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Egitto, la richiesta di uguaglianza alla base della rivoluzione

31 Luglio 2017

L’analisi dei motivi di una rivolta che ancora oggi non sembra affatto conclusa

Per capire meglio la situazione egiziana odierna, è necessario riprendere il filo di quello che è successo alcuni anni fa. Nel giugno 2011 la popolazione egiziana si è resa protagonista dei moti della Primavera Araba, insorgendo contro il suo presidente Hosni Mubarak e portando alla sua deposizione. Come gran parte delle rivoluzioni, il punto cardine ed elemento fondante del rancore dei cittadini è stato individuato nella disuguaglianza sociale. Quando si fa riferimento a questo concetto, si indicano delle condizioni per via delle quali cittadini con risorse di partenza diverse non hanno la stessa possibilità di raggiungere salari uguali. In altre parole, quando il figlio di un operaio potrà difficilmente ambire a guadagnare quanto il figlio di un medico.

Per studiare il meccanismo che si è avviato in Egitto, alcuni analisti hanno riportato dei dati interessanti a riguardo. Dati che hanno messo in luce un particolare paradosso nella situazione sociale egiziana. Il primo di questi riguarda il coefficiente GINI. Si tratta di una scala di misurazione che registra la differenza di guadagno tra le diverse fasce di popolazione. È un indicatore che definisce il grado di iniquità sociale di un Paese, valutando quanto le classi ricche guadagnino più di quelle povere. Si passa da un simbolico valore 0, che rappresenterebbe un sostanziale allineamento salariale fra le diverse fasce, e il valore 100, ovvero una situazione di totale disuguaglianza. La cosa interessante è proprio che questo coefficiente, nella decade che ha preceduto i moti rivoltosi del 2011, è sceso progressivamente. Dal 2000 al 2009 è passato da un valore iniziale di 36.1 % a quello di 30.7 % dell’ultimo anno. Valore, peraltro, decisamente basso anche a confronto di molte realtà a livello internazionale, non solo per il contesto nordafricano. A questo si è aggiunta anche una crescita percentuale del Pil che, calcolata dal 1996 fino al 2010, è andata spesso sopra il 5 %, con picchi del 7 % tra gli anni 2006 e 2008. Come si può spiegare allora che molti analisti hanno attribuito le cause della rivolta a diseguaglianza sociale, quando i dati affermano il contrario?

Per capirlo è necessario un passo ulteriore. L’ovvia maggioranza della popolazione che ha lamentato una situazione di disuguaglianza sociale è stata quella che si trova tra il dieci per cento più povero e il dieci per cento più ricco. Questi strati di popolazione hanno visto da una parte crescere l’economia del Paese senza vederne benefici, dall’altra hanno visto ridurre il gap con le classi di popolazione più povera. Se da un lato l’economia egiziana cresceva, dall’altro i frutti di questa crescita non sono mai stati percepiti dalla classe media, sempre più insoddisfatta e delusa da questo nuovo aspetto di iniquità sociale.  La vera iniquità percepita dalla popolazione ha avuto tuttavia basi più nel sociale che nell’economia reale. Chi ha avuto la possibilità di intraprendere un elevato percorso di istruzione, non è riuscito a raccoglierne i frutti in termini di guadagno. Non più legato alla possibilità di raggiungere gli stessi obiettivi con basi di partenza diverse, ma determinato dalla difficoltà di arrivare ad un certo grado di benessere economico a seguito di un investimento in educazione e formazione. Una situazione che ha generato il malcontento di fondo, poi sfociato nella rivoluzione di giugno.

Dati ulteriormente confermati dall’analisi dell’Egyptian Household Income, Expenditure and Consumption Surveys (HIECS). Questo studio ha messo in luce due questioni principali. Oltre ad aver confermato come, dal 2000 al 2009, la situazione di iniquità sociale non sia cresciuta –anzi, le classi più povere hanno avuto maggiori benefici della classe media – ha evidenziato anche che, in generale, la crescita economica egiziana non ha avuto benefici sul welfare delle famiglie. Un effetto che, come si diceva prima, ha posto gran parte della popolazione egiziana in una situazione di frustrazione, in cui era a conoscenza della crescita del Paese, senza tuttavia poterne beneficiare dei frutti. Il secondo dato, collegato al primo, è la progressiva disparità fra crescita del prodotto interno lordo egiziano e diminuzione del welfare domestico. Negli anni che hanno preceduto la rivoluzione, in particolar modo dal 2006 al 2008, il gap che si crea fra crescita del Pil e reddito familiare si allarga nettamente. Dove è andato a finire, quindi, il Pil in crescita? In gran parte è stato destinato a compagnie straniere, come conseguenza del fatto che l’Egitto non ha saputo investire, negli ultimi quarant’anni, in ricerca ed istruzione. Una politica che lo ha portato a dipendere, in gran parte, dalla tecnologia e dal know how straniero, con la conseguenza di una spesa nettamente superiore per accaparrarsi questo tipo di risorse ed una vera e propria emorragia del capitale del Paese.

A tutto questo, però, va aggiunta una componente di tipo sociale, che ha avuto, secondo gli analisti, un ruolo cruciale nell’alimentare le proteste della rivoluzione del 2011. Il generale malcontento diffusosi all’alba dei moti di protesta viene in parte chiarito dal World Values Surveys, un sondaggio d’opinione che tocca temi diversi. I risultati riportati dal WVS, in un periodo di analisi dal 2000 al 2008, hanno messo in luce come, per determinare i motivi della rivolta, ai valori economici sia d’obbligo aggiungere la componente sociologica. Ciò che ne è risultato è stato un cambio di percezione della propria condizione da parte dei cittadini egiziani. Quasi tutte le famiglie nel 2008 si sentivano in condizioni peggiori rispetto al 2000, e convinte di essere passate ad una classe sociale più bassa. Il fenomeno è stato spiegato dagli analisti come un fattore fisiologico di quei Paesi che, come l’Egitto, sono andati incontro ad un periodo di profondi cambiamenti economici, che hanno determinato delle aspettative troppo alte e che si sono trasformate in frustrazione una volta disattese dalla realtà. Il quadro che viene tracciato dai dati economici e dai sondaggi sulla popolazione suggerisce che la richiesta di uguaglianza sociale che ha travolto il governo Mubarak abbia avuto sì motivazioni di tipo monetario, ma anche radici in una situazione percepita ben al di sotto delle aspettative.

In definitiva, il processo che ha determinato la rivolta è stata una gestione sbagliata di una convergenza economica positiva da parte del Governo, in cui il prodotto interno cresceva ma non si registrava una ricaduta positiva sulla popolazione. Le analisi economiche a riguardo hanno evidenziato una gestione non adeguata della tassazione, che è rimasta, nel periodo pre 2011, su un modello piatto e addirittura regressivo – in cui, cioè, venivano favorite le fasce ad alto reddito rispetto alla popolazione più povera – e ad un sistema scolastico ed educativo che non ha saputo garantire un adeguato ritorno economico ai cittadini che più hanno investito nell’istruzione. Sotto l’amministrazione Mubarak, l’istruzione ha dovuto cedere il passo al settore privato, preso maggiormente in considerazione nella destinazione di fondi statali.

Dalle rivolte del 2011 ad oggi non sono stati fatti grandi passi in avanti. Diversi tentativi di riforma fiscale volti a colpire le classi più agiate della popolazione si sono spenti in partenza, sotto la pressione di forti gruppi di potere contrari al cambiamento. La politica attuale egiziana ha manifestato il fallimento di una riforma fiscale di tipo progressivo, andando invece ad agire sulle imposte sui consumi. Una politica che, se continuerà così, non potrà fare altro che aumentare la disparità di benessere fra i diversi strati della popolazione.