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Migranti, quel rapporto che critica gli aiuti Ue ai Paesi africani

12 Settembre 2017

Il fondo europeo mescola interventi di sostegno alla crescita e operazioni di sicurezza per fermare i flussi migratori. E paga tutto con gli stessi soldi. Tra rischi, accuse di scarsa trasparenza e qualche paradosso.


Aiutarli a casa loro, dicono. E forse non sanno che lo stiamo già facendo. Il problema piuttosto è come, e con quali risultati. L’Unione europea, primo donatore di fondi per la cooperazione a livello globale, di fronte all’apice dei flussi migratori che hanno investito il continente ha deciso di creare un fondo fiduciario ad hoc per l’emergenza nei Paesi africani. L’Eu Emergency Trust Fund for Africa (Eutf) nato nel 2015 coinvolge 26 Paesi e al 28 agosto di quest’anno, secondo i dati della Commissione Europea, aveva già avviato 117 programmi, stanziando 1,931 miliardi di euro, di cui 1 miliardo destinato alla sola regione del Sahel, quella da cui passano le rotte delle migrazioni.

DAGLI STATI FINANZIAMENTI LIMITATI. Sul progetto la Commissione europea ha scommesso molto, tanto che a guidare la direzione cooperazione è arrivato dal 2016 l’ex capo di gabinetto di Federica Mogherini, nonché di Romano Prodi e Mario Monti, Stefano Manservisi. Un po’ meno ci hanno scommesso gli Stati membri, che hanno contribuito ai finanziamenti per meno del 5%, anche se nei singoli progetti sono coinvolte moltissime agenzie di sviluppo dei Paesi europei, compresa la Cassa depositi e prestiti italiana. Nelle regioni di provenienza dei migranti, si tratta di aiutare lo sviluppo economico e i rimpatri; nei Paesi di passaggio di sostenere lo smantellamento delle reti del traffico e il controllo delle frontiere, cercando di sviluppare anche attività economiche alternative. Questa impostazione, che mette insieme obiettivi differenti e finanzia con i fondi originariamente destinati a progetti di sviluppo di medio e lungo termine anche operazioni di sicurezza e di gestione dei confini, secondo la Ong Global Health Advocates ha portato a una trasformazione profonda delle politiche di sviluppo Ue in uno strumento politico.

L’11 settembre l’organizzazione ha pubblicato un report molto critico, basato su 45 interviste realizzate tra la capitale dell’Unione europea, le istituzioni Ue coinvolte, gli ambasciatori dei Paesi africani presenti a Bruxelles e le Ong attive sul campo in Niger e Senegal. Gli autori del rapporto mettono in discussione l’idea stessa di pensare agli aiuti allo sviluppo come una soluzione per frenare le migrazioni: «Nei Paesi a più basso reddito e con una ristretta classe media, lo sviluppo economico aumenta le migrazioni dando a più persone le capacità finanziarie di migrare. In altre parole, le persone più povere – coloro che dovrebbero essere i target primari della cooperazione allo sviluppo – non sono coloro che emigrano», si legge nel documento. Si tratta di un’argomentazione sostenuta da diversi studi accademici e anche dall’esperienza storica.

L’EQUIVOCO SU MIGRAZIONI E POVERTÀ. Chi ha studiato le migrazioni dall’Italia di metà Ottocento, per esempio, concorda sul fatto che le partenze si sono registrate soprattutto nelle province più ricche delle regioni più povere. Nel caso del Senegal, hanno spiegato gli operatori sul campo, il viaggio verso l’Europa costa come minimo 1 milione di franchi Cfa (i franchi delle colonie africane francesi, ancora moneta nazionale in 14 nazioni dell’Africa occidentale), cioè circa 1.500 euro. Di conseguenza, in molti villaggi in cui i cooperanti lavorano per contrastare la malnutrizione semplicemente la migrazione non c’è.

Nel 2013, inoltre, era la stessa Commissione europea ad affermare che subordinare la cooperazione alla priorità della politica migratoria sarebbe stato «in contraddizione con gli impegni sulla coerenza delle politiche per lo sviluppo». Ma il fondo di emergenza per l’Africa va nella direzione opposta, accusa l’Ong, e piega la programmazione alle esigenze della «narrazione politica interna». Nel caso dell’Eutf, si legge nel rapporto, «un fattore determinante nella selezione dei progetti era la loro capacità di dare velocemente risultati: un’agenzia di sviluppo del Senegal ha spiegato che parti del suo progetto sono state rigettate per il fatto che avrebbero fruttato solo quattro anni più tardi». La politicizzazione, spiega uno dei cooperanti intervistati, comporta risultati a breve termine che sono di per se stessi inconciliabili con gli obiettivi stessi del fondo, e cioè lavorare su fenomeni strutturali come lo sviluppo di una regione o i flussi migratori. Un altro operatore del Niger ha sintetizzato in maniera più brutale: «Il dialogo sullo sviluppo è stato preso in ostaggio da quello politico sulle migrazioni»

Il terzo aspetto sottolineato dal rapporto è banale, ma ancora più problematico. Per una buona cooperazione bisognerebbe che gli interessi delle due parti fossero allineati. Ma in questo caso i Paesi africani non hanno alcun interesse a bloccare le partenze. Anzi per i Paesi di origine i migranti sono una risorsa importante perché le loro rimesse sono una fonte strutturale per i bilanci nazionali. «Nel loro dialogo politico con l’Unione europea», afferma il report, «i funzionari senegalesi si sono lamentati che la Ue è essenzialmente focalizzata sul limitare i flussi migratori, trattando il nodo della migrazione legale come secondario».

I DANNI DELLA LOGICA DELL’EMERGENZA. In Niger, che invece è Paese di transito, il problema è un altro ancora. Il 48,9% della popolazione, secondo gli ultimi dati della Banca mondiale, vive in povertà e nella regione di Agavez, al confine con la Libia, attorno al passaggio dei migranti si è creata una vera e propria economia locale. L’attività supportata dall’Ue l’ha smantellata prima di mettere in campo i progetti alternativi. Progetti che pure sono stati programmati e che puntano alla creazione di 65 mila posti di lavoro tra inserimento lavorativo, sostegno alle imprese locali e alle filiere agricole, per un totale di 44,9 milioni di euro destinati alla creazione di nuove attività economiche. La logica dell’emergenza ha però «messo in ginocchio» la zona e i sindaci della regione hanno dichiarato di non essere stati coinvolti. Un fenomeno simile, secondo altre fonti di stampa, si sarebbe registrato anche in Tunisia.

Il rapporto spiega che le organizzazioni non governative consultate in Niger e Senegal, i due Paesi presi in esame, hanno definito il processo di selezione dei progetti «opaco» e «non basato su criteri di eleggibilità pubblici» e l’assunzione di partenza del fondo stesso «infondata». Del resto, i progetti sono tanti e molto diversi tra loro. In Senegal, stando ai documenti della Commissione europea, ci sono interventi di sostegno alla sicurezza alimentare nelle zone di malnutrizione e alla normalizzazione delle condizioni di vita nelle zone di conflitto, a fianco a un piano di rimpatri e all’aiuto nel creare un registro biometrico della popolazione.

TAGLI A SALUTE ED EDUCAZIONE. «La creazione di questo strumento», si legge nelle conclusioni, «è stata politicamente guidata: non risponde alle emergenza nei Paesi partner ma a quello che l’Ue vede come un’emergenza domestica». Così, afferma Global Health Advocates, l’Unione europea «erode la qualità della sua partnership con i Paesi africani sottintendendo che la cooperazione può essere rafforzata se ci sono i giusti incentivi, di fatto trasformandola in una transazione». Con i governi dei partner pronti a rispondere con la stessa logica. In Niger, per esempio, il Fondo monetario internazionale ha registrato come dal 2015, quando è stata approvata una legge ad hoc sulla lotta al traffico di migranti sotto pressione dei partner Ue, sono stati tagliati i fondi per salute ed educazione e dirottati sulle politiche di sicurezza.