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Pakistan, il potere militare dietro le dimissioni di Sharif

18 Agosto 2017

La longa manus delle forze armate pakistane continua a determinare le vicende politiche dei Governi del Paese

È stata l’accusa di corruzione, arrivata tramite la corte suprema pakistana, a determinare le dimissioni dell’ultimo Primo Ministro pakistano Nawaz Sharif. Se una parte del Paese e dell’opinione pubblica ha visto in questo atto un passo avanti per il Pakistan nella sua lotta alla corruzione – male inestricabile all’interno delle istituzioni pakistane – altri hanno invece portato i riflettori su un aspetto caratteristico dell’amministrazione del Paese: l’influenza dei militari nella sua politica.

Le indagini della corte erano partite nel 2015, in relazione alla pubblicazione dei Panama papers. Nei documenti che svelavano società e conti offshore di numerosi personaggi pubblici, comparivano i nomi anche dei familiari del Primo ministro pakistano – non il suo nome, tuttavia– e le aziende a loro legate erano state utilizzate per l’acquisto di proprietà ed appartamenti di lusso, fra cui quattro a Londra. Svolte le adeguate indagini e constatata l’impossibilità di definire la provenienza dei soldi utilizzati per le società offshore, la corte suprema ha dichiarato inammissibile il ruolo di Sharif come Primo ministro ed invocato le sue dimissioni, arrivate in seguito, nonostante Sharif si sia sempre dichiarato estraneo ai fatti.

Si tratta della terza volta in cui Nawaz Sharif viene sollevato dal suo incarico da Primo Ministro. Era già successo nel 1993, quando apparati militari lo avevano costretto a rassegnare le dimissioni, e nel 1999, anno in cui era stato deposto da un golpe guidato dal generale Parvez Musharraf. Dopo aver trascorso un periodo in esilio in Arabia Saudita, Sharif tornò nel 2007, e nel 2013, dopo aver vinto le elezioni legislative, venne incaricato per formare il nuovo Governo. Il tre volte deposto Primo ministro avrebbe completato l’anno prossimo il suo mandato, un fatto che sarebbe stato eccezionale, considerando che mai un civile eletto, in Pakistan, è riuscito a farlo in tutta la storia del Paese.

È proprio per questo che in molti, più che vedere una vittoria di civiltà nel suo allontanamento, hanno invece puntato il dito sul ruolo sempre focale che rivestono le forze militari per i destini del Paese. Benché la delegittimazione di Sharif sia arrivata da un organismo terzo e autonomo, come la corte suprema, cioè il potere giudiziario pakistano, voci critiche hanno evidenziato come la stessa corte si sia pronunciata senza avere in mano prove certe sulla corruzione della famiglia Sharif, e tirando in ballo la violazione della Islamic injunction, ovvero la non conformità del comportamento del Ministro al canone e alla legge islamica previsti dalla Costituzione. Se questa motivazione è stata spesso usata per bloccare e regolamentare pratiche diverse, come anche il settore bancario e la finanza, a nessun capo militare che si sia mai trovato alla guida del Pakistan è stata mossa tale accusa.

Altri sospetti sull’effettiva autonomia del potere giudiziario pakistano derivano dal fatto che la corte suprema ha sempre appoggiato e mai mosso accuse di violazione della Costituzione verso qualsiasi Governo militare del Paese. Un aspetto che ha allarmato parte del Paese, e che ha visto nell’evocazione della Islamic injunction da parte della corte uno strumento per delegittimare il voto popolare. Ulteriore argomento portato a testimonianza di questo è il ruolo che ha avuto il Joint Investigation Team nell’indagine dei Panama Papers.

Il JIT è un organismo che viene in aiuto dei Governi di tutto il mondo, attraverso la cooperazione con agenzie investigative internazionali, solitamente per casi di crimini che coinvolgono più Paesi. Nel caso Pakistan, ad aprile la corte suprema si era rivolta a questo organismo, non riuscendo a determinare effettive accuse di corruzione verso Sharif. Oltre alla stranezza di rivolgersi al JIT per un caso di corruzione verso il Primo ministro di un Paese, molto scetticismo ha provocato la nomina di due personalità – su sei -,  all’interno del JIT, strettamente legate all’apparato militare. Muhammad Nauman Saeed, direttore di una branca dell’Inter-Service Intelligence, organismo di intelligence pakistana dipendente dalle forze armate del Paese, e Kamran Khurshid, della Military Intelligence pakistana.

Il rapporto stretto fra militari e politica è una lunga eredità della storia del Paese, risalente al periodo precedente la formazione del Pakistan dopo la separazione dall’India. La concessione di appezzamenti di terra ai militari del Punjab da parte degli inglesi in periodo coloniale, insieme alla mancanza di una popolazione civile adeguatamente istruita, portò i militari, fin dal 1947, ad accumulare ricchezza e ad entrare nelle istituzioni del Paese. I disordini successivi l’indipendenza, una classe politica corrotta e inefficiente e situazioni di incertezza sociale furono altri elementi che determinarono un accentramento di potere nelle mani dei militari, sempre più coinvolti dai politici stessi nel sedare rivolte di tipo etnico e religioso. Sebbene ci siano stati tentativi di ricondurre il potere militare sotto quello politico, chiunque abbia provato a farlo si è dovuto sempre arrendere all’intervento delle forze armate. Così successe a Z.A. Bhutto, deposto da un golpe nel 1977, a sua figlia Benazir, e allo stesso Sharif, tutti colpevoli di voler tenere tra le loro mani le redini dell’apparato militare pakistano. Il dissenso di tali personaggi politici nel lasciare piena autonomia ai militari in settori come quello nucleare, delle spese militari e delle politiche regionali ha sempre portato alla loro deposizione, in un modo o nell’altro.

La stretta correlazione fra esercito e politica si è intrecciata con il sempre più affermato potere economico delle elite militari. Nei decenni passati, pratica comune in Pakistan è stata quella di affidare agli anziani militari in pensione ruoli chiave all’interno del settore pubblico e in compagnie sussidiarie del Governo. E non solo. La loro penetrazione nel sistema è avvenuta anche grazie ad iniziative imprenditoriali nel settore del welfare, nate come sostegno proprio per i militari in pensione e sempre più allargate verso ambiti diversi, fino a diventare i più importanti conglomerati affaristici del Paese.

Per quel che riguarda Sharif, un forte attrito del suo Governo con i militari era venuto fuori a seguito dei cosiddetti Dawn Leaks. Nell’ottobre 2016, il quotidiano Dawn venne fuori con un articolo in cui riportava l’incontro top-secret fra rappresentanti del Governo pakistano e delle forze militari. In questo contesto, i delegati del Governo lamentavano lo scarso impegno nella lotta al terrorismo da parte delle forze militari, colpevoli di non agire adeguatamente contro i gruppi armati e determinando l’isolamento internazionale del Pakistan. Un caso che ha scosso l’opinione pubblica del Paese e messo in luce la scarsa affinità fra le due forze al potere in Pakistan. Un rapporto controverso anche in virtù della volontà di Sharif di arrivare ad una distensione nei rapporti con l’India, questione non certo ben vista dai capi militari del Paese.

La vicenda che ha portato alla definitiva rinuncia da Primo ministro di Sharif è stata vista come la ovvia conseguenza di un potere disposto ad andare contro gli alti comandi armati pakistani. L’avvicinarsi delle nuove elezioni del 2018 e la possibile riconferma di Sharif a capo del Paese era ciò che preoccupava maggiormente gli alti comandi. Come alcune voci sostengono, la deposizione di Sharif potrebbe rappresentare una delle ultime armi utilizzate dalle forze armate per provare a conservare il proprio potere. Un potere che, seppur ampiamente consolidato e ben radicato nelle istituzioni del Paese, sta andando incontro, negli ultimi anni, ad una graduale riduzione. Una coscienza pubblica ed una rappresentanza civile più attiva stanno, in qualche modo, erodendo il ruolo dell’esercito, che, tuttavia, e ancora una volta, ha utilizzato la propria influenza per evitare che nel Paese si potesse avviare un vero e proprio cambio di rotta, in grado di riportare l’amministrazione del Paese nelle mani delle istituzioni democratiche.