diminuito le importazioni di minerali che secondo gli Stati Uniti sarebbero andati in questi anni a finanziare i test nucleari.

NESSUNO TOCCHI GLI AFFARI SUL PETROLIO. Ma al tavolo del Consiglio di sicurezza la Cina è sempre riuscita a strappare le condizioni più morbide che non intaccassero profondamente il legame tra le due economie. Finora le potenze occidentali non sono mai riuscite a valicare la linea rossa: far interrompere le esportazioni di petrolio, né tantomeno a far espellere i lavoratori nordcoreani in terra cinese o a bloccare la porosità della frontiera.

Trump gioca facile in un terreno che però è di altri e in cui i dirigenti della seconda potenza mondiale si muovono con difficoltà e ambiguità. «I leader cinesi non hanno alcun amore per il regime di Kim Jong-un o le sue armi nucleari, ma amano ancora meno la prospettiva del crollo della Corea del Nord e l’unificazione della penisola coreana con Seul come capitale», ha riassunto in un dossier il presidente del Council for Foreign relations di Washington, Richard N. Haas. Per Pechino la fine del regime nordcoreano significherebbe la guerra in casa, masse di rifugiati da accogliere e gli oltre 30 mila militari americani schierati in Corea del Sud sempre più vicini.

CAMBIO DI ROTTA DEL PARTITO COMUNISTA. Ad aprile, quando già negli Usa David S. Cohen, ex numero due della Cia e sottosegretario al Tesoro per Barack Obama, suggeriva l’adozione di sanzioni secondarie, sul modello dell’Iran per intenderci, che andassero a colpire le istituzioni finanziarie che aiutano le imprese nordcoreane e quindi in sostanza le banche cinesi, una timida apertura c’era stata. Un editoriale del Global Times, il giornale tradotto in lingua inglese di proprietà del partito comunista cinese, ipotizzava la fine delle forniture di oro nero a Pyongyang. Poi però, dopo l’ultima risoluzione di agosto e dopo l’ennesimo test, il quotidiano ha cambiato rotta.

«RISCHIO DI UNO SCOPPIO DEL CONFLITTO». «Nonostante la rabbia dell’opinione pubblica cinese verso il nuovo test nucleare della Corea del Nord, dobbiamo evitare di ricorrere a mezzi estremi imponendo un completo embargo […] Se la Cina interrompe completamente la fornitura di petrolio alla Corea del Nord o addirittura chiude il confine, è incerto se possiamo impedire a Pyongyang di condurre ulteriori test nucleari e lanciare missili. In compenso è probabile che scoppi un conflitto tra i due Paesi». Per questo e anche per gli effetti collaterali non detti di un crollo della dittatura, la Cina continua a mantenere il cordone di salvezza di Pyongyang. E una frontiera dove persino i muri di filo spinato e cemento di cui parlano le agenzie di intelligence sono, secondo giornalisti e foto reporter, pieni di brecce.