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Sisma Centro-Italia: le Marche un anno dopo

24 Agosto 2017

Le passerelle elettorali dei politici. La macchina malata della burocrazia. I veleni e i soliti sciacalli. Ma anche la voglia di ri-esistere in mezzo alle difficoltà. Il viaggio di L43 nella ricostruzione. Che non c’è.



C’è un vecchietto, arranca su per la salita e i suoi passi sembrano non volerne sapere, come se quel sentiero non fosse più il suo. «Lo vedi, lo riconosci, è mio padre». E no, non è possibile, non si può riconoscere quell’uomo arreso ma il terremoto è così, quelli che non seppellisce subito li scava dentro e non smette, un giorno dopo l’altro rovina la volontà. Poi si arrendono. «Tanti anziani muoiono e si viene a sapere un mese dopo, perché erano finiti altrove e qui non c’è più il servizio funebre e neppure i manifesti. Dicono: lo sai chi è morto? E così, arriva la notizia». Ma le voci fanno fatica a passare le macerie.

UN ANNO DI MACERIE. Un anno fa, 24 agosto, i primi scrolloni, violento anticipo del disastro di fine ottobre. Un anno dopo, ancora i detriti, a montagne. Solo nelle Marche, quasi 900 mila tonnellate, e ne hanno tolte 110 mila. Non ci sono i soldi, mormorano le voci incazzate, li trovano per tutto, ma per ripulire no. A Piedilama d’Arquata del Tronto è tornato Gentiloni, ha aperto un villaggio Sae con 16 prefabbricati, a Ferragosto erano stati consegnati 25 moduli su 2.045 spettanti alle Marche. Una terremotata gli ha offerto una fetta di crostata e lui ha detto: dobbiamo fare di più. «Se ci davano un euro per ogni volta che questi si son fatti vedere, a quest’ora avevamo già rifatto tutto», bofonchia qualcuno. Uno di quelli che forse sono già morti e non lo sanno. Vengono nelle Marche ogni due per tre, promettono interventi, ma gli interventi non sono ancora cominciati. «Neanche le stalle hanno messo, e neanche ce le hanno fatte mettere a noi allevatori, se uno ci provava gli arrivava addosso un altro terremoto: di multe». Perché? «Bah, la burocrazia, dice bisogna tutelare il territorio». Un territorio ridotto a rovine. Così sono morte più di 15 mila bestie.

IMPEGNO O TRAMPOLINO ELETTORALE? A metà giugno a San Ginesio era tornato anche il capo della Protezione Civile, Fabrizio Curcio, per una commemorazione storica. L’avevano anche premiato e lui ha promesso: «Non vi dimenticheremo, nessuno vi abbandonerà, io per primo sarò al vostro fianco». Un mese dopo si è dimesso. «Non ce la faccio più», ha spiegato, ma dalle valli del terremoto molti si sono chiesti: a fare che? Anche Vasco Errani, il commissario per la Ricostruzione, ha molto parlato, molto promesso, poi si è dimesso anche lui, per candidarsi coi bersaniani. «Ma queste ricostruzioni sono impegni veri o trampolini elettorali? Noi non lo sappiamo», sospettano i terremotati. Solo che alla fine della fiera non frega più niente a nessuno perché hanno altro da fare.

Sopravvivere, eventualmente. Resistere a un secondo inverno in dispersione. Gli sfollati, dice una leggenda del terremoto che forse leggenda proprio non è, non hanno visto le casette di legno non perché non ci fossero, ma perché le hanno tenute ferme come chiedevano gli albergatori, che a 45 euro a “migrante” non esotico, ruspante, ma sempre buono, si son fatti una stagione morta da sogno. Poi, arrivato giugno, li hanno spediti altrove. E fiorivano le viole dei sospetti, dei veleni, il business di qualche medico dall’etica discutibile, il giro dei farmaci, del quale non si parla ma si ipotizzano cifre vergognose. Non si salva neppure la cosiddetta società civile, quella che si specchia nella propria onestà, che critica la politica ladra, se è vero che molti, approfittando delle circostanze, si sono fatti ripetuti screening, esami diagnostici, test sanitari dei quali non avevano alcun bisogno, che sarebbero, in caso, spettati ai terremotati, afflitti da patologie più o meno concrete, più o meno psicosomatiche, ma c’è chi è riuscito a farsi passare per sfollato e, “già che ci siamo”, ha passato ai raggi X tutto il parentado. La malapianta dell’uomo, che sfrutta ogni occasione per essere sciacallo.

LA RESISTENZA DI SAN GINESIO. Storie pessime e storie splendide nascono come fiori dopo un anno di terremoto. San Ginesio è uno dei posti tutti incerottati, piastre di contenimento su tutti i palazzi, inquietanti strutture metalliche che sembrano la ragnatela di un gigantesco ragno postatomico, voragini dov’erano complessi scolastici non più possibili, in attesa che risorgano con tutti i crismi, inclusi gli impianti sportivi di prim’ordine, incluso un auditorium da 400 posti che dovrebbe consentire la ripresa al chiuso di quelle radiose stagioni culturali che avevano trasformato il piccolo borgo montano in una meta irrinunciabile per gli appassionati di musica, di teatro, di cultura.

IL SILENZIO SPETTRALE. Mentre si rattoppava e si leccava le ferite, il paese che non esiste non ha mai smesso di resistere, ha messo in cantiere festival musicali, incontri, appuntamenti e ogni personaggio che passa di qui, Simone Cristicchi come Paolo Benvegnù, Alessia Marcuzzi come Antonio Rezza, guarda per aria i palazzi incerottati e ci resta male: non è più il silenzio buono, fragrante dell’aria che arriva dai Sibillini, è un silenzio grave, greve, un silenzio spettrale e agitato. Ha scritto sul suo profilo il critico musicale Eddy Cilia, che a San Ginesio è legato: «Ci sono tornato qualche giorno fa, muovendomi a fatica per le sue strade, e vederla come è adesso, ferita (se non a morte, quasi) dal terremoto, mi ha fatto un’impressione indescrivibile. Abbracciare in uno sguardo la piazza principale e constatare che praticamente tutti gli edifici che vi si affacciano – e in particolare il Teatro Comunale, che mi ospitò – sono rimasti gravemente lesionati, e sono oggi pressoché totalmente inagibili, mi ha lasciato un magone che non vi dico. Però voglio sperare che un giorno pure San Ginesio possa di nuovo alzarsi in piedi. E tornare a camminare, magari zoppicando».

È la speranza che il borgo non ha mai smesso di avere, senza saper bene se potrà tornare a vivere e quando. Ma intanto, questa estate è stata forse ancora più viva, più effervescente delle altre, tra rievocazioni, concerti, sfilate, festival del mimo, ogni giorno un evento. Il parco, da anni sottovalutato, affidato ai ritrovi degli adolescenti, di colpo unico luogo possibile per tutto; i giardini del Colle Ascarano sono diventati il centro nevralgico di un paese che attende di risorgere, per Antonio Rezza c’erano 500 persone, il palco tutto un tripudio di luci e di colori. Il palco, che ha cambiato look grazie all’intervento di un workshop di architettura solidale, Camposaz, che riunisce giovani professionisti da tutto il mondo i quali hanno dotato l’area di arredi urbani in legno: uno spazio con fontana, un punto panoramico e il rivestimento per il palco stesso, che ha davvero cambiato aspetto. Chi arriva percepisce quel profumo di legno nuovo, fresco. Anche questo serve, anche questo è bello. Qui la Rsa, la residenza sanitaria assistita, evacuata il 30 ottobre, verrà trasformata in Casa della Salute raddoppiando i posti letto, da 20 a 40.

L’ATTENZIONE DELL’UNESCO. C’è sempre l’ostello, che ancora ospita alcune decine di sfollati, in massima parte extracomunitari, che con le scosse avevano perso l’unico tetto disponibile. Ma qui non si lascia a spasso nessuno, e nell’ostello convivono donne islamiche, col velo, insieme col prete filippino che celebra Messa in un tendone, tuttora in attesa della chiesa prefabbricata. Inoltre San Ginesio, la città delle cento chiese tutte lesionate, diventa un laboratorio per l’Unesco: è riuscita, infatti, a conquistare il direttore generale Irina Bokova, la quale ha visitato la cittadina entrata nella rete delle Città creative Unesco grazie all’intervento della Fondazione Aristide Merloni e della città di Fabriano. San Ginesio, in quest’anno da tregenda, è riuscita a tessere una rete fittissima di rapporti, di amicizie con centri di tutta Italia e anche in Europa, paradossalmente questo che sta tra i 187 borghi più belli d’Italia e come tale insignito della Bandiera Arancione, è più conosciuto oggi che un anno fa.

Altri villaggi, da Arquata a Civitella, da Ussita a Visso a cento borghi ancora più piccoli e più isolati sono spariti dal radar, languono tra le macerie silenti e i ritardi di una burocrazia che non si fa intenerire neanche dall’apocalisse, che impone le sue ragioni folli, di opportunismi, di impotenze programmate, di carriere politiche, di paralisi strategiche. Quest’estate Neri Marcorè, che è di Porto Sant’Elpidio, fascia costiera tra Fermano e Civitanovese, ha messo su un Risorgimarche per far cantare i grossi nomi, i Bersani, le Mannoia, i De Gregori, i Ruggeri ed altri, tutti all’interno di percorsi naturalistici, “concerti ecosostenibili” li chiamavano, e hanno assistito, gratuitamente, in decine di migliaia, al punto che è stata subito annunciata una seconda edizione l’anno prossimo. Ce ne sarà bisogno, e chissà di quante edizioni ancora. Le Marche da questo terremoto hanno ricevuto uno sfascio senza precedenti e nessuno, al di là dei proclami e della volontà, sa se riusciranno a risollevarsi. Anche perché è forte la volontà, in chi è rimasto immune, di distinguersi. Ancora in aprile, i commercianti della parte nord, Pesarese e Anconetano, avevano fatto pubblicare sui giornali un appello per i turisti: quest’estate venite, state tranquilli, che qui il terremoto non c’è stato. E, fuori dal taccuino, circolavano lettere nobili: «Bisogna far passare il messaggio che gli sfigati sono quelli di più».

I TEMPI DELLA RI-ESISTENZA. Quanto tempo ci vuole per ri-esistere? Dieci anni? Venti? Ma qui la gente è andata via, si è dispersa, sparpagliata e non tornerà. I vecchi muoiono. I giovani crescono e dimenticano, si radicano, che ci tornano a fare in quel silenzio di sudario? «Ma tu pensi che alla fine ce la facciamo, con tutto ‘sto po’ po’ di roba che organizziamo, che mettiamo in cantiere, artisti che facciamo venire, e palchi e banchetti e salsicce e concerti?». «Mah, che cazzo vuoi che ti dica, ci proviamo, poi sarà quel che Dio vuole». Per ora, Dio vuole, se gli piacerà, un altro festival a San Ginesio, il primo ottobre: #Risorginesio è in cantiere, i nomi ci sono ma per il momento non si svelano. Anche questo è sentirsi vivi, in attesa di rinascere.

UN ANNO CHE PESA COME DIECI. Un anno che ha pesato come dieci, come cinquanta. La gente viene agli spettacoli, si diverte, è felice per un giorno, ma poi manca l’acqua, riapre quel vicolo e quell’altro no, tarda a poter tornare in casa e allora torna a incazzarsi, perché l’esasperazione ha travolto ogni controllo e il dolore scava, scava. E può succedere, a un anno esatto, questione di poche ore, che a Ischia un altro scrollone faccia nuove macerie, morti, dispersi e nuove vittime a vita, anche quelli che restano vivi. Un terremoto te lo porti dentro, la sensazione dello sfollato è un trauma senza ritorno. C’è il vecchietto di prima, ha smesso di camminare, ha posato il bastone contro il muro e ha posato se stesso contro la soglia della tabaccheria, una nicchia sotto un palazzo incerottato che pare reggersi sulle spalle di quest’uomo troppo cambiato in un solo anno.