General

Cina – Pakistan, quando gli affari contrastano il terrorismo

25 Settembre 2017

Il nascente asse economico fra i due Paesi sta portando Pechino a prendere serie posizioni contro i gruppi armati che minacciano i suoi interessi  

Uno dei progetti più significativi del piano cinese One Belt One Road è il cosiddetto CPEC, il China-Pakistan Economic Corridor. Un’infrastruttura che attraverserà per il lungo il territorio pakistano fino all’Oceano Indiano, sbocco marittimo alla nuova Via della Seta. Nonostante si tratti di solo una parte dell’elefantiaco piano di espansione commerciale cinese, il CPEC ha fin da subito attirato l’attenzione internazionale per via dei fragili equilibri che va a toccare. Il progetto di Pechino ha provocato allerta da più parti, a cominciare dalla vicina India. Il Primo Ministro indiano Narendra Modi ha da subito manifestato le sue perplessità, per non dire la sua aperta avversione, ad un progetto che non ha tenuto conto del parere di Nuova Dehli e ha ‘invaso’ la sua sfera d’influenza geopolitica, andando proprio a collegare i territori cinesi all’Oceano Indiano, storicamente il ‘giardino di casa’ dell’India.

Il CPEC ha destato ulteriore allerta per il ruolo che ha oggi il Pakistan nella lotta al terrorismo. Da tempo il Governo degli Stati Uniti si è scagliato contro Islamabad, ritenuta colpevole nel non reprimere efficacemente le cellule del terrore che cercano riparo all’interno dei confini nazionali, se non accusata di agire in combutta con i talebani e il terrorismo afgano e offrire loro una comoda ancora di salvezza. Con l’intrecciarsi dei rapporti fra Islamabad e Pechino, due attori non certo schierati a fianco delle potenze occidentali, la Cina consolida un potere d’influenza su tematiche oggi molto care agli Stati Uniti, e mette se stessa sempre più al centro di delicati equilibri internazionali.

Prima della capacità d’influenza politica, tuttavia, l’interesse cinese parte sicuramente da un’esigenza economico-commerciale. Pechino aveva bisogno di un canale secondario rispetto allo Stretto di Malacca – per cui passa gran parte dell’import di petrolio cinese –  che permettesse uno sbocco verso il Mar Arabico e quindi un passaggio infrastrutturale che collegasse la Cina al mare. Una delle quattro aree del progetto è proprio il porto di Gwadar, oggi in corso d’opera ma che permette il passaggio di mezzo milione di tonnellate l’anno di merci. A lavori ultimati, dovrebbe arrivare a gestirne 3-400 milioni.

I vantaggi economici prospettati per la Cina vanno di pari passo con quello che il Governo pakistano si aspetta come ricaduta sull’economia del Paese. Difficile dire no agli investimenti di Pechino. Come annunciato da Xi Jinping nel 2015, la Cina andrà ad immettere nel progetto oltre 62 miliardi di dollari per i prossimi dieci-quindici anni, distribuiti su progetti infrastrutturali come strade, ferrovie, canali di smistamento, e, soprattutto, centrali per la produzione energetica, per le quali sono destinati almeno 35 miliardi. Soldi che, verosimilmente, influiranno sull’occupazione nel Paese, e potranno portare benefici in ottica di un sentimento ritrovato di coesione nazionale e nell’incremento della pubblica sicurezza.

Anche in questo caso, al vantaggio economico si accompagnano considerazioni di tipo geopolitico. Il rapporto complicato di Islamabad con l’India ha fatto accettare di buon grado la partnership nel progetto cinese. Un espediente che permetterà al Pakistan di accumulare potere nell’ottica di relazioni internazionali e di contare su un alleato forte che lo sostenga di fronte l’India stessa, ma anche con Washington, impegnato a mettere pressione nella lotta al terrorismo.

Già, il terrorismo. Non è solo dalla parte opposta dell’oceano che è sentito il problema. All’indomani dei suoi accordi con il Pakistan, l’Amministrazione di Pechino si è trovata a dover tutelare i propri interessi di fronte alla minaccia di possibili – ma anche effettivi – attacchi delle cellule pakistane ai suoi cantieri. La Cina, da questo punto di vista, sta portando avanti un difficile rapporto diplomatico. Da una parte, opponendosi alle continue accuse di Trump verso il Governo pakistano e alle sanzioni del Consiglio di Sicurezza Onu, che, indirettamente, minerebbero gli affari della Cina stessa con Islamabad. Dall’altra, rilasciando dichiarazioni importanti a riguardo, come quella arrivata all’indomani del summit BRICS 2017, in cui Pechino ha condannato l’azione di gruppi del terrore con base in Pakistan, come Haqqani Network, Lashkar-e-Taiba (LeT), and Jaish-e-Mohammad (JeM).

Se è vero che la Cina non può che prendere le difese di un Paese con il quale sta intraprendendo un importante progetto commerciale, è anche vero che si sta accorgendo di come la minaccia terroristica possa minare i suoi stessi interessi in Pakistan. Sembra che la nuova politica di Pechino, oggi, sia infatti molto più determinata ad incrementare la sicurezza pubblica entro i confini pakistani di quanto non fosse in passato, determinando un deciso cambio di rotta ed un sostanziale allineamento verso le richieste di Washington.  Come un buon manager che si rispetti, la Cina sta cercando di tutelare al meglio i propri investimenti.

Al momento, il Pakistan ha messo a disposizione novemila agenti della Divisione Speciale del suo esercito e seimila paramilitari per difendere i lavoratori impegnati nelle infrastrutture del CPEC. Ciononostante, il Governo cinese rimane preoccupato per la sicurezza dei propri cittadini, conseguenza di rapimenti ed estorsioni già avvenuti ad opera di ISIS, talebani e insorti del Balochistan, regione settentrionale pakistana. Lo scorso giugno, una coppia cinese è stata sequestrata e uccisa da militanti dell’ISIS nel territorio di Quetta. Un atto che si inserisce nella strategia dello Stato Islamico di colpire anche la Cina in quanto oppressore del popolo musulmano, come più volte manifestato nella sua propaganda.

Per questo la Cina si sta attrezzando, non troppo convinta dall’efficacia dell’intervento pakistano nella lotta al terrorismo. Come ha messo in luce un report del Pentagono americano, la Cina starebbe pianificando la costruzione di basi militari su territori alleati. Primo fra tutti, il Pakistan. Questo come parte di un progetto, dice il report, in cui la Cina è destinata a proteggere i suoi interessi all’estero, attraverso la dislocazione di reparti del suo esercito. Lo scorso anno, la Cina ha speso per il People’s Liberation Army una cifra intorno ai 180 miliardi di dollari, in una corsa al potenziamento militare che corre parallela ai suoi progetti economici.

Tuttavia, il gioco della Cina potrebbe far comodo agli americani. Innanzitutto, considerando la convergenza di interesse verso il debellamento delle cellule in Pakistan. Da questo punto di vista, Pechino avrebbe una capacità d’influenza sul Governo pakistano ben maggiore di quella che oggi può esercitare Washington. Un interesse che, tra l’altro, si potrebbe allargare verso un altro Paese chiave nella politica estera statunitense, ovvero l’Afghanistan. Pechino sembra interessata a mettere pressione ai miliziani anche qui. In questo caso, i motivi dell’interesse sono dovuti agli affari cinesi su un giacimento minerario dal valore stimato di un bilione (mille miliardi) di dollari. Un consorzio cinese si è già aggiudicato il bando per l’estrazione di rame da uno dei più grandi giacimenti al mondo, il cui valore è stimato sugli 88 miliardi di dollari. Per non parlare delle risorse petrolifere afgane, da cui la Cina estrae un milione e mezzo di barili l’anno.

La strategia di Washington in quest’area del mondo non è ancora ben definita. Se, da una parte, è interesse americano la lotta al terrorismo e una maggiore stabilità in Paesi come Pakistan e Afghanistan, dall’altra la crescente sfera d’influenza cinese e i rapporti degli Usa con l’India rendono questo scenario particolarmente complicato. La soluzione migliore, sostengono alcuni analisti, sarebbe quella per Washington di inserirsi come terzo attore in un possibile accordo trilaterale con Cina e Pakistan, e garantire investimenti statunitensi all’interno del progetto del CPEC. In questo modo, gli Usa si ritaglierebbero un posticino in un’area d’influenza di loro interesse, e potrebbero evitare che si crei un asse univoco tra Pechino e Islamabad. Con buona pace dell’India.