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Ruanda, il voto premia ancora l’autocrate venerato dal popolo

5 Agosto 2017

Kagame ha cambiato la Costituzione per restare al potere e censura i rivali. Ma hutu e tutsi vogliono sempre lui: il comandante che ha fermato il genocidio nel ’94, dato diritti e potere alle donne e migliorato il Paese.

Lunghe file si sono viste a Kigali per le terze Presidenziali del Ruanda dal genocidio del 1994. Sulle schede i candidati ammessi erano tre ma, come da previsioni, in corsa per il voto del 4 agosto 2017 ce n’era anche stavolta uno solo: il presidente uscente Paul Kagame, rieletto a maggioranza bulgara perché idolatrato dalla stragrande maggioranza dei quasi 12 milioni di ruandesi. Hutu o tutsi, la minoranza di Kagame, non importa e questo è un bene: dopo i terribili 100 giorni tra l’aprile e il luglio 1994, con si stima fino a 1 milione di ruandesi, tutsi e qualche hutu moderato, massacrati dagli hutu, chiunque inneggi al razzismo e alle divisioni etniche come avveniva in radio ormai più di 20 anni fa viene escluso dalle liste elettorali e anche dalla politica.

COSTITUZIONE MODIFICATA. Il male è che nel tranquillo e benestante Ruanda odierno – l’ex colonia tedesca (e poi belga) è chiamata la Svizzera d’Africa non soltanto perché è montuosa, lontana dal mare e ancora più piccola della confederazione elvetica – non c’è democrazia: eletto nel 2003 e nel 2010 con oltre il 90% dei voti, il 60enne Kagame si è potuto ricandidare per un terzo mandato grazie al sì plebiscitario (98%) alle modifiche costituzionali del referendum da lui indetto nel 2015 per restare al potere in teoria fino al 2034, di certo con l’ultimo trionfo fino al 2024. Il presidente e leader del Fronte patriottico ruandese (Fpr) è molto criticato dalla comunità internazionale anche per la mancanza di contraddittorio politico. Prima, durante e dopo le elezioni.

Sui social network Kagame è attivissimo, ma in Ruanda non esiste la libertà d’espressione. Per le Presidenziali del 2017, la Commissione elettorale ha vietato la propaganda sui social media e anche l’affissione di manifesti in molti luoghi pubblici: così l’unico candidato ad avere fondi e mezzi per una vera campagna elettorale è stato, ancora una volta, il capo di Stato uscente Kagame. I suoi giovani sfidanti fittizi, il leader dei Verdi Frank Habineza e l’ex giornalista e in politica da indipendente Philippe Mpaymana, sono rimasti nell’ombra. Ma ai ruandesi va bene così: per tutto il processo di normalizzazione dal voto sulla nuova costituzione, alle Presidenziali, all’ultimo referendum l’affluenza tra i quasi 7 milioni di aventi diritto ha oscillato tra l’87% e il 97%.

LIBERATORE DAL GENOCIDIO. La quasi totalità dei votanti ha dato, con medesime percentuali, pieno mandato ad agire al capo delle milizie tutse Fpr (di fatto diventate partito unico), poi ministro della Difesa e vice-presidente, infine presidente dell’esecutivo di transizione Kagame: l’uomo forte capace di ridisegnare l’identità del Ruanda post genocidio, stabile e in costante progresso economico, riportando prima di tutto la civiltà nel piccolo Stato africano grazie alla deposizione, nel 1994, del governo hutu mandatorio dei massacri, proprio per mano delle milizie del Fronte patriottico ruandese da lui comandate. Dall’impresa della riconquista Kagame ha assunto un ruolo salvifico, quasi sacro, per molti ruandesi: «Tora Kagame», «Vota Kagame» è lo slogan indiscusso che ha imperversato sui gadget.

Cavallo di battaglia dell’ultima campagna del presidente è stata la promozione delle donne, tra i punti chiave del suo programma. Il Ruanda, che dal 2000 ha un Pil in crescita in media quasi dell’8% l’anno, vanta il record mondiale di donne – il 70% dei sopravvissuti alla carneficina di 23 anni fa – in Parlamento: oltre il 60% delle deputate, rispetto al 15% precedente al genocidio. La pace odierna nella «terra delle mille colline», altro appellativo ameno di luoghi all’estero ancora comunemente associati all’orrore, si deve proprio all’opera di tessitura e riconciliazione tra famiglie delle ruandesi, vittime delle peggiori violenze nella guerra civile e artefici della rinascita. La nuova Costituzione ha dato parità loro di diritti e opportunità ed eque retribuzioni.

IL POTERE ALLE DONNE. Ma a Kagame le ruandesi chiedono più potere effettivo al governo e nelle amministrazioni locali, soprattutto nelle zone rurali in larga parte ancora dominate dagli uomini. La ricetta per la ricostruzione del tre volte presidente è stata un mix di apertura agli investimenti, anche finanziari, stranieri, con privatizzazioni e liberalizzazioni, e di investimenti statali per le infrastrutture, le nuove tecnologie (il Ruanda viene anche chiamato la Silicon Valley africana) inclusa la fibra ottica, l’istruzione pubblica e maggiori coperture sanitarie. La povertà resta molto diffusa al 40%, come la mortalità per malattie infettive come la malaria, ma in calo rispetto al 60% del 1994. Il Ruanda è poi ancora largamente dipendente dagli aiuti esteri, per la scarsità di materie prime e l’economia di conseguenza a vocazione agricola di piantagioni soprattutto di caffè.

Ma nella Visione 2020 di Kagame, il suo piano di sviluppo confezionato dagli advisor chiamati da grossi Paesi emergenti come la Cina e Singapore, si punta a creare turismo e non facili attività, anche industriali, sostenibili. Il tasso di corruzione è comunque tra i più bassi dell’Africa, dove il Ruanda è un modello anche per l’energia pulita e la raccolta differenziata. Dai 400 dollari in media del 1994, il reddito medio pro capite è salito ai quasi 2.100 dollari del 2017, secondo i dati del Fondo monetario internazionale (Fmi). Con Kagame l’età media di sopravvivenza è migliorata dai 55 ai 62 anni, la mortalità infantile risulta dimezzata dai oltre 100 ai circa 50 bambini al di sotto dei 5 anni su 1.000 nati: la libertà di stampa e di espressione, insomma, può attendere.

RAZZE “CREATE” DAI BELGI. Soprattutto, tra la popolazione sta scomparendo l’odio instillato dalla distinzione artificiale “razziale” tra hutu e tutsi, creata dai colonizzatori belgi per rendere fragili e sottomessi il Ruanda e il vicino Burundi, sfociata poi dopo l’indipendenza nel genocidio. Gli allevatori tutsi, il 15% della popolazione, sono stati convinti di essere fisicamente più alti, intelligenti e di conseguenza di status socialmente più elevato degli agricoltori hutu. In realtà, per la maggioranza degli studiosi attuali non v’era differenza somatica, genetica, religiosa né linguistica tra hutu e tutsi, pur continuando i ruandesi a definirsi tali. La carneficina del 1994 dilagò proprio dall’uccisione del presidente hutu Juvenal Habyarimana: per la maggioranza degli hutu un tentativo dei tutsi di prendere il potere.