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L’impatto dei migranti sull’economia: più costi o benefici?

20 Settembre 2017

Gli effetti reali di queste ondate sul mercato del lavoro: il costo economico effettivo

La portata che ha assunto la crisi migratoria è senza precedenti e lo rende uno dei temi che più preoccupa sotto vari aspetti, uno fra tanti, quello economico. Ne ha parlato anche il Ministro degli Esteri Angelino Alfano, all’evento ‘Rifugiati e migranti, l’approccio italiano tra la cooperazione allo sviluppo e la necessità di sicurezza’ a margine della 72esima Assemblea Generale Onu. «Nel 2020 potrebbe esserci un’ondata migratoria di 60 milioni di persone. L’Europa deve riesaminare seriamente le politiche di asilo e di immigrazione», ha avvertito. Le parole chiave che sintetizzano la strategia italiana sono: partnership tra Paesi d’origine, transito e destinazione, protezione dei rifugiati e dei migranti, prosperità congiunta e sostenibile di Europa ed Africa.

Nel 2015 l’ondata di rifugiati in Europa ha toccato il milione. Le ultime stime parlano di arrivi via mare pari a a 100.757 solo nel 2017, 362.753 nell’anno precedente. I Paesi europei, però, appaiono sempre meno ‘pronti’ e la politica è in frequente disaccordo sulla strategia da adottare. Risuonano sempre le stesse parole: sicurezza, identità nazionale, economia. Più della metà della popolazione nelle cinque Nazioni più colpite dall’emergenza sbarchi, crede che i rifugiati porteranno via lavoro e benefici sociali. Ungheresi, polacchi, greci, italiani e francesi la identificano come la loro maggiore preoccupazione per il futuro. Vanno controtendenza Svezia e Germania, le uniche ad avere almeno la metà della popolazione convinta che i migranti rendano la loro terra più forte grazie al loro lavoro ed al loro talento.

La paura connessa al gigantesco fenomeno deriva anche dal fatto che molti di coloro che arrivano in Europa vengono da Paesi a maggioranza musulmana, come Siria ed Iraq. La connessione al terrorismo jihadista è davvero breve. Questo fa sì che la percezione che la popolazione ha, è quella di essere in costante pericolo di attacchi terroristici. In Ungheria, Italia, Polonia e Grecia, più di 6 persone su 10 hanno dichiarato di avere una pessima opinione sui musumani che vivono nel loro Paese.

Ma lo sbarco di più di un milione di persone solo in Europa ha scatenato  anche la paura che una tale crisi possa determinare una perdita economica nelle Nazioni accoglienti. Ma quando gli esperti hanno studiato il fenomeno in passato hanno scoperto che, in realtà, l’impatto che questo ha avuto sul mercato è alquanto limitato. Ma c’è di più. L’influenza che la migrazione ha è qualcosa di positivo per l’economia stessa.

Vediamo, ad esempio, che negli Stati Uniti i rifugiati sono diventati contributori a tutti gli effetti dopo otto anni dal loro arrivo nel Paese. Secondo l’analisi del ‘National Bureau of Economic Research’, i rifugiati entrati negli USA prima dei 14 anni, si sono diplomati e sono entrati all’università nella medesima percentuale rispetto ai loro coetanei nativi americani. Qualche difficoltà in più per i più grandi, probabilmente attribuibile alle barriere linguistiche e alle carenze educative, ma ciò che gli analisti, comunque, sottolineano è che, dopo circa sei anni negli USA, tutti, anche quelli che hanno incontrato maggiori problemi occupazionali, lavorano di più dei nativi, anche se non guadagnano comunque quanto questi ultimi.

L’NBEC sottolinea anche che, attualmente, i rifugiati pagano più tasse di quanto ricevono in termini di benefici. A proposito di contribuzione, su 5 milioni di residenti stranieri in Europa, 3 milioni e 460 mila sono contribuenti: hanno dichiarato nel 2014 redditi imponibili per 45 miliardi e mezzo di euro e versato Irpef netta per 6.8 miliardi di euro; lo scrive Stefano Solari della Fondazione Leone Moressa. «Il reddito medio dei nati all’estero è comunque molto più basso di quello degli italiani, 13 mila euro contro 20 mila». «Bisogna pagarli in maniera decorosa perché altrimenti i contributi sociali necessari non si formano».

Secondo Joakim Ruist dell’Università di Gothenburg, il peso economico di una politica generosa nei confronti del tema migratorio, non è particolarmente significativo. Inoltre, il modo migliore per ridurre il modesto peso fiscale dei rifugiati è proprio quello in incorporarli il più velocemente possibile nel mercato del lavoro così che possano incominciare a contribuire alle finanze pubbliche. In termini puramente monetari, dare assistenza al momento del loro arrivo, si tradurrebbe in un investimento per il futuro del Paese ospitante. I Paesi che scoraggiano i richiedenti asilo a cercare lavoro, in altre parole, non fanno altro che aumentare il loro onere fiscale netto.

Gli effetti positivi sono tanti: i rifugiati non solo lavorano come impiegati, ma possono anche decidere di aprire la loro attività espandendo così l‘impatto positivo sull’economia e creando nuovi posti di lavoro. Un altro esempio cardine è quello della Turchia, dove, in uno studio recente, si è scoperto che i rifugiati siriani hanno investito circa 334 milioni di dollari nel circuito economico del Paee, contribuendo al suo sviluppo. Più di 10.000 hanno aperto le loro attività assumendo una media di 9.4 lavoratori.

Dai vari studi si percepisce, altresì, che quando nuovi arrivati entrano nella forza lavoro dello stato ospitante, i nativi vengono ottengono lavori più di livello e con una paga più alta. I lavoratori nati nel Paese stesso ottengono, cioè, vantaggi monetari pari al circa 3% in più rispetto al loro usuale guadagno. Come afferma Michael Clemens del Center for Global Development, «l’effetto economico dei migranti e dei rifugiati è una decisione presa dalle Nazioni ospitanti. Nel contesto dei grandi flussi migratori, la politica del mercato di lavoro è una forma di politica sui rifugiati». Ad esempio, la Svezia nel 2010 ha contato solo il 25% di somali rifugiati tra i 25 ed i 64 anni tra gli assunti, contro il 57% di somali che lavorano negli Stati Uniti.

Un mercato del lavoro che incoraggia la mobilità occupazionale e che permette ai migranti non specializzati di entrare come forza lavoro, può generare meccanismi efficaci per l’economia. In una delle ultime ricerche del Center of Economic Performance della London School of Economic and Political Science , sono stati considerati i flussi migratori dalla Algeria alla Francia nel 1962, da Cuba a Miami nel 1980, dall’ex Unione Sovietica ad Israele negli anni ’90 e dai Balcani all’Europa negli stessi anni. Solo in due casi, gli effetti non sono stati positivi o hanno rasentato pressoché lo zero: l’arrivo di 125.000 cubani a Miami e lo spostamento dall’URSS ad Israele. Una piccola crescita della disoccupazione dei nativi è stata registrata soprattutto a seguito del massiccio spostamento dall’algeria alla Francia e dai Balcani all’Europa. Ma Clemens sottolinea che, comunque, ognuna di queste ondate, comparabili a quelle delle recenti migrazioni in Europa, ha procurato una pari ondata di nuova forza lavoro nei Paesi ospitanti.

Ecco cosa potrebbe accadere oggi nel mondo del lavoro. Venendo ad oggi e al caso della Germania, possiamo dire che gli effetti sul mercato del lavoro appaiono ancora minimi. Quasi tutti i rifugiati ricevono assistenza pubblica quando arrivano e anche negli anni a seguire. Secondo la ricerca condotta da Markus Gehrsitz dell’Università di Strathclyde e da Martin Ungerer del Centre for European Economic Research, le stime suggeriscono che i migranti non hanno tolto dai loro posti di lavoro i nativi ma hanno faticato loro stessi per trovare un’occupazione che gli garantisse un guadagno.

Benjamin Powell, economista presso la Texas Tech University e curatore del libro ‘The Economics of Immigration’ smonta la politica anti-migratoria di Donald Trump e afferma che «aprire le frontiere avrebbe un impatto molto positivo sul Pil mondiale. Servono buone leggi per facilitare l’ingresso nel mercato del lavoro dei rifugiati». «Gli economisti stimano che i potenziali guadagni globali da un’immigrazione aperta sarebbero impressionanti. Si va dal 50% al 150% del Pil mondiale. Gran parte di questi guadagni andrebbero agli immigrati stessi, ma gli stessi economisti che sono contrari a flussi più ampi di immigrati ammettono che anche la popolazione nativa ne avrebbe un guadagno economico. La maggior parte degli studi non trova effetti negativi dell’immigrazione sui salari o sul numero dei posti di lavoro».

I Paesi differiscono in termini di assistenza ai rifugiati ed in quanto poi richiedono indietro in termini monetari; certo è che la cosa più importante, come sottolinea Clemens, è che l’effetto fiscale principale è relativo a quanto velocemente i rifugiati si integrano nel mercato del lavoro e incominciano a generare gettito fiscale. «Nessuno potrà comprendere le conseguenze economiche delle grandi migrazioni senza una ricerca economica attenta sull’effetto domino, qualcosa che è nascosto, invisibile e tardivo. Quando i politici non ne tengono conto, in realtà, sono sleali o se non altro, ipocriti».