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Migranti ambientali, una realtà ‘sommersa’

17 Agosto 2017

Dove confluiscono ambiente, sviluppo e migrazione? Un fenomeno poco discusso e studiato da tempo, destinato a crescere rapidamente

Poco più di un mese fa, al G20 di Amburgo, il premier Paolo Gentiloni ha richiamato la consapevolezza della distinzione tra rifugiati e migranti ‘economici’, laddove la linea di scrimine rimanda a una realtà socio-politica, a povertà diffusa e conflitti, a storie personali, tutte cause prime – o ultime – della partenza da un paese terzo verso l’Europa. La complessità delle cause, però, rimane.

Le categorie alle quali si ricorre, a dispetto del distinguo caro al Presidente francese Emmanuel Macron, sono sfumate e non sembrano aiutare nel dare un’idea dei fattori di mobilità che interessano migliaia di persone richiedenti la tutela internazionale o la cittadinanza all’interno dell’Unione Europea.  Al summit tedesco, le due maggiori defezioni hanno interessato la lotta al traffico di esseri umani, peraltro definita prioritaria dal Presidente del Consiglio europeo Donald Tusk nelle osservazioni preliminari, e un’apertura solidale – auspicata, ma disattesa – degli Stati membri verso l’Italia sulla questione migratoria; mentre l’agenda sul clima, malgrado l’irreversibilità dichiarata dell’Accordo di Parigi, non ha comportato significative prese di posizione dopo l’abbandono degli USA, che sono anche riusciti a inserire nelle conclusioni la clausola sui combustibili fossili.

In proposito, è interessante notare come due aspetti, la crisi migratoria e il mutamento climatico, siano trattati distintamente e come si eviti – quasi si trattasse di un azzardo – il collegamento tra questi fenomeni. Il fattore ambientale, inteso in senso ampio, è forse il più potente motore attuale di mobilità e potrebbe risultare difficile qualificare come ‘infondati’ o ‘insufficienti’, rispetto alle condizioni che soddisfano una domanda di protezione internazionale, i motivi che hanno spinto a fuggire da contesti che non permettono, per varie circostanze, di sopravvivere. Fattore umano e ambientale si intersecano, perché il dato geografico e quello ambientale sono stati condizionati, soprattutto nel corso del XX Secolo, dalle attività antropiche e dai conflitti di potere ad esse inerenti.

Nel caso africano, come afferma Giacomo Franceschini, Direttore dei Programmi dell’Ong umanitaria Intersos, «in totale sono 20 milioni le persone, sparse principalmente tra Yemen, Somalia Sud Sudan e Nigeria, che stanno affrontando una gravissima crisi alimentare che non si spiega solo con la siccità». Nel Sud Sudan, l’assenza dello Stato e una situazione di conflitto permanente hanno portato a un progressivo abbandono di aree rurali inabitabili: «con la guerra la popolazione non coltiva più la terra, si sposta continuamente all’interno dei territori in cerca di un luogo protetto, è estremamente vulnerabile». Significativa, nell’individuazione delle cause, è la differenza tra ‘processo’ ed ‘evento’: «Dopo un terremoto ti svegli da un momento all’altro sotto le macerie; questa crisi invece era stata prevista».

Intanto, nel monitoraggio gestionale dei flussi, la variabilità numerica è il primo aspetto considerato dal discorso ufficiale. Parlando in cifre, secondo il Cruscotto statistico del Ministero dell’Interno nell’arco di 2 mesi si è registrato un forte calo, passando da 23.526 persone sbarcate a giugno sulle nostre coste a 11.459 nel mese di luglio, mentre al 16 agosto siamo a quota 2019. Per luglio e agosto il numero si abbatte sensibilmente, sia rispetto al 2016 (che conta un totale di 181.436 arrivi) che ai mesi scorsi, soprattutto rispetto al periodo compreso tra aprile e giugno. Dall’inizio del 2017, su un totale di 97.322 persone, i Paesi di provenienza sono, in gran parte, Stati dell’Africa subsahariana occidentale, con la Nigeria al primo posto (16.562), seguita da Guinea (8.726) e Costa d’Avorio (8.132), mentre un flusso consistente proviene dal Bangladesh (8.728). Altri Paesi africani interessati sono l’Eritrea (5.592), il Sudan (4.909) e il Marocco (4.638).  Si tratta, beninteso, di dati raccolti in base alla nazionalità dichiarata, con 23.308 individui ancora in fase di identificazione. Per quanto attiene ai ricollocamenti, regolati dal sistema di procedure concordato con la Commissione europea e teso a evitare la c.d. «mobilità secondaria», la Germania si stacca dagli altri Paesi con un totale di 3215 persone, seguita da Norvegia (816), Svizzera (751), Paesi Bassi (714) e Finlandia (707), mentre La Francia ha accolto 330 richieste – un tono basso mantenuto anche dal Belgio (259) e dalla Spagna (168).

Il problema del numero sembra, al momento, attenuarsi parzialmente. A livello di governo, si imputa l’inversione di tendenza all’efficacia del «Codice di condotta» imposto alle Ong e ai risultati della missione libica intrapresa dal Ministro dell’Interno Domenico Minniti (esternalizzazione della gestione e cooperazione con il Governo libico di Accordo Nazionale). Tuttavia sorgono almeno due domande. La prima: a tacere delle violazioni di diritti umani attestate dall’UNHCR e da altri soggetti indipendenti, qual è il livello di saturazione dei centri di detenzione libici?  Ed ecco la seconda domanda: considerando la variabile ambientale in termini estensivi – non solo climatica, ma inerente a tutti gli aspetti che condizionano lo spazio vitale delle persone fisiche – siamo proprio sicuri che la differenza tra migranti economici e rifugiati sia uno strumento utile, da un lato, a controllare il fenomeno e, dall’altro, ad attribuire o negare accoglienza e protezione? Ciò risulterebbe quantomeno paradossale ritenendo la validità del principio secondo cui l’integrazione sociale e il radicamento negli Stati europei può ben realizzarsi attraverso l’occupazione (principio assunto a fondamento della campagna «Ero straniero», promossa da Radicali Italiani insieme a diverse associazioni per superare i limiti della Legge «Bossi-Fini»).

Ci sono situazioni economicamente disastrose per cause indotte da rapporti di forza che modificano lo spazio abitato. Oggettivamente, le ragioni di protezione e accoglienza per persone provenienti da contesti fragili o vulnerabili possono essere comparate a quelle riconosciute per chi arriva da situazioni di conflitto o di persecuzione. Il discorso sui migranti ambientali può contribuire a chiarire questo ravvicinamento.

Ad Amburgo si è ribadita la consapevolezza della distinzione tra rifugiati politici e migranti economici. Dietro queste due categorie, che nel discorso politico non sembrano porre particolari problemi interpretativi, il tertium genus dei migranti ambientali occupa una zona grigia. Dove entrano, per così dire, ‘in agenda’ questi soggetti? Sicuramente nei vari Accordi sul clima, prima che nel capitolo sulla crisi migratoria onnipresente ai vari tavoli di vertice. Per questa categoria, piuttosto criptica nel discorso pubblico eppure studiata da tempo da geografi umani e scienziati ambientali, prevale il fattore oggettivo (il clima che cambia, la catastrofe) sul soggetto, che è connotato nelle sue scelte da eventi ‘naturali’. A ben vedere, ciò che ancora manca è una correlazione esplicita fra i processi che interessano l’ambiente, lo sviluppo socio-economico e le migrazioni.

Nei lavori di Norman Myers, analista e co-fondatore del movimento ambientalista britannico, l’aspetto ambientale è scomposto in una serie di circostanze e processi che possono incidere in varia misura sulla scelta di emigrare: la riduzione di opportunità economiche, un contesto locale reso fragile da eventi climatici o da stress ambientale, una serie di conflitti provocati da un minor controllo sulle risorse e sulla terra, fino alla loro totale indisponibilità. In tutti questi casi, l’aspetto politico condiziona l’accesso a beni e risorse tanto quanto l’evento o il fenomeno naturale. Inoltre, come affermano altre ricerche relative a contesti del Sud-est asiatico, lo sviluppo può, in certi casi, inibire la mobilità o, al contrario, favorirla, dato che è impossibile muoversi in stato di assoluta povertà (salvo che – pensiamo al traffico di esseri umani lungo le rotte migratorie – si ricorra alla contrazione di un debito difficilmente estinguibile).

Dietro il fattore ambientale si nascondono cause tra le più diverse, e ciò ricade sull’indeterminatezza definitoria e sulla varietà di denominazioni: ‘eco-migrante’, ‘profugo ambientale’ (adottata, ad esempio, da Legambiente), ‘rifugiato ambientale’, ‘migrante ambientale forzato’, ‘sfollato ambientale’…   Il primo a impiegare l’espressione «rifugiato climatico» è l’ambientalista statunitense Lester R. Brown, che in un contributo del 1976 fa riferimento a un tipo di mobilità forzata causata da eventi climatici estremi. Questa apparente semplicità concettuale, non aiuta a fornire una definizione attendibile perché rinvia a status e realtà sociali difficilmente circoscrivibili entro una categoria univoca.

L’indeterminatezza nella definizione porta con sé l’incognita numerica: quante sono queste persone? Lo stesso Myers affermava, a metà anni Novanta, che da una base di circa 25 milioni di «rifugiati climatici» si sarebbe arrivati, nel 2050, a 200 milioni di persone. La stima è attualmente aggiornata dall’UNHCR, con un rialzo minimo di un quarto: almeno 250 milioni previsti nel 2050, con una media di 6 milioni ogni anno.

A questo punto, riportiamo la definizione offerta dall’«Organizzazione Internazionale delle Migrazioni» (OIM): «I migranti ambientali sono persone o gruppi di persone che, a causa di improvvisi o graduali cambiamenti nell’ambiente che influenzano negativamente le loro condizioni di vita, sono obbligati a lasciare le proprie case, o scelgono di farlo, temporaneamente o permanentemente, e che si muovono all’interno del proprio paese o oltrepassando i confini nazionali». A questa definizione è stato aggiunto dell’OIM il caso relativo a chiunque decida di partire per il fondato timore di un deterioramento delle condizioni ambientali in cui si trova a vivere.

Da ciò discendono 3 diverse tipologie di migrante ambientale riferibili a: chi emigra temporaneamente a causa di un disastro ambientale che ha colpito il suo contesto abitativo (environmental emergency migrant);  chi si vede costretto a partire per il deteriorarsi delle condizioni ambientali (impoverimento o distruzione delle risorse naturali e degli ecosistemi: deforestazione, inquinamento, estinzione di alcune specie, salinizzazione – environmental forced migrant); chi è spinto da un processo critico in atto e sempre più intenso, come la desertificazione di una regione agricola, diventando un ‘migrante economico forzato’ (environmentally induced economic migrant). Proprio quest’ultima tipologia ripropone la questione, eminentemente politica: come si distinguono gli emigranti economici tout-court dagli emigranti economici forzati? La questione è a dir poco attuale, se pensiamo che non esiste una disciplina giuridica ad hoc per questi soggetti, ‘riassorbiti’ nel discorso di tutela dall’ambiente che, a partire dalla Conferenza di Stoccolma organizzata dall’ONU nel 1972, incontriamo nei trattati e negli altri strumenti internazionali.

Come ha sottolineato Fernanda de Salles Cavedon, rappresentante alla COP21 del dicembre 2015 per la «Rete Sudamericana per le Migrazioni Ambientali» (RESAMA), l’Accordo di Parigi contiene, nel suo testo, il riferimento ai diritti di chi emigra in quanto vittima degli effetti del cambiamento climatico. Tuttavia, la previsione di un organismo di coordinamento per la mobilità ambientale, contenuta in diverse versioni precedenti, è stata disattesa nella versione definitiva del documento, che menziona solo le perdite e i danni subiti dai diretti interessati.

Secondo un Report del 2016 pubblicato dall’«Internal Displacement Monitoring Centre» (del «Consiglio norvegese per gli sfollati», con sede a Ginevra) nel 2015 i disastri ambientali hanno prodotto 19,2 milioni di sfollati in 113 Paesi del mondo, soprattutto nel Sud-est asiatico. Ogni giorno, nel 2015, 66.000 persone hanno abbandonato i propri luoghi d’origine pur restando all’interno del proprio Paese: l’equivalente di circa due terzi dei rifugiati ospitati in un anno dall’Italia.

Gli sfollati ‘interni’ sono migranti ambientali: è una questione di frontiere. Eppure, potranno essere qualificati migranti ambientali ‘potenziali’? È quanto sembra suggerire il quadro tracciato dall’ Iniziativa Nansen, che nella sua Agenda di Protezione ha attestato, tra il 2008 e il 2014, uno sradicamento per cause ambientali di oltre 184,4 milioni di persone. Parte di esse non è stata colpita da disastri improvvisi dipendenti dal meteo o dal clima, ma hanno dovuto fuggire per l’innalzamento del livello delle acque marine, la desertificazione e altre forme di degrado ambientale.

Gli scienziati, da parte loro, prevedono per il futuro prossimo un aumento esponenziale dello sradicamento dovuto al mutamento climatico, combinato con altri fattori. I Paesi più coinvolti continuano a essere quelli dell’Asia orientale e meridionale (India, Cina, Nepal) e dell’Africa (soprattutto Sahel e Paesi del Corno).