General

Myanmar e Indonesia, Paesi divisi a causa dei Rohingya

6 Settembre 2017

Una molotov ‘saluta’ la leader birmana e Premio Nobel per la Pace, Aung San Suu Kyi

Il Ministro degli Esteri d’Indonesia ha ospitato il 4 settembre a Jakarta la responsabile degli Affari Esteri e Premier in pectore del Myanmar Aung San Suu Kyi per discutere sulle modalità di consegna di aiuti umanitari ai membri della comunità minoritaria di estrazione musulmana dei Rohingya, sull’onda di vibranti proteste che si sono sviluppate da lungo tempo in Indonesia, la Nazione di regione musulmana più popolosa al Mondo, corre obbligo di ricordare.

Numerose persone, infatti, si sono riunite in protesta davanti all’Ambasciata del Myanmar a Jakarta, chiedendo a viva voce di interrompere le relazioni diplomatiche col Myanmar nel caso in cui non vengano sospese del tutto le azioni violente condotte contro la minoranza musulmana dei Rohingya.

Le principali Agenzie umanitarie del Mondo stimano che circa centomila Rohingya abbiano abbandonato in fretta e furia il Myanmar per cercare riparo nel vicino Bangladesh, dopo la particolare e recente recrudescenza di violenze nello Stato Rakhine del Nord del Myanmar. La Ministra degli Esteri indonesiano, Retno Marsudi, ha affermato alla tv dalla città birmana di Yangon: «Stiamo discutendo nei dettagli la proposta dell’Indonesia relativa alle modalità con le quali possiamo offrire aiuti umanitari allo Stato del Rakhine». In calendario, anche un viaggio verso il Bangladesh per pressare le Autorità locali affinché porgano protezione ai rifugiati Rohingya che cerchino la salvezza dagli scontri in atto tra le forze militari birmane e alcune frange estremiste dei Rohingya che si sono via via militarizzate ed armate. Si vuole fermamente far notare che non si tratta di immigrazione clandestina in massa ma di ‘rifugiati’ che cercano di sfuggire a scontri armati e che quindi, meritino il trattamento dovuto ai rifugiati secondo le Convenzioni internazionali che regolamentano questo specifico settore.

I segni apertamente ostili nei confronti di Aung San Suu Kyi non sono certo mancati: una molotov è stata lanciata contro l’Ambasciata del Myanmar a Jakarta nella giornata di Domenica 3 Settembre scorso, causando persino un relativamente piccolo incendio. Le proteste giungono dopo numerose manifestazioni in Malaysia e la condanna quasi unanime dei leader di tutto il Mondo, il Presidente turco Tayyip Erdogan  si è persino spinto ad affermare che le violenze condotte dal Myanmar contro la minoranza musulmana dei Rohingya deve essere considerata un genocidio nei confronti dei musulmani in territorio birmano. Anche il Premio Nobel per la Pace (anch’essa) Malala Yousafzai si è rivolta alla ‘collega’ Aung San Suu Kyi col «cuore a pezzi» affinché prenda provvedimenti contro la campagna di violenze attuate contro i Rohingya, aspetto sul quale ha detto di aver più volte chiesto alla leader birmana di far qualcosa.

Ai Rohingya viene negata la cittadinanza in Myanmar e vengono considerati come immigrati irregolari, nonostante vi siano discussioni in atto sulle radici storiche ed etniche della minoranza Rohingya e che datano a svariati secoli addietro. Al contempo, il Bangladesh sta diventando sempre più ostile nei confronti dei Rohingya, dei quali più di 400.000 vivono nella Nazione tra le più povere del Sud Est Asia dopo aver abbandonato il Myanmar fin dai primi Anni ’90.

L’Indonesia è notoriamente la sede della più vasta popolazione musulmana al Mondo e ne avverte tutto il peso e la responsabilità, in questo senso. Ad esempio, nei confronti della minoranza musulmana dei Rohingya sottoposta a violenze e vessazioni in territorio birmano, da lungo tempo l‘Indonesia offre soccorso, sostegno ed aiuto anche nel senso dello sviluppo dello Stato Rakhine, oltre che per proteggere i diritti dei Rohingya, sebbene questi siano praticamente incastonati in una popolazione –la birmana- a netta maggioranza buddhista. Oggi in Indonesia vi sono molti attivisti, organizzazioni ed associazioni fortemente preoccupate sulle vicende della comunità musulmana minoritaria dei Rohingya in Myanmar.

A tutto questo le forze di sicurezza del Myanmar rispondono che i combattimenti sono parte di una legittima campagna militare condotta contro ‘terroristi’ responsabili di una serie di attacchi condotti contro locali sedi della Polizia birmana e dell’Esercito del Governo centrale sin dallo scorso Ottobre 2016. In verità, osservatori internazionali hanno potuto verificare la veridicità anche dei racconti dei Rohingya i quali spesso hanno descritto azioni di repressione condotti proditoriamente e senza preavviso dalle forze di sicurezza birmane contro villaggi Rohingya dati anche alle fiamme e che sono queste violenze la maggior causa delle fighe dei profughi verso il vicino Bangladesh, più che le azioni di ritorsione militare nei confronti delle frange estremiste Rohingya che si sono via via armate per combattere i soldati regolari birmani.

Ora si aggiunge il paradosso del Premio Nobel per la Pace del ’91, Aung San Suu Kyi, responsabile del Dicastero degli Affari Esteri e Premier de facto del Myanmar che, sopravvissuta alla prigionia ed alle ristrettezze imposte a lei come alla gran parte della popolazione birmana dalla lunga dittatura militare, oggi si ritrova a rappresentare il suo Paese all’estero e –con grande imbarazzo- a dover rispondere delle condotte violente assunte dal suo Governo contro la comunità minoritaria dei Rohingya in casa propria. La stessa famiglia di Aung San Suu Kyi ha addentellati nella storia e ampi rapporti nella sua genia con le divise ma questo non giustifica il suo silenzio su certe atrocità condotte dall’Esercito regolare birmano contro i Rohingya, testimoniate anche da osservatori ed associazioni umanitarie internazionali. Secondo alcuni osservatori esperti della scena politica e sociale birmana, il silenzio dell’entourage di Aung San Suu Kyi sarebbe giustificato da accordi non-ufficiali coi militari che hanno una presenza robusta nel Parlamento birmano, sotto varie spoglie.

Accordi di ‘non aggressione’ politica, connotati da una certa logica del ‘laissez faire’ da parte dei militari verso i musulmani minoritari in Myanmar. Ovviamente tutto questo fuori dai confini del Myanmar risulta tutt’altro che accettabile e non solo ha ricevuto numerosi richiami da parte dell’ONU ma sta praticamente cementando contro il Myanmar tutta la popolazione musulmana del Mondo intero, non solo delle vicine Nazioni quali Malaysia e Indonesia, quest’ultima oltretutto tra le più grandi potenze economiche mondiali e partner non eludibile sulla scena economica e commerciale dell’area Sud Est asiatica e internazionale.