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Debito pubblico alle stelle, Paese sotto schiaffo

7 Agosto 2017

L’Italia è ancora nel pantano, e intanto tutti promettono bengodi a gogò

Alla fine, qualche spiegazione, qualche risposta vera a domande ineludibili, si dovrà pur dare. Oppure no, si continuerà imperterriti, con il teatrino di slogan, di frasi ripetute come mantra tibetani, giculatorie ad uso spot televisivo, per convincere e soprattutto rimbambire un cittadino considerato suddito, da ammansire con panem et circenses? Ci fossero, almeno, il ‘pane’ e i ‘giochi del circo’… Qui viene in mente l’indimenticabile scambio di battute di ‘Miseria e nobiltà’, tra Pasquale (Enzo Turco) e Felice Sciosciammocca (Toto’): «Questo è un inferno! Qui si mangia pane e veleno!» . «No, Pasqua’, solo veleno!».

Ogni giorno, da giorni, notiziari radio-televisivi e cronache di quotidiani ci ‘narrano’ il tour di Matteo Renzi per ‘piazzare’ il suo libro; e ogni giorno, da giorni, lo story-telling dell’ottimismo. Solo che Renzi non è Tonino Guerra: l’ottimismo che spaccia il segretario del Partito Democratico non è quello del poeta romagnolo che ‘profuma la vita’ e la allunga. Quello renziano è simile a una pubblicità telefonica non richiesta e irritante.
Ogni giorno, da giorni, ci si dice che qualche modesto incremento di PIL è segno e dimostrazione di un buon governo di cui si annette il merito (ma semmai non dovrebbe essere di Paolo Gentiloni?), e che grazie al suo dire e al suo fare, l’Italia va ‘avanti’; gufi e rosiconi se ne facciano una ragione.

C’è poco da rosicare e gufare. Quello che andrebbe spiegato é questo: il debito pubblico da rinnovare nella prossima legislatura ammonta complessivamente a 900 miliardi di euro. Tra gennaio 2018 e la fine del 2022, arrivano a scadenza, nel dettaglio, 47 miliardi di BOT, 734 miliardi di BTP, 85 miliardi di CCT e 32 miliardi di CTZ. Il totale dei titoli di Stato attualmente in circolazione è di 1.879 miliardi: 163 miliardi scadono entro la fine del 2017, 236 miliardi entro il prossimo anno, 187 miliardi nel 2019, 162 miliardi nel 2020, 162 miliardi nel 2021, 152 miliardi nel 2022, 141 miliardi nel 2023, 128 miliardi nel 2024, 62 miliardi nel 2025, 79 miliardi nel 2026, 48 miliardi nel 2027; altri 355 miliardi, poi, arrivano a fine corsa tra il 2028 e il 2067.
Questi sono i dati principali di un’analisi del Centro studi di Unimpresa sui titoli di Stato in circolazione, secondo la quale considerando i circa 100 miliardi annui di BOT emessi e rinnovati l’ammontare complessivo di debito da rifinanziare nella prossima legislatura è ampiamente superiore a 1.000 miliardi.

Renzi (ma, beninteso, non è il solo) ci sommergono in questi giorni con bei discorsi da una parte; e con argomenti che spesso sono vere e proprie armi di ‘distrazione di massa’. Al di là del loro fumo, converrebbe occuparsi dell’arrosto. Un dato centrale di questo ‘arrosto’ è costituito dal debito pubblico schiacciante: supera quota duemila miliardi; e le scadenze dei titoli di Stato citate sono il vero e proprio capestro al collo del nostro Paese. Un combinato disposto, ricorda il vice-presidente di Unimpresa Claudio Pucci, «con il quale gli investitori, le case d’affari internazionali e le banche italiane ci tengono sotto schiaffo».

A fronte degli ostentati (e poco responsabili) ottimismi, spot di una campagna elettorale permanente cui ormai nessuno presta attenzione, giovedi’ scorso, con un crudo realismo che rasenta la brutalità, il Ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, nell’intervista rilasciata a ‘Il Sole 24 Ore’, dice papale papale che «le risorse sono limitate». La traduzione è semplice: colleghi di Governo, leader di partito, Parlamento: non credano che la legge di Bilancio 2018 possa trasformarsi nella già annunciata sagra delle promesse a tutti qualcosa, chiedete e vi sarà dato.

Padoan lo dice chiaro e tondo: l’Italia è ancora nel pantano, e non si pué permettere quell’ottimismo ostentato da tanti. Del resto: la quota di occupati sulla popolazione tra i 25 e i 34 anni è del 60 per cento. Venti punti in meno rispetto alla Germania, sedici punti in meno rispetto alla media dell’Unione Europea. Proprio ieri il quotidiano di Confindutria, severo, ricorda, con un editoriale del suo direttore Guido Gentili: «Sale la disaffezione nei confront i delle istituzioni e della politica. Il capitale umano e sociale che dovrebbe sprigionare energie e nuove competenze a fronte i redditi coerenti, rilanciando poi anche per questa via la domanda e la competitività delle imprese, si accartoccia in un angolo e deperisce…».
Non finisce qui, se è vero che fioriscono «altri costosi progetti, come le promesse su pensioni e pensionandi, addirittura i giovani di oggi, ai quali si prospetta non un lavoro ma il riscatto gratis della laurea. Nel Paese che brucia futuro e che ai giovani elargisce attenzioni da riserva indiana, invece di precare le condizioni perchè i tassi di occupazione (vera) aumentino».
Bene: in questo Paese accade che si sia appena concluso alla Camera dei deputati un avvilente dibattito sulla inesistente questione dei vitalizi: una gara tra PD e Movimento 5 Stelle a chi è più demagogo, e che si è trdotto in un gravissimo colpo alla credibilità delle istituzioni democratiche e alla stessa democrazia rappresentativa (che o è tale, o non è, con buona pace di tutti le evocate piattaforme Rousseau, anticamera di neppure troppo celate tirannie, dove uno vale nessuno, e un ‘nessuno’ vale per tutti).

Questo, piccia o meno, è lo scenario. I vari attori che lo compongono recitano una loro parte, a soggetto solo apparentemente variabile. Renzi, per esempio, fa di tutto per depoliticizzare le ormai prossime elezioni regionali in Sicilia. Se pensa abbiano un valore limitato, si illude. Per lui sicuramente avranno valore politicissimo. Ha già perso il referendum; ha perso due elezioni amministrative di seguito; il partito si sta liquefacendo come un iceberg alla deriva. Se perde anche in Sicilia (ed è improbabile che vinca), una quantità di avversari dentro e fuori il partito gli si avventeranno contro. Il suo alleato potrà essere, a quel punto, solo il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi. Ma per essere un solido alleato su cui aggrapparsi e costituire una possibile grande coalizione dopo le elezioni politiche, Berlusconi deve vincere in Sicilia, deve prevalere sui rigurgiti populisti incarnati da Matteo Salvini e Giorgia Meloni; costruire un improbabile centro moderato che metta insieme oltre a Forza Italia l’eterogeneo e magmatico fronte costituito da Angelino Alfano, Raffaele Fitto, Gaetano Quagliariello… Altro che Vinavil, ci vuole.
Il Movimento pentastellato non è che sia messo meglio. Il caso della città di Roma fa scuola. La capitale amministrata da Virginia Raggi è percepita come in declino, affaticata, ‘viaggia con il freno a mano’, priva di una visione del futuro. Lo pensano tre abitanti su quattro. Chi ha votato M5S per il 37 per cento si dichiara ottimista, mentre il 48 per cento dichiara pollice verso. Il 54 per cento degli interpellati dice che il movimento di Grillo è identico a tutti gli altri partiti: preannuncio di una vistosa astensione.
A sinistra del PD l’unica cosa ragionevole sarebbe se gli spezzoni attorno a Pierluigi Bersani e Massimo D’Alema, a Nicola Fratoianni, a Giuliano Pisapia, riuscissero a superare personalimi egoisti e miopi masochismi; magari accettando una serie di ‘padri’ nobili quali Romano Prodi, Walter Veltroni, Luciano Violante. Ci credete?

Ecco, il puzzle è questo. Una situazione, verrebbe quasi da dire, da pre-golpe. Ci fossero golpisti. Mancano anche loro. Si continuerà a sprofondare, verso un fondo che non ha fine, confidando in uno stellone da tempo spento. That’s all folks.