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‘Zero in condotta’: operazioni SAR e ruolo delle ONG

8 Agosto 2017

Il «Codice di condotta» per le ONG resta il ‘pomo della discordia’, non solo per i diretti interessati, ma anche tra i nostri rappresentanti di governo

Il «Codice di condotta» per le ONG resta il ‘pomo della discordia’, non solo per i diretti interessati, ma anche tra i nostri rappresentanti di governo. Il Ministro dell’Interno, Marco Minniti, che ieri non è comparso a Palazzo Chigi per la riunione dell’Esecutivo, lascia intendere chiaramente la possibilità di dimettersi a causa delle divergenze con Graziano Delrio, Ministro dei Trasporti, responsabile per la gestione dei porti e degli sbarchi sulle coste italiane. A monte, il fatto: nella notte di sabato 5 agosto, 127 persone soccorse dalla nave «Prudence» di «Medici senza Frontiere» (MSF) sono state trasbordate da 2 unità della Guardia Costiera e poi condotte a Lampedusa.  Sembra, peraltro, che il supporto alla linea adottata dal Viminale, concordemente manifestato dal premier Gentiloni e dal Capo dello Stato, segni la fine dell’approccio flessibile, portando Delrio all’isolamento.

Come affermato da Minniti a più riprese, le Organizzazioni che rifiutano di firmare il Codice non saranno parte del sistema istituzionale organizzato per il salvataggio in mare, l’accoglienza e la lotta al traffico definito dal Governo, «con tutte le conseguenze del caso concreto che potranno determinarsi a partire dalla sicurezza delle imbarcazioni stesse» (Viminale, Comunicato stampa del 31 luglio). Finora la firma è stata apposta da «Migrant Offshore Aid Station» (MOAS) e «Save The Children», con una dichiarazione di intenti favorevole da parte della ONG spagnola «Proactiva Open Arms». Assenti, invece, «Sea Watch», «Sea Eye», «Sos Mediterranée», mentre la tedesca «Jugent Rettet»  ha esplicitamente rifiutato di sottoscrivere il documento, poco prima che il suo equipaggio fosse indagato dalla Procura di Trapani per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

Dal ‘fronte del NO’ si sono levate le voci di protesta.  Significativi in proposito i contenuti della lettera inviata a Minniti da MSF, che richiamano i principi di indipendenza , imparzialità e neutralità del diritto internazionale umanitario condivisi dall’UE rifiutando, per l’arbitrio con il quale sarebbe posto, il bilanciamento tra la ‘sostenibilità’ dell’accoglienza e tutela della vita umana contenuto nel provvedimento.

L’attività di ricerca e salvataggio in mare (oggetto degli Articoli 69 e 70 del nostro Codice della Navigazione), nella molteplicità delle situazioni che troviamo nel Mediterraneo, interessa la natura dei suoi soggetti, le competenze per territorio e le relative responsabilità, i limiti al potere di intervento.

Le c.d. «aree SAR» («Search and Rescue») sono state definite dalla «Convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo», firmata ad Amburgo nel 1979 e ratificata dall’Italia nel 1985.  Esse delimitano, per ciascuno Stato firmatario, un’area di competenza nella quale esso si impegna, individualmente o in cooperazione con altri Stati, a sviluppare servizi di ricerca e soccorso finalizzati all’assistenza e al salvataggio in mare delle persone in pericolo. In Italia l’organizzazione e la supervisione di questi interventi spetta, dietro delega dal Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, al Corpo delle Capitanerie di porto – Guardia Costiera (in base a un Regolamento del 1994, attuativo della L. 147/1989 di adesione alla Convenzione) e copre un’area di circa 500000 kmq, corrispondente alla superficie territoriale della Spagna. La SAR italiana è suddivisa in 15 sub-aree, controllate dai «Maritime Rescue Sub Centre» (MRSC) che troviamo presso le Direzioni marittime dipendenti dal «Maritime Rescue Coordination Centre» Centro Nazionale di Coordinamento del Soccorso Marittimo (MRCC). A livello inferiore, invece, le 101 «Unità costiere di guardia» (UCG) operano presso i vari Uffici circondariali e fanno capo alle suddette Direzioni. L’insieme degli equipaggi e dei dispositivi aeronavali del Corpo, dislocati lungo le coste, nello spazio di mare di responsabilità nazionale, costituiscono la c.d. «maglia SAR».

Per la regione mediterranea, con il «General Agreement on a Provisional SAR Plan» del 1997, l’ International Maritime Organization ha definito le rispettive aree di competenza nazionali, tra le quali fa eccezione la SAR di Malta, che si sovrappone a nordovest con quella italiana (come definita dal Regolamento del 1994) e a ovest con le acque territoriali tunisine, coprendo una vasta superficie pari allo spazio aereo della relativa «Regione per le informazioni di volo». Al pari della Libia, la Tunisia ha ratificato la Convenzione di Amburgo senza però dichiarare una propria area SAR di responsabilità.

Come si può leggere nell’ultimo Rapporto sull’attività operativa della nostra Guardia Costiera, «Il MRCC di Roma, nel corso dell’anno 2016, ha coordinato 1.424 operazioni di soccorso connesse all’immigrazione via mare che hanno portato al salvataggio di 178.415 migranti. Le operazioni SAR sono state eseguite coordinando i mezzi aeronavali della Guardia Costiera, nonché i mezzi aerei e navali impiegati nell’ambito di missioni nazionali e internazionali, le navi di organizzazioni non governative e le unità mercantili che, a qualunque titolo, si trovassero in posizione tale da poter utilmente intervenire». La percentuale dei soccorsi effettuati, rispettivamente, dalla Guardia Costiera e dalla Marina Militare italiane è, per entrambe, del 20%; all’operazione militare anti-traffico europea «Sophia» (EUNAVFORMED), alla quale l’Italia partecipa con un contingente di 600 militari e vari mezzi, tra cui la Flag Ship «San Giusto», spetta il 13%, mentre l’8% va a Frontex, agenzia UE deputata al controllo e alla sicurezza delle frontiere dell’Area Schengen, che effettua pattugliamenti permanenti e,  dal novembre 2014, coordina l’operazione multinazionale di polizia «Triton» per prevenire e contrastare l’immigrazione clandestina.

Con un spesa prevista di 2900000 euro al mese, «Triton» (un programma europeo) ha sostituito l’operazione italiana «Mare Nostrum» del 2013, ritenuta troppo onerosa per un solo Stato dell’UE (9 milioni di euro al mese per un anno). Tuttavia, diversamente da «Mare Nostrum», missione militare e umanitaria coordinata dalla nostra Marina, con «Triton» e «Poseidon 2016» (operazione attiva nel Mar Egeo), alle quali la nostra Guardia Costiera partecipa con diverse unità, Frontex non persegue – per ragioni ‘costitutive’ – obiettivi di search and rescue, ma di sorveglianza e rafforzamento della frontiera esterna.

Già nel Bilancio 2016 comunicato dalla Commissione europea, sono stati aumentati i fondi destinati alle due operazioni (45 milioni di euro) con un’azione potenziata ed estesa a un raggio di 138 miglia marine dalla Sicilia. In un dossier del Senato italiano relativo alla gestione dei salvataggi in mare, è affermata la necessità di «chiarire se l’aumento della dotazione di risorse e mezzi a giudizio della Commissione europea sarebbe di per sé sufficiente a consentire a Frontex di svolgere quella che nella comunicazione viene qualificata come “duplice funzione di sorveglianza delle frontiere e di aiuto al salvataggio dei migranti in mare”, anche in assenza di un esplicito mandato dell’Agenzia». Si tratterebbe, in questo caso, di modificare parzialmente l’assetto giuridico di Frontex «nel senso di rafforzarne i compiti in materia di rimpatrio», secondo gli auspici della stessa Commissione. In tale direzione, il Regolamento (UE) 656/2014 , lo stesso che attribuisce all’Italia il ruolo esclusivo di «Stato membro ospitante», comprende tra i doveri dell’Agenzia la capacità di «affrontare situazioni di ricerca e soccorso che possono sorgere durante un’operazione di sorveglianza di frontiera in mare» e «garantire a protezione dei diritti fondamentali degli immigrati prevenendo la loro espulsione in un Paese dove potrebbero essere oggetto di persecuzioni o in pericolo di morte (principio di non respingimento)».  Ferma restando la dichiarata attenzione per i diritti umani (con un aumento del 2,5% delle risorse stanziate a tale scopo), lo scorso marzo Fabrice Leggeri, Direttore esecutivo di Frontex, ha ribadito davanti al Parlamento europeo (Commissione Libertà Civili) che l’Agenzia organizza l’identificazione e la riammissione di chi emigra nel massimo rispetto possibile della loro dignità, ma non può essere l’equivalente di un’ ‘agenzia di viaggi’. Peraltro, tra le risorse impiegate da «Mare Nostrum» secondo una specifica strategia di intervento umanitario, si era fatto largo utilizzo di personale civile.

Come ha evidenziato nel saggio Polizia della frontiera  (Derive Approdi, 2015) il giurista e sociologo Giuseppe Campesi, Frontex, nata prima che esistesse l’Unione Europea e fuori dall’ambito comunitario, «non è una polizia europea, è un’agenzia di cooperazione poliziesca. È una differenza sostanziale. Non esiste una polizia europea, un poliziotto europeo, Frontex è un’agenzia chiamata a coordinare l’azione delle forze di sicurezza nazionali». L’ «Accordo di Schengen», firmato nel 1985 da Benelux, Germania e Francia, conteneva una precisa argomentazione: «per eliminare i controlli alle frontiere interne tra i Paesi membri era necessario sviluppare forme di cooperazione per controllare più strettamente la nuova frontiera comune esterna. Un salto, sul piano geopolitico, decisivo».

Essendo questa un po’ l’ ‘anima’ di Frontex, appariranno forse più chiare le divergenze di strategia che operano nelle aree in cui è stato ritagliato il Mediterraneo. Non a caso, le critiche all’operato delle ONG espresse dall’Agenzia nel Rapporto Risk Analysis 2017 (pp. 32.33), rinforzate senza troppe remore da Leggeri («Le ong non collaborano»), già nel marzo scorso hanno portato l’attenzione mediatica sulle indagini aperte da 3 Procure italiane (Palermo, Catania e Trapani).

In questo scenario di competenze parzialmente sovrapposte e obiettivi differenziati, avremmo un grosso ‘buco’ con l’omissione delle operazioni di search and rescue compiute dagli attori non governativi.  Sempre in base al Rapporto 2016 della Guardia Costiera italiana, l’attività di soccorso in mare connessa ai flussi prestata delle ONG copre, da sola, il 26% del totale.

Nelle diverse aree SAR, le ONG intervengono in interazione con le autorità competenti, come appunto la Guardia Costiera italiana. Tuttavia, una collaborazione attiva con le polizie e gli eserciti del Paesi membri dell’Unione non rientra nella loro mission .  Una delle ragioni principali sottostanti al rifiuto di firmare il «Codice di Condotta» è la natura stessa di tale provvedimento. In particolare, perché dovrebbero valere, per una nave battente bandiera di uno Stato terzo, i divieti (ad esempio, quello di ingresso in acque libiche) previsti dallo Stato italiano in acque internazionali, ossia fuori dalla sua giurisdizione? Tale incompetenza si trasmette anche all’obbligo previsto per le navi non governative di far salire a bordo gli ufficiali italiani di polizia giudiziaria (uno dei punti più contestati) per indagini sul traffico di migranti, oltre al citato divieto di ingresso in acque libiche o di trasferimento di persone su altre navi, anche quando tale operazione sia essenziale a salvare vite umane. Quanto alla disciplina dell’accesso ai porti, i giuristi dell’ASGI rilevano che «Né i trattati internazionali in materia né la prassi internazionale indicano in alcun modo l’esistenza di una competenza normativa dello Stato del porto relativamente alla navigazione di navi che abbiano svolto attività di ricerca e soccorso in alto mare e richiedano l’accesso al porto».