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La casa in cui si combatte la violenza sulle donne

26 Settembre 2017

Jasmine ha ventidue anni e due vite. Ha dipinto le pareti della sua stanza di verde e di rosso per ricordarlo: in basso ha disegnato con il pennello una striscia rosso scuro come il suo vestito da sposa. In alto ha dipinto una striscia verde come il giardino della casa dove abita nella sua nuova vita, quella che è cominciata quando è scappata dall’appartamento dove era stata rinchiusa dal marito in una città dell’Italia del nord. Jasmine non è il suo vero nome, ma per ragioni di sicurezza non può rivelare la sua identità.

Fa fatica a ricordare i particolari del primo e del secondo tempo della sua storia, ma non dimentica le date: si è sposata due giorni prima del suo diciottesimo compleanno nel 2013. Tre anni dopo – nel 2016 – è entrata per la prima volta a Lucha y siesta, nella periferia est di Roma, un centro antiviolenza e una casa delle donne fuori dai canoni, “un progetto di semiautonomia”, come lo definiscono le operatrici che lo hanno fondato nel 2008. Nel centro sono ospitate una decina di donne italiane e straniere che hanno subìto violenze psicologiche, fisiche o economiche soprattutto dai loro familiari, in particolare dai mariti o dai compagni.

Jasmine non conosceva una parola d’italiano quando ha varcato il cancello verde che separa il giardino della casa dalla strada. Poco più di un anno dopo la sua vita è cambiata radicalmente: ha superato la confusione in cui era piombata dopo la fuga da casa, ha imparato l’italiano, ha frequentato un corso professionale e ora lavora in una piccola azienda che prepara sushi per supermercati e ristoranti. Vuole diventare una cuoca: “Mi piace cucinare, ma non sono quasi mai soddisfatta di quello che cucinano gli altri”.

Dice di non aver più paura di niente, anche se a volte pensa ancora all’uomo che le ha spezzato la vita in due. Sfoglia le foto del matrimonio sullo schermo del telefono: nelle immagini ha le mani dipinte di henné come nella tradizione del suo paese, il volto rotondo incorniciato da gioielli che sembrano ricami. “Ho perso quindici chili in quei tre anni, così tanti che quasi non mi riconosco nelle foto di prima”, confessa.

Senza amore
La sera, a volte, quando nella casa scende il silenzio, i pensieri esplodono e corrono al passato. “Penso alle cose belle che mi diceva prima di sposarci, al giorno del matrimonio”, racconta. “Non riuscirò mai più a innamorarmi”. Le labbra s’inarcano in una smorfia amara. Dopo il matrimonio Jasmine ha scoperto che il marito aveva da tempo una relazione con un’altra donna e non aveva alcuna intenzione di rinunciare alla sua doppia vita.

“Ho passato giornate intere a piangere sul letto, mi sentivo presa in giro, ho minacciato di tornare a casa dei miei genitori”, racconta. Lui ha cominciato a insultarla, a umiliarla, a picchiarla, a chiuderla nell’appartamento. “Non sapevo come scappare, non conoscevo nessuno nella città dove vivevo e non parlavo italiano”, dice. A volte, quando tornava a casa dopo che era stato dall’altra donna, pretendeva di fare sesso con Jasmine e la violentava. “Sei ancora mia moglie, diceva”.

Un giorno Jasmine ha chiamato i carabinieri. La prima volta che gli agenti sono arrivati a casa, il marito li ha convinti che la ragazza si era sbagliata, perché non era successo niente di grave, solo un litigio tra marito e moglie. Jasmine li ha dovuti chiamare molte volte prima che si rendessero conto che la ragazza era in grave difficoltà e che non poteva comunicare in italiano. Così l’hanno portata in caserma, l’hanno separata dai familiari e hanno trovato un agente che potesse parlare con lei in inglese.

Dopo la denuncia, il marito di Jasmine è stato arrestato e la donna è scappata a Roma grazie a un amico di famiglia, avvisato dai genitori. “Non conoscevo nessuno, tutto mi sembrava strano. I posti, le persone”. A Roma, Jasmine ha trovato subito un lavoro, anche se in nero, mal pagato e precario, ma la cosa più difficile è stata trovare una casa.

“Lavoravo come guida turistica perché parlo bene l’inglese, ma non riuscivo a trovare una stanza. Per una donna sola non è facile”, racconta. È stata un’operatrice sociale del Telefono rosa a darle il numero della casa Lucha y siesta.

L’appuntamento è stato fissato davanti alla vetrina di un grande negozio di vestiti sulla Tuscolana. Jasmine ancora ricorda i palazzoni tutt’intorno, l’odore forte di smog della città, le macchine strombazzanti sulla strada e quella sensazione di smarrimento. Era arrivata a Roma da poco: tutte le strade le sembravano uguali e tutte ugualmente irriconoscibili. All’appuntamento ha incontrato Angela, una delle operatrici del centro, che le ha stretto la mano e l’ha portata fino al cancello verde di Lucha y siesta, senza mai lasciarla.

Una casa per le donne
“Quando mi hai visto la prima volta te lo immaginavi che avevo sofferto così tanto?”, chiede Jasmine mentre gli occhi le brillano. Racconta che all’inizio non aveva molta voglia di parlare con le altre, aveva paura di sbagliare la pronuncia delle parole, non conosceva le altre ospiti della casa e non riusciva a fidarsi. È stato il rapporto continuo con le operatrici e con le altre donne che l’ha lentamente spinta ad aprirsi.

“Michela mi diceva sempre che dovevo iscrivermi a scuola d’italiano”, racconta davanti a un piatto di spaghetti con il pomodoro che ha preparato nella grande cucina di legno scuro al piano terra della casa di Lucha y siesta. Dalla finestra che dà sul giardino entra un po’ di luce e qualche schiamazzo dei bambini che stanno giocando. Jasmine ora lavora, non deve più chiedere ai genitori i soldi per vivere, ha fatto amicizia con i colleghi, ha anche provato a frequentare un ragazzo. Ma quando ha qualche dubbio continua a chiamare Michela, una delle fondatrici del centro. “Per me le ragazze di Lucha sono una famiglia”, dice con un filo di orgoglio.

“Quando le donne si sentono soddisfatte di quello che fanno, tanto da mettere in campo di nuovo i loro desideri, le loro energie, vuol dire che il percorso di autonomia è compiuto. Il desiderio di studiare, per esempio, è uno dei segnali che si comincia davvero a stare bene”, dice Rachele, psicologa e operatrice nello sportello di ascolto e orientamento, attivo una volta alla settimana nel centro.

Quando nel 2008 il gruppo di attiviste ha occupato l’ex sottostazione Stefer “Cecafumo”, come la chiamano i vecchi del quartiere, non pensava che la struttura in quasi dieci anni sarebbe cresciuta tanto, arrivando a ospitare nel corso del tempo un centinaio di donne (settecento sono passate dallo sportello di ascolto) e diventando un punto di riferimento per i servizi sociali del territorio. Costruito alla fine degli anni venti come stazione della ferrovia che collegava Roma ai Castelli romani, l’edificio fu prima trasformato in ufficio e infine abbandonato negli anni novanta.

“Quando siamo entrate qui, volevamo denunciare soprattutto la mancanza di alloggi per le persone che hanno questo tipo di difficoltà e offrire una residenza che non avesse una scadenza”, spiega Michela. Nelle quattro case rifugio di Roma, infatti, le donne possono essere ospitate per un periodo massimo di sei mesi.

Secondo le operatrici e gli esperti, tuttavia, per una donna che ha subìto violenza c’è bisogno di almeno un anno per rimettersi in sesto e ricostruire un percorso di autonomia, soprattutto se ci sono dei figli. A quasi dieci anni di distanza dalla nascita del progetto Lucha y siesta, tuttavia, la mancanza di strutture per le donne che vogliono uscire da una situazione di violenza è ancora un problema.

“Registriamo dieci casi al mese di cui uno grave: donne con le valigie che scappano da situazioni di violenza”, racconta la psicologa. Lo sportello di ascolto è il cuore del centro e da lì arrivano la maggior parte delle donne in cerca d’aiuto, ma succede sempre più spesso che siano le autorità – i servizi sociali, gli ospedali, la polizia – a segnalare i casi di violenza.

Una su tre
“L’Istat ci dice che nel corso della sua vita una donna su tre ha subìto violenza”, continua Rachele, la psicologa di Lucha y siesta. Eppure i fondi destinati alla prevenzione, alla formazione degli operatori e ai centri antiviolenza sono ancora molto al di sotto di quelli previsti dalla convenzione di Istanbul sulla violenza di genere.

“Dall’inizio dell’anno sono già 60 le donne che sono state uccise dai loro mariti o compagni”, afferma Simona, un’altra operatrice della casa Lucha y siesta. “Ma in Italia non esiste un osservatorio sulla violenza di genere che sia in grado di aggregare tutti i dati per comporre una fotografia accurata del fenomeno, ampiamente sottostimato”. L’assenza di questo strumento, secondo le attiviste, comporta l’adozione di politiche orientate all’emergenza che finiscono per essere poco efficaci.

Un piano straordinario antiviolenza è stato approvato nel novembre del 2013 all’interno del pacchetto sicurezza, ma il governo non riesce a varare un piano nazionale ordinario della durata di tre anni. E a Roma, per esempio, sono sempre di meno le strutture di ascolto e sostegno per le donne.

Nel 2015 la regione Lazio ha stanziato 1,39 milioni di euro per l’apertura di otto nuovi centri antiviolenza e tre case rifugio in tutto il territorio regionale. Ma nel frattempo un centro è stato chiuso e il bando aperto a novembre del 2016 non è ancora operativo.

Al momento in città sono attivi quattro centri antiviolenza e due case rifugio per un totale di circa 30 posti rispetto agli almeno quattrocento necessari. La convenzione del Consiglio d’Europa sulla violenza contro le donne, ratificata dall’Italia nel 2013, prevede che sia disponibile un posto in un centro antiviolenza ogni diecimila abitanti. In Italia ne servirebbero 5.700, ma ce ne sono cinquecento.

“I fondi stanziati dalla regione sono insufficienti”, spiega Corto. “Per ogni nuovo centro sono previsti 66mila euro all’anno (meno di cinquemila euro al mese), ma se si calcola che uno sportello dovrebbe stare aperto 36 ore a settimana con un servizio di reperibilità sette giorni su sette, per ventiquattro ore al giorno, è evidente che questi fondi non bastano a coprire nemmeno le spese del personale”. Secondo le operatrici, a Roma il problema della casa per le donne che hanno subìto violenza è ancora lontano dalla soluzione.

“Ci capita continuamente d’incontrare donne che finiscono a dormire per strada con i loro figli. L’ultima volta è successo qualche giorno fa: una donna con un bambino di cinque mesi ha bussato alla nostra porta, insieme alla vicina di casa che gli aveva parlato del centro. Noi non avevamo posto, e la sala operativa sociale del comune di Roma non riusciva a trovare una soluzione”, conclude Corto.

Non solo stupri
La violenza contro le donne è un fenomeno sottostimato e ordinario, anche secondo le operatrici che fanno parte della piattaforma femminista Non una di meno. “Nella nostra esperienza abbiamo potuto osservare quello che tutte le statistiche confermano: la violenza colpisce donne di ogni età, nazionalità e classe sociale”, afferma Damiani.

Per le operatrici di Lucha y siesta nelle ultime settimane la stampa italiana ha dato molto risalto alle notizie di stupri compiuti da sconosciuti, esasperando la morbosità e il sensazionalismo e riproducendo di fatto alcuni stereotipi (la donna che provoca la violenza, l’uomo innamorato preso da un raptus di gelosia, l’immigrato che non ha rispetto per le donne), senza individuare le radici sociali e culturali del fenomeno.

“Alcuni giornali hanno descritto i particolari di uno stupro, massacrando il corpo della persona stuprata e contribuendo a diffondere l’idea della donna oggetto, l’ideologia stessa della sopraffazione che è alla base della violenza sessuale”, denuncia Damiani.

Dobbiamo scardinare l’idea che la violenza sia un fatto episodico, è strutturale
“Esistono molte forme di violenza quotidiana, in molti ambiti. Ma ci si concentra spesso su quella fisica che è la più facile da riconoscere, e in particolare quella sessuale compiuta da uno sconosciuto, mentre sappiamo che l’80 per cento delle violenze avvengono dentro le mura domestiche o in ambito lavorativo, e sono compiute dai mariti, dai padri, dai fratelli, dai datori di lavoro”, spiega la psicologa. “Questo tipo di violenza diventa notizia solo quando l’epilogo è tragico e la donna viene uccisa”, aggiunge Simona.

“In Italia dobbiamo scardinare l’idea che la violenza sia un fatto episodico: è strutturale”, ribadisce Rachele. “Per questo la risposta securitaria, proposta in questi giorni da alcuni giornali e politici è pericolosa: non si può pensare di combattere la violenza mettendo più telecamere per strada o costringendo le donne a stare chiuse in casa”.

Le diverse forme di violenza sono caratterizzate da elementi simili: la disparità nella relazione, l’umiliazione della donna, la sua sottomissione, le limitazioni alla sua libertà, la svalorizzazione e il controllo. Giorgia Serughetti e Cecilia D’Elia nel loro libro Libere tutte descrivono le conseguenze più diffuse di queste forme di violenza e il meccanismo che le provoca, che va ricercato nelle radici della nostra cultura.

A seguito di ripetuti abusi da parte del partner più della metà delle vittime soffre di perdita di fiducia e autostima. Tra le conseguenze sono molto frequenti anche ansia, fobie e attacchi di panico, disperazione e sensazione d’impotenza, disturbi del sonno e dell’alimentazione, depressione e difficoltà a concentrarsi, perdita della memoria, autolesionismo o idee di suicidio”.

Come scrive Lea Melandri nel saggio Amore e violenza: “Anziché limitarsi a deprecare la violenza, invocando pene più severe per gli aggressori, più tutela per le vittime, forse sarebbe più sensato gettare uno sguardo là dove non vorremmo vederla comparire, in quelle zone della vita personale che hanno a che fare con gli affetti più intimi, con tutto ciò che ci è più famigliare, ma non per questo più conosciuto”.

Per Melandri, “la violenza non è amore, ma l’amore c’entra. Tra i due fenomeni ci sono parentele insospettabili e perverse. Nell’ideale dell’amore romantico, fondato su una presunta disuguaglianza e complementarità tra i generi si cela una radice insospettabile della dominazione maschile”.

“Anche moltissime donne di classe elevata si rivolgono a Lucha y siesta perché si trovano in balìa di uomini potenti – avvocati, medici, giudici, stimati professionisti – che le sottopongono a violenze psicologiche, fisiche o economiche e hanno bisogno di aiuto per uscirne”, aggiunge Michela.

“Ma l’immagine che i mezzi d’informazione ci restituiscono del cosiddetto maltrattante”, continua Simona, “è quella di un mostro, di una persona malata che viene presa da un raptus di gelosia. Invece i maltrattanti, gli uomini che picchiano e umiliano le donne, sono persone comuni”.

Per le operatrici di Lucha y siesta un piano antiviolenza serio dovrebbe prevedere la creazione di un osservatorio di analisi sulla violenza di genere, progetti di educazione nelle scuole che mettano in discussione gli stereotipi di genere, la formazione per gli operatori istituzionali spesso incapaci di riconoscere i casi di questo tipo, misure economiche in sostegno della parità di genere, leggi che permettano, per esempio, a una donna che ha subìto uno stupro di prendere un’aspettativa dal lavoro, progetti culturali diffusi che educhino alla sessualità e all’affettività i ragazzi e le ragazze.

Intanto la casa delle donne di via Tuscolana finora non ha ricevuto nessun finanziamento pubblico e nessuna legittimazione ufficiale per il lavoro che svolge, tanto che spesso fatica ad affrontare le spese ordinarie. Nel 2014, quando l’ex stazione dell’Atac è stata messa all’asta dall’azienda municipale dei trasporti, il gruppo che gestisce la casa ha partecipato al bando con una cifra simbolica.

Le operatrici hanno stimato, infatti, che per le attività e i servizi erogati in sei anni – dall’accoglienza alle donne, alla consulenza legale, dalla manutenzione della casa all’orientamento al lavoro – hanno speso 2.654.088 euro. Una cifra che è stata calcolata stimando tutto il lavoro volontario fatto dagli attivisti e dagli operatori e le somme raccolte con le attività di autofinanziamento, una cifra che di fatto le istituzioni hanno risparmiato. Eppure la casa Lucha y siesta, come molte altre realtà simili a Roma e in Italia, non ha ottenuto nessuna regolarizzazione (è uno stabile occupato) e rischia di chiudere.

Un problema di tutti
Jasmine è spaventata all’idea di lasciare la casa e andare a vivere da sola, ora che il suo percorso nella struttura è concluso. “Non sono solo le operatrici ad accogliere le donne che arrivano, sono anche le altre ospiti della casa a costruire questo progetto di accoglienza”, spiega Rachele.

Dopo un lungo lavoro di ristrutturazione, completamente autofinanziato, la casa è diventata un piccolo universo: dodici stanze, due di emergenza per accogliere chi bussa alla porta a qualsiasi ora del giorno e della notte. Nella residenza convivono diverse attività: c’è una biblioteca, una stanza dove si tengono corsi di yoga e ginnastica aperti al quartiere, una sala giochi per i bambini autogestita dalle famiglie della zona, una sartoria artigianale, un centro di consulenza psicologica.

Infine ci sono molte attività che sono aperte al quartiere: giochi nel parco per i bambini, cineforum. “Nel 2009”, conclude Michela, “le autorità ci hanno proposto una soluzione abitativa fuori Roma per le persone che ospitavamo in quel momento. Ma abbiamo rifiutato. Perché pensiamo che i centri antiviolenza e le case delle donne debbano stare all’interno della città, dentro i quartieri. Nasconderli significa rimuovere un problema che riguarda tutti”.