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Crisi demografica: è tutta colpa della povertà?

14 Settembre 2017

Essere poveri vuol dire avere molte meno opzioni realistiche, molti meno futuri possibili

Nel primo trimestre del 2017, in Italia, le morti sono aumentate del 15 per cento, i nati restano in calo (-2,6%) e il nostro deficit demografico è ora di 346mila unità. Se la situazione non dovesse cambiare, a fine anno ci troveremmo con oltre 700mila morti, come se le nostre città fossero bombardate. Gli Stati Uniti versano in una situazione analoga, con l’attesa di vita in calo ormai da un anno, senza che si vedano segnali di ripresa. Nel Regno Unito l’aspettativa di vita non sale quasi più. Nella Grecia sottoposta a regime di estrema austerità questo tasso è crollato. Le cose vanno poco meglio in Russia, almeno dai tempi delle sanzioni e del contro-embargo.

È difficile credere che un fenomeno così impressionante e repentino possa essere attribuito ad un unico fattore; tanto più che gli stili di vita dei popoli mediterranei, slavi e anglo-americani sono marcatamente diversi. Ci accomunano però due dimensioni: sanità e vulnerabilità a condizioni esterne. In tutti questi Paesi la sanità è stato il principale bersaglio delle politiche di austerità neoliberista, salvo la Russia che, però, come detto, si trova in una situazione geoeconomica particolare e temporanea. (austerità involontaria).

Purtroppo molti commentatori, ignorando gli 8.4 milioni di italiani che vivono in circostanze di povertà assoluta o relativa, le considerazioni della ‘Royal Society of Medicine‘, che chiamano in causa le politiche restrittive dei recenti governi conservatori (‘New analysis links 30,000 excess deaths in 2015 to cuts in health and social care’, 17 February 2017) e l’osservazione che questo fenomeno si sta manifestando proprio quando il divario nelle aspettative di vita tra ricchi e poveri nell’Inghilterra nel Galles sta crescendo per la prima volta in quasi 150 anni (la crisi demografica inglese è effettivamente incominciata nel 2010 con l’arrivo dei conservatori al potere), hanno puntato il dito sull’indolenza e ignoranza di una parte della popolazione, come se questa presunta variabile fosse entrata in gioco solo negli anni più recenti.

In realtà, si è calcolato che uno status socio–economico inferiore possa arrivare a ridurre l’attesa di vita di ben 2 anni e un mese. Peggio fanno solo fumatori, diabetici o chi conduce uno stile di vita sedentario. Chi è obeso o soffre di alta pressione se la cava molto meglio, in prospettiva. Essere poveri, specialmente nelle nazioni anglofone, significa non potersi permettere cose come il cibo biologico, un’assicurazione adeguata, una buona istruzione.

Non è semplicemente che i benestanti mangiano meno e meglio: è il loro intero stile di vita che è diverso. Nei quartieri poveri si vendono prodotti scadenti, l’ambiente è deturpato, vi è una maggiore esposizione ai crimini violenti, stress più marcato e una generale sensazione di insicurezza e di scarse prospettive di riscatto. Si devono prendere più rischi e quando le cose vanno male le conseguenze sono più gravi. Chi non è povero può andare in palestra, fare yoga o dedicarsi alla meditazione, non finisce per stare in poltrona davanti alla tv per sfuggire a una realtà degradante, non resta sveglio la notte a pensare a come arrivare a fine mese.

L’aspetto più allarmante è che anche quando i bambini abbandonano uno stato di miseria l’impatto sulla loro salute continua a farsi sentire negli anni susseguenti, come una maledizione. Essere poveri significa avere molte meno opzioni realistiche, molti meno futuri possibili e molte più chance che l’avvenire prenda una brutta piega.

Non è certo un caso che le Nazioni che si sforzano di rendere meno diseguali le proprie società mostrano indicatori sensibilmente migliori di salute, aspettativa di vita, educazione, felicità, reddito, criminalità e devianza, assistenza sanitaria, qualità della vita, eccetera. Ma se la miseria è la causa necessaria ma non sufficiente di questo allarmante stato di cose, quali altri fattori sono intervenuti per aggravare il contesto nei paesi presi in esame? È ipotizzabile che l’impatto del cambiamento climatico sia stato sottovalutato. Esso si è manifestato tramite l’alterazione delle correnti a getto e quindi il moltiplicarsi di ondate di calore in estate e di gelo in inverno («Il freddo uccide 20 volte più del caldo», Lancet), con il persistere di condizioni avverse per giorni e giorni e sensibili escursioni termiche, in una situazione in cui tanti anziani non possono permettersi di pagare bollette più salate o di acquistare climatizzatori. Attendiamo che gli esperti indaghino meglio questa possibilità.