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I super-ricchi crescono, e vengono dall’Oriente

21 Agosto 2017

“I ricchi europei sono più cauti mentre i ricchi cinesi hanno la possibilità di rischiare di più”

Non ci sono più i super ricchi di una volta. Quelli di oggi non vengono più dalla vecchia Europa, ma dall’Oriente, e nello specifico dal continente asiatico.

In termini di ricchezza famigliare, la Cina è attualmente al terzo posto, dietro gli Stati Uniti e il Giappone a sostenerlo è l’ultimo rapporto annuale sulla ricchezza di Credit Suisse.

Prima però di capire come investono e in che settori andrà la loro ricchezza, occorre fare una premessa. Un Paese in cui le esportazioni sono maggiori delle importazioni, acquisisce crediti verso il resto del mondo, cioè forma flussi di capitale in uscita. Quindi diventa un Paese finanziatore del resto del mondo. Oggi, Germania, Cina, Giappone sono in questa situazione.

Al contrario, un Paese che importa beni e servizi più di quelli che esporta, accumula debiti verso l’estero, cioè riceve finanziamenti dal resto del mondo che appaiono come flussi di capitale in entrata. Gli Stati Uniti, ad esempio, sono da tempo in questa situazione.

Riccardo Fiorentini, professore di economia politica all’università di Verona, ci parla brevemente del controllo dei capitali:

“Dopo la Seconda Guerra Mondiale, fino agli anni ’70 del 900, il sistema monetario finanziario internazionale era basato sul sistema di cambi fissi di Bretton Woods. Per tutto quel periodo i movimenti internazionali di capitale erano limitati, e i paesi adottavano controlli e limitazioni sui flussi di capitale. Quando ci fu il crollo del sistema monetario mondiale di Woods, cambiò tutto.

Dopo le crisi petrolifere degli anni Settanta e la crescita dell’inflazione in molti paesi, negli anni Ottanta avvenne un cambiamento politico rilevante. L’elezione di Reagan negli Stati Uniti e della Thatcher nel Regno Unito portò all’affermazione del pensiero ‘neoliberale’, ossia si riteneva che per migliorare l’economia fosse necessario ridurre l’intervento dello Stato nell’economia”.

Possiamo, quindi, dividere gli ultimi 60 anni in due periodi: il primo, fino al 1980, è caratterizzato da controlli e limitazioni generalizzati; il secondo, dopo il 1980, caratterizzato da una fase di liberalizzazione finanziaria e virtuale. Fiorentini ci spiega poi le conseguenze che tali politiche ‘neoliberali’ hanno portato.

“L’eliminazione dei controlli sui movimenti di capitale ha avuti gravi conseguenze nei paesi meno sviluppati, ove negli anni ’90 si sono avute molteplici crisi finanziarie e valutarie (Messico, Argentina, Brasile, Indonesia, Tailandia ecc..). Si è assistito ad un processo di concentrazione della ricchezza e crescita delle diseguaglianze di reddito in quasi tutti i paesi”.

“Gli Stati Uniti, Paese debitore, ricevono finanziamenti da Giappone, Cina e tutti quei paesi che hanno attivi nella bilancia commerciale. Questo avviene perché molti Paesi in via di sviluppo, per evitare di ricadere nelle crisi finanziarie degli anni ’90, ha optato per politiche di sviluppo basate sulle esportazioni verso i Paesi più ricchi”.

È interessante il rapporto economico tra Cina e Usa. Quest’ultimi, da un lato, sono fondamentali come mercato di sbocco della produzione cinese. Dall’altro riescono a consumare oltre il loro reddito grazie ai continui finanziamenti esteri e di questi una parte importante viene proprio dalla Cina che, con il Giappone, è il principale acquirente dei titoli del debito pubblico americano.

Si hanno, quindi, due debolezze: finché non riesce ad espandere la domanda interna, la crescita cinese dipende dalle esportazioni, in sostanza dal mercato americano. Per contro, senza gli afflussi di capitale esteri, gli Stati Uniti dovrebbero ridimensionare il loro tenore di vita.

“La Cina sta peraltro diversificando i suoi investimenti all’estero, acquisendo il controllo di imprese in altri paesi e in particolare investendo nel controllo di fonti di materie prime in Africa, ove offre ai governi fondi per infrastrutture in cambio, ad esempio, dello sfruttamento di miniere”, aggiunge Fiorentini.

A proposito di ciò, secondo Roberto Poli, professore di filosofia della scienza dell’università di Trento, i cinesi hanno un problema rilevante, la densità. “Se le condizioni economiche continuassero a svilupparsi, come si è visto negli ultimi decenni, ‘sfamare’ una popolazione di un miliardo e 400 milioni di abitanti richiede è una bella sfida. Dall’altro lato c’è che essendo un paese con regime politico particolare può permettersi livelli di pianificazione, di scelta di lungo corso che un paese democratico difficilmente potrebbe anche solamente pensare di fare. Ci devono essere quelle condizione di stabilità del sistema di ampia durata che permettano di fare investimenti di lunghissimo corso”.

Come investono questi super ricchi asiatici?

Fiorentini afferma: “Da tempo è in atto una redistribuzione delle attività industriali a livello mondiale con i Paesi “avanzati” (Usa, UE ecc), che stanno spostando la loro specializzazione in settori high-tech e servizi avanzati, lasciando sempre più l’industria manifatturiera tradizionale ai paesi emergenti, dove il lavoro costa meno. Si tratta di una logica conseguenza del principio dei vantaggi comparati secondo il quale ogni paesi a livello internazionale si specializza nei settori dove ha un’efficienza maggiore”.

Dato peraltro confermato anche da Marco Sanfilippo, professore di politica economica all’università di Bari. “I grandi produttori mondiali della rete hanno difficoltà ad integrarsi nel mercato cinese, per via della censura. Il governo, indirettamente, favorisce l’espansione di produttori locali. Gli altri paesi sono dominati da player come Amazon, in Cina si trovano degli equivalenti come Alibaba (sito di vendite online)”.

Secondo Stefano Fait, analista per Skopìa, “molti investitori cinesi più smaliziati si orienteranno su beni resilienti, come le catene di alberghi, i castelli, le cliniche, l’industria cinematografica, le navi da crociera, porti e infrastrutture lungo la Nuova Via della Seta, l’arte non contemporanea, la cosmesi e la ricerca contro l’invecchiamento, lo sport, i vigneti, le foreste, aziende agricole e industria alimentare, banche, miniere e tecnologie estrattive, le imprese emergenti non quotate in borsa in settori chiave come energia, mobilità elettrica e volante, robotica, nanotecnologie, ingegneria genetica”.

A tal proposito dopo la svalutazione nell’estate del 2015 dello yaun, un numero crescente di investitori cinesi ha dimostrato interesse per l’agricoltura australiana. Nel 2009 il governo cinese ha investito circa 35 miliardi di dollari in energie rinnovabili. Entro il 2020 in Cina circoleranno il 7% di auto ibride, rispetto a solo il 2% negli Stati Uniti. Nel 2014 la Cina supera la Francia come il principale consumatore di vino rosso. Si prevede che entro il 2020 diventerà il secondo consumatore di vino al mondo.

Quando chiediamo a Fait se è corretto affermare che una nuova ricchezza si andrà a costituire in Africa e in Europa, egli lo conferma, precisando però che la Cina in quanto governo ha mire più ambiziose. “Sicuramente il Governo cinese sta spingendo affinché il finanziamento della nuova via della seta venga condiviso con i privati. Dalla Cina fino a Londra ci sarà pieno di capitali pubblici e privati cinesi, quindi Asia centrale, Iran, Turchia e probabilmente anche Siria, Europa, soprattutto Germania e infine Italia, in particolare in Sardegna e in Puglia”.

“Sostanzialmente i ricchi europei sono più cauti mentre i ricchi cinesi hanno la possibilità di rischiare di più, in quanto comunque, anche se cadono si risollevano subito. È un continuo rigenerarsi di capitali e questi vanno fatti circolare, mentre da noi è tutto abbastanza congelato ed è deleterio per l’economia”.

Mentre dall’ultimo report di Credit Suisse Frontier Markets emerge che sulla base dei progetti del Fondo Monetario Internazionale previsti fino al 2021, alcuni paesi, in particolare la Costa d’avorio, il Bangladesh, il Kenya e il Vietnam sono in corsa per notevole sviluppo superando la Cina e l’India.