Amazzonia, Ecuador e la battaglia delle comunità indigene
25 Settembre 2017
Il confronto tra chi vuole sopravvivere e chi, invece, di quella terra si cura solamente in funzione dei propri guadagni

L’Amazzonia è ormai da lungo tempo al centro di un contrasto tra le comunità indigene che cercano di sopravvivere ma, soprattutto, si battono per proteggere la loro terra e chi, invece, di quella terra si cura solamente in funzione dei propri guadagni. Indigeni di ogni provenienza lottano quotidianamente per ottenere quella giustizia loro negata, ma gli episodi di violenza incontrollata nei loro confronti sono sempre più numerosi. Il grido indigeno internazionale si sta facendo sempre più forte ed il suo eco si sente dalle prime proteste per il Dakota Access, l’oleodotto in costruzione in Nord Dakota che, come da progetto, dovrebbe coprire circa 200 chilometri, trasportando una quantità di petrolio intorno ai 550.000 barili giornalieri.
E’ così che è nato nel 2016 il movimento che si oppone alla sua realizzazione. A capo della battaglia ci sono i nativi americani degli Stati interessati e la tribù dei Sioux, insieme per proteggere il valore storico di quelle terre e, soprattutto, le risorse idriche; ma tra loro anche molti cittadini e rappresentanti di 90 comunità indigene, tra cui quelli dell’Ecuador. I Sioux avevano festeggiato sul campo di Standing Rock lo stop alla costruzione dell’oleodotto osteggiata da mesi, grazie al supporto di Barack Obama; si era iniziato a parlare di un percorso alternativo, ma dalla vittoria di Donald Trump, le cose sono cambiate ed i lavori del Dakota Access sono ripresi.
Nel documentario ‘The Last Guardians’ i due registi Joe Tucker e Adam Punzano mostrano il punto di vista dei protettori delle terre indigene portando le loro telecamere direttamente sul luogo: nell’Amazzonia dell’Ecuador tra i villaggi di Sápara di Llanchamacocha e di Kichwa di Sarayaku nello Stato di Pastaza. I membri più anziani della comunità sono in prima linea nel movimento di protesta per la protezione delle loro terre. Ma se ci si chiede da chi sia opportuno proteggerle, non è poi difficile trovare una risposta: la grande industria del petrolio e gli interessi finanziari. Le priorità del Governo ecuadoregno, poi, non aiutano di certo e si schierano contro gli abitanti locali che si battono per interrompere l’avvelenamento delle loro terre, acque e famiglie.
La cultura nativa mostra quanto la comunità indigena sia profondamente connessa al mondo spirituale e attaccata alla loro terra. Manari Ushigua, Presidente della Sápara Nation, spiega che la relazione degli esseri umani con gli alberi, gli animali, gli insetti, l’acqua e la terra è un qualcosa di non gerarchico. «Tutto e tutti sono uguali. Siamo in equilibrio con la natura». Quando gli spagnoli sono giunti in queste terre per primi, hanno subito iniziato a sfruttare le risorse. «Hanno schiavizzato i nostri antenati e portato malattie prima sconosciute come la malaria e la febbre gialla e con quelle malattie i nostri antenati sono morti».
Originariamente in quella zona vivevano più di 200.000 persone e 32 dialetti. Ora sono solo 200 con solo sei persone ancora in vita e parlanti la lingua nativa. L’UNESCO gli ha dato lo status di ‘Patrimonio Culturale Intangibile ‘ nel 2001. La guerra del 1941 tra Ecuador e Perù divise la Nazione in due e gli indigeni prima appartenenti ad un unico territorio, ora vivono in due Paesi diversi. L’ultimo shamano Sapara vive in Perù.
Prima del boom dell’estrazione petrolifera degli anni ’60, la foresta pluviale era la casa delle tribù Cofan, Huaorani, Kichwa e Secoya. La portata dell’estrazione, soprattutto nei centri cardine di Coca e Nueva Loja, nel nord dell’Ecuador, ha influito negativamente sia sulla stessa foresta che sui territori indigeni. La Texaco, società petrolifera americana, ha operato lì dal 1964 al 1990, prima della sua unione con Chevron Corporation nel 2001. In quel lasso di tempo, si presume che siano stati versati sul territorio 18 bilioni di litri di acque di scarico e 15 milioni di litri di petrolio grezzo. La fanghiglia nera sparsa ha causato una spirale di danni: l’acqua contaminata ha raggiunto, così, le foci di tutti i fiumi, la flora e la fauna sono state cancellate e gli abitanti hanno iniziato ad ammalarsi e i bambini a nascere deformati o ammalati.
Sono ormai 20 anni che l’industria petrolifera prosegue la sua attività incurante dei danni provocati. Alejandro Soto, un attivista della comunità che lavora per la ‘Coalizione per la Difesa dell’Amazzonia’ e per la ‘Comité de los Afectados’ parla di posti in cui il petrolio estratto è rimasto stagnante in pozze nere. «Il (loro) scopo principale è quello di entrare ed estrarre petrolio senza rispondere dei danni», ha detto senza giri di parole Luis Yanza, Presidente della ‘Amazon Defense Coalition’. «Di fatto, non c’è stato nessun cambiamento in 30 anni». Nonostante il Governo equadoregno continui a ripetere che pagherà per ciò che questa situazione sta causando, sta, in realtà, continuando contemporaneamente a garantire la prosecuzione delle estrazioni su quelle terre senza averne l’autorità.
Secondo la legge, il Governo dovrebbe avere un permesso specifico di ‘consenso libero ed informato’ (FPIC) per consentire che venga estratto petrolio ma esattamente come fanno le stesse compagnie petrolifere, il Governo finge che questo pre-requisito non esista. Sotterfugi e alleanze: tanti i modi in cui si arriva all’approvazione delle trivellazioni; uno dei metodi è quello di pagare i rappresentati di spicco di alcune tribù per ottenere il loro consenso o quello di assicurarsi l’ok da comunità ‘esterne’ ma trasferitesi nel territorio pur non appartenendovi per nascita. L’approccio è assolutamente agli antipodi rispetto alla parità sociale su cui sono strutturate le comunità indigene.
Nel Luglio del 2012 la Corte Inter-Americana per i Diritti Umani ha emesso una sentenza in proposito con cui ha stabilito che l’Ecuador è responsabile per la violazione del diritto delle popolazioni indigeni di essere previamente informate secondo gli standard internazionali. La pronuncia è stata presa poi ad esempio da tutte le comunità amazzoniche come modello esemplare; la consapevolezza crescente nelle comunità rende più difficile al Governo fingere che non esista quella necessità di avere un consenso.
Nel 2015, il Governo ha poi venduto ad un consorzio cinese l’accesso a parti di terra per un gigante della combustione fossile, Andes Petroleum, la quale aveva originariamente promesso di rispettare i costumi locali in ogni operazione che avrebbe coinvolto l’area. Certo, suona un po’ strano o, per lo meno, improbabile, visto i trascorsi. Patricia Gualinga, il direttore per le relazioni internazionali di Sarayaku, regione amazzonica dell’Ecuador, ha accusato il Governo di gettare fumo negli occhi, accusando le compagnie petrolifere di provare ad «imporre un modello economico e sociale completamente diverso dalla nostra realtà». «Siamo stati vittime di moltitudine di violazioni da parte del Presidente della Repubblica.» Nell’Ottobre dello stesso anno è stato presentato ricorso alla stessa Corte Inter-Americana.
«Andes Petroleum è prossima a commettere un genocidio contro la gente di Sapara e contro i nostri vicini isolati», ha affermato Manari Ushigua, Presidente di the Sapara Nation. «Andes Petroleum deve cancellare immediatamente il contratto e l’Ecuador desistere da ogni altra forma di estrazione delle risorse perché sta minacciando la nostra sopravvivenza».
L’azienda «avrà sulle mani il sangue della mia gente se non se ne andrà dalla mia sacra foresta pluviale», ha tuonato Gloria Ushigua, Presidentessa della Sapara Women’s Association. La stessa ha ricevuto decine e decine di minacce di morte per difendere la ‘sua Amazzonia’ ma lei ha gettato via il telefono e continua la sua battaglia.
Una questione di ‘orientamento filosofico’; con queste parole è stata definita la situazione da Kawsak Sacha e dal suo progetto ‘The Living Forest’ presentato al COP21 di Parigi. «Un patrimonio sacro di biodiversità, libero dallo sfruttamento del petrolio, delle miniere, del legno». La foresta amazzonica è patrimonio dell’umanità e, in quanto tale, dovrebbe essere protetta. Le forme di solidarietà che uniscono le comunità indigene possono essere una efficace via di difesa dei loro stessi diritti; i Kichwa di Sarayaku hanno mandato una loro delegazione a Standing rock proprio in solidarietà delle tribù nordamericane e per dimostrare che l’unione fa sempre la forza.
Ma due problemi sono già sul ciglio della porta: i milioni di dollari mai pagato da Chevron per i danni inestimabili causati nel Paese e non meno importante le prossime estrazioni nel territorio di Sapara già annunciate dall’Andes Petroleum.
Ma una cosa è ancor più certa: la comunità indigena è forte, è unita, è grande e non smetterà di lottare.