General

Libano, il calvario dei profughi stretti nella morsa Hezbollah-Assad

16 Settembre 2017

Il Partito di Dio fa asse col governo di Beirut, mettendo nel mirino i campi rifugiati alla ricerca di jihadisti. Ma a pagare sono spesso i civili. Rimpatriati (e torturati) in Siria. La testimonianza di A. a Lettera43.it.

E’ notte nel campo profughi di Rekhanye, regione dell’Akkar, nel Libano del Nord. Le luci della Siria distano appena 10 chilometri, mentre nella tenda di tre metri quadrati otto persone sono riunite per ascoltare il racconto di A., profugo siriano: «Mi hanno prelevato in uno dei tanti posti di blocchi nella zona di Homs. Mi hanno accusato di terrorismo per via della mia residenza, in un’area a forte concentrazione di ribelli, e mi hanno caricato su un camion», dice. «Sono stato sbattuto insieme ad altre 50 persone in una cella da nove metri quadrati, costretto a dormire in piedi, a fare i bisogni sul posto e a stare in silenzio». Il racconto continua, mentre nell’angolo della tenda la moglie di suo cognato comincia a piangere sommessamente. «Ne ho visti a decine morire nella nostra stanza per via delle torture o delle condizioni igieniche, coprivamo i corpi con sacchi di tela o plastica per gettarli fuori al momento del controllo».

TORTURE QUOTIDIANE. «Le torture erano quotidiane», dice A. mostrando i segni di bruciatura di sigaretta sul proprio corpo. «Venivamo appesi al soffitto per ore e massacrati di botte, a me hanno fatto saltare tutti i denti. Alcune volte ci venivano applicati gli elettrodi alla zona inguinale ed eravamo costretti a subire lunghi elettroshock. Non c’era alcuna umanità, non so se per paura di eventuali ritorsioni, oppure per una questione di sadismo, ma il rapporto con i nostri aguzzini si limitava a vessazioni e torture». A. prende fiato, mentre la bambina di suo cognato dorme stretta alle coperte: «Nella camerata in cui eravamo rinchiusi bevevamo da un’unica brocca, naturalmente si trattava di acqua contaminata». La violenza era costante, colpiva il fisico, distruggeva la mente: «Le poche medicine che ci davano venivano gettate in mezzo allo stanza e i prigionieri erano costretti a combattere per accaparrarsi una dose di antidolorifico». Dopo otto mesi di torture in una delle prigioni informali di Homs, «ho avuto la fortuna di comparire davanti a un giudice speciale dell’antiterrorismo che ha emesso un mandato di scarcerazione». Il profugo siriano conserva ancora il foglio con il timbro ufficiale nel portafoglio, lo porta sempre con sé nel caso in cui debba nuovamente mostrarlo alle autorità.

Come A., altri profughi hanno subito violenze e torture. Quasi 100 mila persone sono scomparse in Siria dall’inizio del conflitto. E il bilancio rischia di aggravarsi. Il 28 agosto il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha comunicato davanti alle telecamere della televisione di partito Al Manar di aver raggiunto l’accordo per il trasferimento dei miliziani dell’Isis da Arsal, Libano, in Siria. La pressione dei soldati del Partito di Dio, coadiuvati dall’esercito, ha messo la parola fine all’ultima enclave jihadista in territorio libanese. Dopo sei anni di guerra civile siriana, la quasi totalità del confine è tornata in mano ai governi di Beirut e Damasco, aprendo un nuovo capitolo nella questione del ritorno dei rifugiati in patria. Secondo i dati diffusi dall’Unhcr, nei primi sei mesi del 2017 sono stati 450 mila i siriani che hanno fatto ritorno alla loro area di origine, ma di questi soltanto 30 mila provenivano da Stati esteri. Il grosso del movimento è quindi avvenuto all’interno della stessa Siria.

PERMESSI A PESO D’ORO. Il Libano è il secondo Paese per accoglienza di siriani. Mentre i dati Unhcr parlano di 1 milione di profughi nel Paese, la stima ufficiosa, e più realistica, si assesta intorno al milione e mezzo di persone. La loro condizione economica e sociale è estremamente critica. Il Libano non è uno degli Stati firmatari della convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951 e quindi non è tenuto a rispettare gli obblighi di “ospitalità”, ma è comunque un Paese vincolato alle leggi internazionali in merito alla condizione di profughi di guerra. Agli occhi della comunità internazionale, il Libano non ha il potere di trasferire in modo coercitivo i rifugiati nel Paese di provenienza qualora si mantenga lo stato di guerra e pericolo. Beirut, così, ha aggirato le regole internazionali applicando una politica di pressione. Le leggi di marzo 2017 sulla residenza hanno alzato in modo consistente i prezzi per richiedere un permesso di soggiorno. I 220 euro all’anno, o ogni sei mesi, a seconda del caso, sono una montagna da scalare per persone con una paga media giornaliera tra i sei e i sette euro.

RAID NEI CAMPI PROFUGHI. La nuova legislazione ha avuto riflessi anche sul già debole sistema scolastico introdotto per tutelare i bambini siriani. Secondo l’Unhcr, nel 2017 200 mila bambini non potranno più presentarsi nelle scuole libanesi per i corsi pomeridiani istituiti due anni fa. La pressione si palesa anche da parte di polizia ed esercito. Negli ultimi anni, diversi campi informali sono finiti nel mirino dei servizi di sicurezza. Beirut ha spesso motivato le operazioni come necessarie a neutralizzare le cellule jihadiste ancora presenti sul territorio. «Ma ora si è arrivati a un nuovo livello», spiega Alessandro, attivista di Operazione Colomba. «Il 30 giugno polizia ed esercito hanno compiuto alcune incursioni in campi profughi nel Nord». Il risultato di questi raid sono stati 500 arresti. «Dopo avere prelevato queste persone, l’esercito le ha accompagnate alla frontiera con i territori controllati da Assad, intimando loro di passare oltre: questo ha aumentato il senso di incertezza e paura anche in altre zone del Libano». Anche i posti di blocco non sono una novità in Libano: «Negli ultimi mesi abbiamo assistito a un notevole peggioramento, hanno aumentato i controlli e i check point spontanei», continua Alessandro.

Mohamed vive a Tel Abbas, piccolo villaggio dell’Akkar a cinque chilometri dalla Siria: «Vorrei tornare a casa, ma a che scopo? Non ho più una casa, non ho alcuna sicurezza che una volta tornato non venga arrestato e finisca nelle carceri del regime o a rinfoltire i ranghi dei miliziani jihadisti». Mohamed, 28 anni, racconta di aver partecipato alle prime manifestazioni del 2011 a Homs: «Ci credevamo, ma poi sono arrivate le armi ed è cambiato tutto. È finito tutto». L’Akkar, dopo la Bekka, è la regione del Libano a maggior concentrazione di rifugiati: «Qui tira una brutta aria, le persone non si sentono ancora pronte a tornare a casa e sanno che le loro città rimangono luoghi di persecuzione», continua Alessandro che ormai vive da tre anni a contatto con i rifugiati. «Le persone con cui ho parlato ad Arsal mi hanno più volte ribadito la loro volontà di non tornare, hanno paura».

LA CROCIATA DEL PATRIARCA. Abby Sewell, corrispondente del Los Angeles Times, è stata testimone del recente conflitto tra Isis e Hezbollah nel Nord del Paese levantino. «Non ci sono le condizioni di sicurezza per un ritorno, o meglio: persistono le condizioni per cui i rifugiati hanno scelto di lasciare il Paese», spiega la giornalista americana. «Qualcuno ha spontaneamente attraversato il confine, ma più per la tensione che si è creata con la polizia libanese che per una reale volontà di riabbracciare la propria terra». Tensione alimentata dal discorso politico in auge a Beirut: «I rifugiati strappano il pane quotidiano dalle bocche dei libanesi, gettandoli in uno stato di privazione e povertà», sono state le parole del Patriarca Maronita Rai durante la messa di Natale del 2016, accolte positivamente dalla quasi totalità delle forze politiche libanesi.

Chi più di tutti ha portato avanti la politica del “ritorno” è Hezbollah, la stessa forza che ha de facto liberato Arsal. Nasrallah, durante le sue dirette televisive, ha più volte incitato l’esecutivo a trovare una soluzione al problema. «Siamo pronti a servire il governo libanese per risolvere la questione rifugiati in modo patriottico e umanitario», ha detto il segretario del Partito di Dio il 12 febbraio. «I rifugiati che quotidianamente incontriamo guardano ancora con speranza a un ricollocamento in Occidente, ma è come se sapessero che prima o poi verranno costretti a tornare nonostante la situazione», conclude Alessandro. «Nel nostro Paese regna la violenza, non c’è lavoro, gli ospedali e le scuole sono state distrutte», dice Amir, arrivato nel 2013 in Libano. «Come faccio a dare un futuro ai miei figli?». La storia di Amir è simile a quella di Ahmed, adesso in Italia, a Torino, grazie ai corridoi umanitari e a un quartiere che si è impegnato a dare ospitalità alla sua famiglia. Nel novembre del 2016 era ancora Tel Abbas: «Non c’è futuro per noi in Siria, l’unica soluzione è l’Occidente».

LA DEADLINE DI MARZO. «Nei prossimi mesi assisteremo sia a un’incremento della pressione da parte della polizia sia a una diminuzione degli aiuti umanitari», spiega a Lettera43.it una fonte che chiede di restare anonima. «Ong importanti si stanno preparando a investire in Siria, disimpegnandosi dal Libano». La nuova politica “umanitaria”, se confermata, segue un andamento ormai consolidato in altri settori. Il Fondo monetario internazionale ha stimato che per la ricostruzione della Siria saranno necessari tra i 100 e i 200 miliardi di dollari. Il governo di Damasco nel corso della guerra civile non ha mai smesso di concludere accordi economici con partner strategici. Syria Deeply ha rilevato come Cina, India, Giappone, Repubblica Ceca e Bielorussia, oltre a Russia e Iran, si siano già portati avanti, continuando a stipulare accordi con Damasco in importanti ambiti come energia, fornitura d’acqua, infrastrutture e farmaceutica. «I rumor interni alle Ong prevedono anche una deadline di ritorno per i profughi, marzo 2018», aggiunge la fonte anonima. «Secondo loro per quella data la spartizione del Paese sarà completata e si potrà procedere a uno spostamento dei rifugiati».