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Basaglia, pioniere della psichiatria “umana”

27 Agosto 2017

Il medico contribuì a formare una nuova sensibilità nei confronti dei malati mentali. Per questo, a 37 anni dalla morte, la sua battaglia per chiudere i manicomi-lager resta un traguardo di civilità.

Semplicemente, senza l’opera di Franco Basaglia, il malato con problemi psichici non sarebbe considerato una persona con una serie di diritti da rispettare ma un essere su cui la società esercita il suo potere e sfoga le sue paure più profonde. Basterebbe questa riflessione, a 37 anni dalla morte dello psichiatra veneziano (avvenuta il 29 agosto del 1980), a porre un sigillo definitivo, e positivo, sulla sua figura e sulla sua opera controversa. Il suo obiettivo fu da subito quello di denunciare le tecniche carcerarie della psichiatria tradizionale. A questo modello Basaglia oppose quello della comunità terapeutica inserita nel sociale.

IL LABORATORIO DI GORIZIA. Lui stesso cercò di farne esperienza, tra mille difficoltà, nell’ospedale psichiatrico di Gorizia alla cui guida fu chiamato a partire dal 1961. Qui si dedicò alla trasformazione dei metodi di cura giungendo all’eliminazione della pratica dell’elettroshock sui pazienti (terapia elettroconvulsivante). Sperimentando inoltre un nuovo tipo di relazione tra malato e personale ospedaliero: più attento allo scambio umano, al dialogo e al sostegno morale. Dopo esser stato per alcuni anni direttore anche dell’ospedale di Colorno e in seguito di quello di Trieste, Basaglia fondò un movimento chiamato Psichiatria Democratica, che prendeva spunto dalla corrente di pensiero dell'”antipsichiatria”, già diffusa in Gran Bretagna. Si trattava di cambiare l’approccio alla malattia mentale: passando da quello positivistico a quello fenomenologico-esistenziale.

Fondamentale la sua opera del 1967, L’istituzione negata (scritta in collaborazione con la moglie Franca Ongaro) nella quale si racconta l’esperienza dell’ospedale psichiatrico di Gorizia e si delinea il programma basagliano: separare il problema della follia dagli stretti confini dell’ambito medico per considerarlo all’interno del fenomeno sociale più generale della devianza. Il libro contribuì a formare una rinnovata sensibilità nei confronti dei malati psichiatrici: raccontava l’orrore dei metodi tradizionali di cura, i letti di contenzione, le dosi massicce di elettroshock, le percosse. Cure che si avvicinavano troppo a metodi di tortura legalizzati. Basaglia, in sintonia con gli studenti di Medicina che occupavano dopo il ’68 gli ospedali psichiatrici pretendendo più diritti per i malati, puntava l’indice contro un sistema culturale fondato sull’oppressione degli esclusi: «Neghiamo il nostro mandato sociale che ci richiederebbe di considerare il malato come un non-uomo, neghiamo il nostro ruolo di semplici carcerieri, tutori della tranquillità…».

IL RACCONTO DI ZAVOLI. C’era più di un pizzico di utopia nelle idee di Basaglia, il cui lavoro fu duramente avversato da ampi settori della psichiatria tradizionale e che fu conosciuto dal grande pubblico grazie a un servizio di Sergio Zavoli che la Rai mandò in onda nel 1969: il servizio aveva come titolo I giardini di Abele e raccontava l’esperienza di Gorizia. Come ha scritto Guido Crainz nel suo Il Paese mancato, «per la prima volta la televisione portava nelle case degli italiani quelle vergogne accuratamente celate e rimosse che pochissimi avevano fin lì denunciato».

LA CRITICA AI LUOGHI DELL’ESCLUSIONE. Basaglia contribuì come psichiatra-simbolo a quella nuova mentalità che guardava in modo critico i luoghi dell’esclusione – i manicomi, ma anche le carceri – e che si soffermava con occhi diversi sulle masse doloranti. Non tutto era giusto, non tutto era esatto: il ritenere la malattia frutto di esclusione sociale era un pensiero poco scientifico, così come l’idea che bastasse rendere migliore la società per eliminare follia e criminalità. Ma l’abolizione dei manicomi che arrivò con la legge del 1978 che porta il suo nome resta un innegabile fattore di progresso e di civiltà.

Nell’antichità il folle era considerato un individuo “segnato” dagli déi, la sua malattia aveva un’origine mistico-religiosa. Una tendenza che sopravvisse nel Medioevo, quando chi dava segni di squilibrio mentale veniva creduto “indemoniato” e lo si conduceva in monastero per la cura dell’anima. Eppure in quel periodo il folle non era perseguitato e non era ritenuto pericoloso. Anzi, prendersene cura rientrava in quei doveri delle buone opere assegnate dalla religione al credente. Fu dopo la Riforma che i matti, al pari di vagabondi, eretici, prostitute e delinquenti, i reietti della società, cominciarono a essere internati. Nell’operoso mondo della borghesia che cominciava a delinearsi nel XVI secolo il folle, come il mendicante, era escluso dal meccanismo di accumulo di risorse e ricchezze e quindi veniva tenuto ai margini, in gabbia come nell’Ospedale Generale di Parigi, o come nelle case di correzione istituite in Inghilterra da Elisabetta I a partire dal 1575.

LA SVOLTA ILLUMINISTA. Le cose iniziarono a cambiare con il pensiero degli illuministi, i quali scollegarono la malattia psichiatrica da ogni alone mistico, considerandola come una patologia fisica cui il corpo era in grado di reagire. Lo psichiatra francese Philippe Pinel (1745-1826) cominciò a distinguere i malati mentali dai poveri, i vagabondi e gli emarginati, cui prima venivano assimilati e di fatto teorizzò la necessità del manicomio, struttura al di fuori di influenze esterne e con la presenza costante di un medico che seguisse l’evoluzione della malattia. La cura divenne di fatto l’internamento e gli strumenti terapeutici utilizzati erano droghe, salassi, shock violenti.

Paradossalmente anche in Italia, fino al 1978, l’impostazione di fondo con la quale veniva affrontata la malattia mentale restò la stessa e la legge di riferimento rimase quella approvata nel 1904 che prevedeva il ricovero solo per malati pericolosi o che avessero dato pubblico scandalo. Sulla base di questo principio, chiunque fosse incaricato di garantire la pubblica sicurezza, con in mano un certificato contenente anche solo una falsa dichiarazione di pericolosità, poteva far internare una persona. La rivoluzione, preparata come si è visto da accesi dibattiti, denunce e discussioni che coinvolsero non solo gli addetti ai lavori, arrivò con la legge 180 del 13 maggio 1978, conosciuta appunto come legge Basaglia, che si basava su tre principi: divieto di costruire nuovi manicomi e graduale chiusura di quelli esistenti; trattamento sanitario volontario (tranne in casi particolari), permanenza breve del malato in ospedale e solo a causa di situazioni di emergenza, difficilmente gestibili dalla persona stessa o dalla famiglia.

REGIONI IMPREPARATE ALLA RIVOLUZIONE. Dopo l’approvazione delle legge le Regioni, che avrebbero dovuto individuare adeguate strutture per la tutela dei malati psichiatrici, si rivelarono del tutto impreparate a gestire un cambiamento così profondo e a rimetterci furono i familiari dei pazienti, abbandonati a se stessi dall’assenza di quelle istituzioni che proprio Franco Basaglia, il pioniere della psichiatria senza manicomi, aveva denunciato nel suo libro più famoso.