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Palestina, il gatto e il topo e i bambini in trappola


di Antonietta Chiodo, 15 agosto 2017. Si dice che gli incubi peggiori si muovano
silenziosi nel buio e indossino divise militari sfuggendo con passi leggeri
lungo l’asfalto.  Questa notte nel
villaggio neanche il suono del motore del blindato distrae. Il mezzo resta
fermo nella notte accanto ad un lampione dalla luce fioca, l’uomo è in assetto
di guardia e ad ogni suo movimento sembra conti i passi, tre avanti, uno di
lato e di nuovo tre indietro, senza mai spostare la visuale dalle case, con il
mitra  sotto braccio e la canna tenuta ad
altezza d’uomo pronta ad interrompere la quiete. Neanche una mosca vola, il
silenzio sembra quasi chieda di essere spezzato da un boato, un grido o un
lamento, mentre da dietro una tenda un bambino, uno dei tanti, grazie al suo
telefono cellulare riprende la scena. 

Resta attento a non fare il minimo rumore e a
tenere la mano ferma sperando che nessuno possa vederlo. Questo bambino ha
paura, paura di quello che si troverà a documentare inconsapevolmente, il militare
abbassa il mitra e si avvicina al portellone, aprendolo con estrema facilità
senza fare il minimo rumore.
Dal buio di una strada che scompare dietro
l’angolo di una grande casa bianca ne appaiono improvvisamente altri due a
passo spedito, tenendo sottobraccio un ragazzino ammanettato che cerca di stare
al ritmo del passo, lo spingono in un automezzo abbassando il capo del minore
con il palmo della mano e pochi secondi dopo il portellone sul retro si chiude
violentemente.
Come gatti nella notte si muovono leggeri, col
cenno di un braccio. Uno di loro indica ad una seconda pattuglia poco distante che
è tutto a posto, il silenzio si scioglie sotto il rombo dei motori e i veicoli scompaiono
lungo le strade asfaltate dileguandosi tra le curve, portando via un altro
frammento di libertà, una scheggia di vita di poco più di tredici anni.
In Cisgiordania ciò che può sembrare la trama
di un film d’azione è in realtà all’ordine del giorno. Qui i bambini sono tra i
primi a cadere tra le grinfie dei militari israeliani senza una formale accusa
ed una logica precisa.
Questa notte è toccato a lui, domani potrà
essere la mia sorte, pensano tutti qui. Il progetto de la Pace dei Bimbi ha scelto
un villaggio tra Betlemme e Hebron, dove le incursioni ed i rapimenti a danno
di bambini sono all’ordine del giorno.
Per  due
mesi abbiamo scritto storie inventate da noi, con il limite iniziale di questi
bambini di non sentirsi liberi e con la paura di poter essere giudicati. In
questo senso la mediazione del loro insegnante Omar si è rivelata fondamentale.
Trovarsi infatti di fronte ad una giornalista in un primo momento è stato un
gioco forza tra la voglia di fidarsi e l’impossibilità di poterlo fare. I
giorni sono passati ed i loro sorrisi hanno cominciato a prendere vita, come
quello del piccolo esile Raiyed, arrestato pochi giorni fa senza accusa,  trascinato via  da casa sua e strappato dalle braccia della
sua famiglia.
Rayied come tanti altri ha passato 24 ore in
carcere con alle spalle l’unica colpa di avere il cognome della famiglia legato
ad un passato nella resistenza. Ricordo che durante i nostri incontri il
bambino di soli tredici anni raccontava di stelle ed indimenticabile per me
ancora oggi la sua risata mentre immaginava una storia fantastica che narrava
di una luce azzurra che lo avrebbe trasportato su di un altro pianeta. Un
pianeta di pace e di animali magici.
Raiyed sa bene che non sarà l’unico suo
viaggio in carcere, che ci saranno molte altre visite come questa nel corso
della sua vita, perché distruggere psicologicamente un bambino obbligandolo a
vivere nella paura sappiamo bene risulta più letale di qualsiasi pallottola. Durante
il mio soggiorno non sono stati rari i momenti in cui con il maestro Omar ci siamo
visti costretti ad utilizzare strade di fortuna a causa dei blocchi intorno al
villaggio per il lancio di una o tre pietre da sotto l’ombra degli ulivi che
circondano le case. Tenuti come topi in gabbia, mentre i gatti subdoli e
protetti dalla loro  illegalità
umanitaria giocano a dadi con queste vite e sentire la loro paura alimenta questo
bisogno di potere ed ingiustizia.
Racconta privatamente un uomo di nome Shraeh che
solo in questi ultimi giorni sono stati prelevati dalle proprie abitazioni tre
bambini tra gli undici e i tredici anni, narra inoltre  del fratello che si trova ancora oggi nelle
carceri israeliane dopo 16 anni, senza essere riuscito ad ottenere il permesso di
visita familiare. Un innegabile diritto che può materializzarsi nel semplice
gesto di poter osservare i suoi occhi e potergli così sorridere o verificare il
suo stato di salute come lo si fa in un paese che si dice democratico.
Vi sono luoghi nel mondo più colpiti di altri,
ma spesso qui i ragazzini vengono tacciati per la loro poca attenzione nel tutelare
la propria vita, sembra quindi normale immaginare un militare infierire con dei
proiettili nel petto di un adolescente per il lancio di una pietra, sentire parole
di supporto ai soldati delineano personalmente ad oggi la tragica fine dei
diritti umani. Ormai infatti il mondo intero ha scelto la globalizzazione sostituendo
così il denaro al reale valore della vita e dell’innocenza.