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Congo: la verità nascosta del massacro dei rifugiati burundesi a Kamanyola

21 Settembre 2017

Le autorità congolesi hanno dato 4 versioni diverse e discordanti: parlano 6 testimoni diretti che hanno rischiato di essere uccisi

Venerdì 15 settembre 2017 quattordici  rifugiati burundesi ospiti del centro di accoglienza di Kamanyola, provincia del Sud Kivu est del Congo, al confine con il Burundi, vengono uccisi dalla Polizia. I feriti sono oltre 100. La prima versione ufficiale fornita dal Governo congolese è che la Polizia ha risposto ad una manifestazione (definita violenta) dei rifugiati burundesi presso la cittadina di Kamanyola. I rifugiati protestavano contro il rimpatrio forzato di 4 loro compagni in Burundi. La manifestazione non autorizzata ha preso una piega violenta e la Polizia ha perso il controllo, sparando sui rifugiati e provocando una carneficina. Nei tre successivi giorni i dispacci delle agenzie stampa aggiornano il numero delle vittime che mercoledì 20 settembre sono salite a 40, mentre i feriti sarebbero 117.

L’Inviato Speciale ONU per il Congo, Maman Sidikou ha condannato senza riserve le violenze di Kamanyola, dove il campo di accoglienza ospita  2000 rifugiati burundesi, presentando le condoglianze alle famiglie delle vittime. Sidikou dichiara ai media di essere «profondamente scioccato» dalla violenza della Polizia che ha aperto il fuoco «Indiscriminatamente» sui rifugiati che protestavano contro l’espulsione dal Congo di quattro di loro. Il contingente dei Caschi Blu della MONUSCO ha inviato degli effettivi a Kamanyola per evacuare i feriti e determinare con precisione le circostanze del massacro in collaborazione con le autorità congolesi.

Il Governo di Kinshasa sotto pressione causa la reazione di sdegno e di condanna dell’opinione pubblica africana e internazionale non perde tempo per proporre la sua versione dei fatti, nel tentativo di imporre la teoria della autodifesa. E’ proprio la difesa del Governo che fa sorgere la prima di una incredibile serie di contraddizioni nella ricostruzione ufficiale del massacro. Nessun portavoce della Polizia congolese fa dichiarazioni. Sono alti ufficiali dell’Esercito congolese FARDC a parlare. Secondo il Luogotenente John Mwanamboka, a sparare contro i rifugiati burundesi sono stati dei soldati congolesi e non dei poliziotti. I soldati avrebbero sparato quando la manifestanti burundesi hanno iniziato a lanciare delle pietre.

In meno di 24 ore le autorità congolesi sfornano altre due versioni. In ogni versione ufficiale i manifestanti appaiono come pericolosi elementi nel tentativo di giustificare il massacro compiuto dalle Forze dell’Ordine. Tutte le versioni parlano di soldati e non di poliziotti congoles,i come inizialmente affermato dalle stesse autorità.

Una seconda versione dell’Esercito afferma che i rifugiati che partecipavano alla manifestazione di protesta erano oltre trecento. Alcuni di loro avrebbero strappato dalle mani di un soldato un fucile mitragliatore e sparato verso le forze di difesa uccidendo un soldato. A quel punto il reparto della FARDC sotto attacco ha risposto al fuoco per difendersi. Questa seconda versione viene avvalorata dal Ministro dello Sviluppo Rurale, Justin Bitakwira. Come abbia fatto ad avvalorare la seconda versione fornita dalle FARDC il ministro Bitakwira che si trovava al momento dell’eccidio nella capitale, Kinshasa, a circa 6000 km di distanza rimane un mistero. Come rimane un mistero il mancato intervento nei primi tre giorni successivi al massacro del Ministro degli Interni, autorità più appropriata ad intervenire rispetto ad un Ministro che si occupa di Sviluppo Rurale.

Una terza versione viene offerta dal Governatore ad interim della Provincia del Sud Kivu, Ladislas Muganza Wa Kandwa. I militari congolesi sarebbero intervenuti venerdì 15 settembre a Kamanyola per ristabilire l’ordine perturbato dalla manifestazione dei rifugiati burundesi. Il Governatore A.I. Muganza deplora l’episodio di sangue ma afferma che i soldati hanno agito per legittima difesa. «Cosa è realmente successo a Kamanyola è la perdita di controllo e della ragione da parte dei rifugiati burundesi che hanno protestato contro l’arresto e la deportazione di quattro dei loro compagni che avevano compiuto delle azioni incompatibili con la convenzione internazionale dei rifugiati. I militari e i poliziotti presenti si sono ritrovati in una situazione difficile e hanno reagito per legittima difesa», dichiara Muganza alla radio ONU, ‘Radio Okapi’. La versione del Governatore Ad Interim crea maggior confusione. Ricompaiono i poliziotti, scomparsi nelle due dichiarazioni ufficiali redatte dall’Esercito.

La quarta versione porta la firma del portavoce del Governo congolese, Lambert Mende, ed è stata redatta assieme al Ministero degli Interni che finalmente interviene a distanza di 4 giorni dal massacro. Questa versione afferma che l’Esercito avrebbe ucciso non dei rifugiati ma dei ribelli burundesi armati. Questi ribelli hanno ingaggiato uno scontro a Kamanyola con i soldati congolesi della FARDC. Lo scontro a fuoco si conclude con la cattura di un ribelle burundese. I suoi compagni attaccano nuovamente le unità della FARDC per liberarlo e durante il secondo attacco uccidono un soldato congolese. Durante l’attacco si sono registrate altre vittime tra i ribelli burundesi.

Nella versione di Mende scopare la manifestazione indetta a Kamanyola e i 4 rifugiati arrestati il 12 settembre mentre i civili profughi dal Burundi diventano pericolosi ribelli armati.

Le quattro versioni ufficiali diramate dalle autorità congolesi nei successivi 4 giorni dall’eccidio si contraddicono tra di loro. In questa cacofonia di versioni martedì 19 settembre il Governo afferma che la vittima tra le forze di difesa non sia più un militare ma un poliziotto. La dichiarazione verrà nuovamente cambiata il 20 settembre e la vittima ritorna ad essere un soldato.

Altrettanto incomprensibile l’atteggiamento adottato dal Contingente dei Caschi Blu della MONUSCO e delle agenzie ONU in difesa dei rifugiati. Le agenzie umanitarie ONU stranamente non pubblicano alcuna dichiarazione sul massacro. OCHA (ente dell’ONU incaricato del coordinamento degli aiuti umanitari a favore dei rifugiati) alla data del 19 settembre non menziona il massacro di Kamanyola. Il suo ultimo bollettino, pubblicato sul suo sito di informazione ‘Reliefweb’ risale al 11 settembre 2017 e parla della situazione umanitaria tra il 04 e il 08 settembre. UNHCR, l’agenzia per i rifugiati non ha pubblicato alcun bollettino al riguardo mentre l’ultimo bollettino sul Congo pubblicato sul sito di informazione ONU ‘Humanitarian Response’ è datato 13 settembre e offre notizie della lontana provincia del Alto Katanga.

Analizzando le dichiarazioni dei Caschi Blu della MONUSCO si scopre che il contingente di pace ha inviato tre elicotteri per soccorrere le vittime burundesi di Kamanyola domenica 17 settembre, tre giorni dopo la tragedia. I feriti sono stati trasportati presso l’Ospedale Generale di Bukavu, capoluogo della provincia del Sud Kivu colpito venerdì 15 settembre da un terremoto di magnitudine 4.2. Come mai la MONUSCO invia i soccorsi tre giorni dopo il massacro? Dove sono stati ricoverati i rifugiati burundesi feriti il 15 settembre, visto che a Kamanyola esiste solo un dispensario sanitario con un solo posto letto e spesso privo di medicinali? Il ritardo dei soccorsi non si spiega poiché a distanza di soli 10km da Kamanyola c’é una caserma di Caschi Blu pakistani. Perché questi soldati ONU non erano presenti alla manifestazione di venerdì? Perché non hanno prestato immediatamente soccorso ai feriti? Il portavoce della MONUSCO, Florence Marchal, non fornisce alcuna spiegazione, anzi nasconde l’informazione che a pochi km dal massacro vi sia una caserma di Cashi Blu.

La dichiarazione del portavoce del UNHCR basato a Ginevra, Babar Baloch, crea maggior confusione. Baloch afferma che i soldati congolesi hanno sparato sui manifestanti burundesi durante una manifestazione totalmente pacifica. La dichiarazione smentisce le già contraddittorie versioni ufficiali fornite dal governo di Kinshasa e apre inquietanti piste. L’Agenzia di informazione ‘ANODOLU’, riconosciuta dalle Nazioni Unite lunedì 18 settembre pubblica una notizia sconcertante: «Diciotto rifugiati burundesi sono stati uccisi a Kamanyola venerdì 15 settembre. Altri sabato 16 settembre». Questa notizia viene riportata sul sito ONU di ‘Radio Okapi’ per poi essere cancellata 24 ore dopo la sua pubblicazione.

Grazie a contatti congolesi del Sud Kivu di Kamanyola e Bukavu, appartenenti alla società civile, ‘L’Indro’ ha raccolto sei testimonianze che hanno ricostruito gli eventi di sangue, rivelando una verità nascosta sia dalle autorità congolesi che dalle Nazioni Unite ma intuibile leggendo attentamente tra le righe delle varie e contraddittorie dichiarazioni ufficiali. Le testimonianze non sono anonime, ma non si rendono note l’identità dei testimoni per tutelare la loro vita.  Alcuni di questi testimoni hanno offerto una parziale versione al sito di informazione Al Jazeera che ha scelto come ‘L’Indro’ di proteggere le loro identità.

Martedì 12 settembre i soldati congolesi arrestano quattro rifugiati burundesi, affermando che erano armati. Secondo informazioni ricevute da membri della società civile burundese e da alcuni membri del partito al potere in Burundi, il CNDD-FDD, che fungono da quinta  colonna contro il dittatore Pierre Nkurunziza, i quattro rifugiati burundesi non appartengono alla ribellione. I soldati congolesi li avrebbero arrestati dietro richiesta del Governo di Bujumbura in quanto sarebbero degli attivisti politici che si oppongono alla dittatura di Nkurunziza.

I quattro sospetti vengono trasferiti a Bukavu e trattenuti presso la Direzione Generale per l’Immigrazione. Gli ordini sono chiari: estradarli nel vicino Burundi. Il loro destino è segnato. Una volta rimpatriati subiranno il trattamento di routine destinato agli oppositori politici e ampiamente denunciato nell’ultimo rapporto delle Nazioni Unite: colpo in testa dopo torture per strappare importanti informazioni, e i loro corpi gettati in una fossa comune.



Venerdì 15 settembre, circa 100 rifugiati burundesi escono alle 16:00 di sera dal campo di accoglienza dirigendosi verso l’ufficio della Agenzia di Sicurezza Nazionale di Kamanyola per ottenere notizie sui compagni arrestati e chiedere il loro rilascio. Due poliziotti congolesi tentano  di bloccare i manifestanti prima che giungano all’ufficio della Sicurezza Nazionale. Nel tentativo di disperdere i rifugiati burundesi i due poliziotti sparano in aria colpi di avvertimento. I manifestanti rispondono con una fitta sassaiola costringendo alla fuga di due poliziotti. Ad uno dei due poliziotti i manifestanti strappano il Kalashnikov durante una colluttazione prima della fuga.  Dopo qualche minuto spunta dal nulla una compagnia di soldati congolesi che apre il fuoco sulla folla uccidendo 10 rifugiati. I manifestanti si disperdono tentando di portare in salvo all’interno del campo i feriti. Otto di essi non vengono salvati e verranno finiti a sangue freddo dai soldati.

Questo è il primo fatto di sangue riportato dai testimoni che contraddice la versione ufficiale. I bollettini diramati dal Governo di Kinshasa parlano di una manifestazione di massa avvenuta a Kamanyola verso il mezzogiorno. I testimoni parlano di meno di cento manifestanti giunti quasi vicino agli uffici della Sicurezza Nazionale nel tardo pomeriggio del 15 settembre. Kamanyola è ufficialmente considerata dall’Amministrazione congolese una piccola città, ma in realtà è un grande villaggio. La caserma di Polizia conta meno di 20 effettivi, mentre gli agenti della Sicurezza Nazionale non superano la decina. Nel villaggio non si registrano unità dell’Esercito regolare. Alcuni reparti sono stanziati ai confini con il Burundi (la frontiera è molto vicina) per controllare infiltrazioni di guerriglieri e bloccare le numerose attività di contrabbando. Sempre nelle vicinanze c’è un posto militare MONUSCO, guardato da Caschi Blu pakistani che non escono dalle loro postazioni dopo essere stati informati dalla popolazione dell’accaduto.

La maggioranza delle vittime sarebbe stata massacrata non durante la manifestazione, ma all’interno del campo di accoglienza in due distinti attacchi. Il primo perpetuato nella serata di venerdì 15 settembre e il secondo durante la giornata di sabato 16 settembre. I rifugiati burundesi abbandonano il campo. Alcuni si danno alla macchia mentre la maggioranza si reca davanti alla postazione militare tenuta dai Caschi Blu pakistani in cerca di protezione. Gli attacchi ai rifugiati cessano e solo domenica mattina arrivano gli elicotteri MONUSCO da Bukavu per soccorrere i feriti. Le fotografie giunte alla Redazione testimoniano orribili ferite molte delle quali non provocate da proiettili di armi automatiche ma da armi bianche, più precisamente da machete. Alcune foto che la Redazione ha deciso di non pubblicare, causa l’impatto emotivo che possono creare, mostrano teste di alcune vittime aperte a metà da pesanti lame. Altre mostrano due bambini tagliati a pezzi.

I nostri testimoni rivelano l’identità degli aggressori. Tutte le testimonianze concordano che l’eccidio non è stato opera dei soldati congolesi ma di individui sconosciuti che indossavano uniformi dell’Esercito regolare. Gli ordini per coordinare l’attacco non venivano impartiti in Lingala (lingua ufficiale del Congo usata dall’Esercito) o in Swahili (lingua ufficiale del Congo parlata nelle province est). Gli ordini venivano impartiti in Kirundi, la lingua ufficiale burundese totalmente sconosciuta ai soldati congolesi. La lingua Kirundi, come quella parlata in Rwanda (Kinyarwanda) contiene suoni difficili da pronunciare per le popolazioni bantu. Le due lingue sono quasi impossibili da apprendere per gli occidentali o altri stranieri, africani compresi. Chi le usa è necessariamente burundese o ruandese.

I testimoni concordano che gli aggressori siano stati dei burundesi, ma non sanno se a massacrare i rifugiati siano stati soldati regolari di Nkurunziza o miliziani Imbonerakure. Escludono che siano stati i terroristi  delle FDLR. Molti di loro sono ruandesi che parlano Kenyaruanda. Qualsiasi ruandese che tentasse di parlare il Kirundi del Burundi verrebbe riconosciuto per la sua scorretta pronuncia. Inoltre, almeno il 40% dei terroristi FDLR sono dei giovani congolesi dell’est, reclutati negli ultimi anni che non conoscono le lingue burundese o ruandese ma solo lo swahili.

“Non conosciamo la sorte dei quattro rifugiati burundesi che sono stati arrestati dai servizi segreti congolesi sotto ordine del Governo di Bujumbura. Forse sono stati già consegnati a Nkurunziza. I tre attacchi, il primo a Kamanyola e i secondi all’interno del campo di accoglienza tra venerdì notte e sabato mattina, sono stati perpetuati da burundesi. Probabilmente da milizie Imbonerakure. Questo è un segnale molto allarmante poiché indica chiaramente che i miliziani genocidari burundesi hanno acquisito addestramento militare e capacità offensive tali da effettuare attacchi senza la coordinazione e l’assistenza dei terroristi ruandesi FDLR che in Burundi controllano le Imbonerakure. Questo rende la milizia una entità militare autonoma pronta per il genocidio anche senza assistenza delle FDLR. L’attacco al campo di accoglienza molto probabilmente sarebbe avvenuto anche senza la manifestazione come forma di pressione per convincere i rifugiati a rientrare. Per il Governo burundese sta diventando una ossessione obbligare gli oltre 400.000 rifugiati a rientrare nel Paese per dimostrare che la crisi politica è finita e che in Burundi regna pace, ordine e sicurezza. In Tanzania stanno terrorizzando i profughi affermando che chi non rientrerà volontariamente verrà ucciso.

Voglio sottolineare altri tre aspetti inquietanti del massacro. Il primo è la presenza di ufficiali congolesi tra i miliziani burundesi in tutte e tre le ondate di attacchi. Questo significa un piano premeditato e coordinato con il regime congolese che ha fornito uniformi dell’Esercito regolare e l’assistenza di ufficiali congolesi, probabilmente appartenenti alla Guardia Presidenziale o alla unità speciale del Katanga. Questi ufficiali si rivolgevano ai finti soldati congolesi in francese. Ogni congolese sa che gli ufficiali si rivolgono ai loro soldati in Lingala e usano il francese solo per le occasioni ufficiali o per interloquire con i Caschi Blu dell’ONU. Il francese diventa, però, una lingua franca se ci si deve rivolgere a burundesi che non conoscono il Lingala o lo Swahili.

Il secondo è che il contingente pakistano non è intervenuto a difendere i rifugiati. I primi soccorsi sono arrivati solo domenica, ad operazioni militari concluse. Vi è però da sottolineare che i pakistani hanno protetto i rifugiati che sono riusciti a raggiungere il loro posto di comando.  

Il terzo riguarda la presenza di ufficiali congolesi che accompagnavano gli ufficiali della MONUSCO durante la visita di domenica mattina. Gli ufficiali MONUSCO hanno interrogato alcuni civili congolesi e vari rifugiati burundesi in presenza degli ufficiali congolesi. Nessuno ha dato testimonianze di rilievo, limitandosi a informazioni vaghe o a ripetere la versione ufficiale del Governo di Kinshasa, in quanto vari ufficiali congolesi presenti con la MONUSCO sono stati riconosciuti come gli stessi ufficiali che hanno partecipato alle tre ondate del massacro“. Questa la testimonianza di un rifugiato burundese scampato all’eccidio.

Il massacro di Kamanyola avviene in un contesto regionale assai drammatico. Nell’est del Congo, dal 2015, si stanno perpetuando pulizie etniche contro l’etnia Nande nel Nord Kivu e contro l’etnia tutsi Banyamulenge nel Sud Kivu. In Burundi il regime è impazzito causa il rapporto ONU sui crimini contro l’umanità e tentato genocidio che sta aprendo le porte alla Norimberga africana presso la Corte Penale Internazionale. Vari attivisti della società civile burundese esortano un intervento militare regionale o internazionale per abbattere il regime di Nkurunziza, affermando che il Burundi sta correndo il serio rischio di un genocidio di massa che si potrebbe estendere nel Congo, facendo scoppiare una terza guerra Pan Africana nella regione.

Il Governo burundese ha ufficialmente contattato Kinshasa, UNHCR e la MONUSCO per chiedere l’avvio di una indipendente inchiesta  sul massacro e per convincere le autorità congolesi e le Nazioni Unite di avviare il rimpatrio  dei rifugiati. “Sono nostri cittadini quindi vogliamo che rientrino in patria per potere garantire loro la sicurezza“, ha affermato il Ministro degli Esteri Alain Aimé Nyamitwe. Da parte loro i rifugiati chiariscono che non vogliono rientrare in Burundi per ovvie e comprensibili ragioni.