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Balcani: la lunga strada verso l’integrazione a occidente

10 Agosto 2017

L’apertura dell’Europa a Est favorirà più trasparenza sulla gestione dei flussi migratori sulla direttrice adriatico-ionica?

Dopo Parigi, nel 2016, Il 12 luglio di quest’anno si è tenuto a Trieste il vertice annuale dei Balcani Occidentali. Dal punto di vista geopolitico, il «processo di Berlino» ha lo scopo di avvicinare all’UE i Paesi dei Balcani occidentali, con il supporto fondamentale di Germania, Francia, Austria e Italia. Questo avvicinamento dovrebbe avvenire mediante un rafforzamento istituzionale ritenuto fattore essenziale di stabilità democratica per l’intera Europa.

Rispetto all’agenda prefissata (nei seguenti punti : crescita, sicurezza e difesa comune, incentivi alle piccole e medie imprese, lotta alla corruzione), nel dibattito si è dato adito soprattutto all’importanza di creare un’area economica regionale integrata , un percorso già avviato nel quale l’Italia è coinvolta per gli investimenti e la presenza delle proprie imprese sui territori interessati. Questa linea è stata confermata dalla presentazione di un ‘Piano di azione pluriennale’ ad hoc e l’avviamento, a Tirana, del RYCO, un ‘Ufficio Regionale per la Cooperazione Giovanile’. A Trieste è stato inoltre firmato un Trattato istitutivo di una Comunità di Trasporti tra UE e Paesi dei Balcani occidentali (che non è stato firmato dalla Bosnia-Erzegovina perché contraria ad aprire le porte alle imprese di trasporti europee). Fondamentale, a questo proposito, l’accento posto sull’incremento delle infrastrutture: il nuovo spazio sarà possibile solo in forza dei collegamenti tra gli Stati balcanici e tra questi e l’area europea.  Tuttavia, diversi Stati appaiono restii a un sodalizio commerciale con i Paesi dell’UE, concentrandosi su una competizione inter-statale interna all’area balcanica per garantirsi ciascuno la propria quota di esportazioni verso quei Paesi. Assenti dal dibattito, invece, le proposte di risoluzione delle diverse dispute territoriali pendenti tra gli Stati soprattutto per questioni di confine (Kosovo/Montenegro) o di status (lo stesso Kosovo); un altro aspetto del quale non si è parlato è quello inerente alle reti della criminalità organizzata responsabili, grazie a una fitta rete di appoggi localizzati, del traffico illegale di merci e persone.

Lo scorso gennaio, il Ministro degli Esteri Angelo Alfano , davanti al consesso delle Commissioni Esteri di Camera e Senato, affermava che una proiezione dell’Italia non solo a Sud, ma verso i Balcani (lungo la direttrice adriatico-ionica) potrebbe diventare una nostra specificità, «essere uno dei nostri elementi di leadership nel corso complessivo europeo». La sicurezza comune, sottolineava, è questione di tutti gli Stati anche quelli che non sono (o non sono più) membri dell’Unione.  Per questo è necessario sviluppare una rete di banche dati europea al servizio di agenti e operatori, oltre a una fiducia nello scambio di expertise, e nella cooperazione poliziesca e giudiziaria. Con tali premesse, per la Farnesina è fondamentale perseguire una strategia di «completa integrazione dei Paesi dell’area nelle strutture europee ed euro-atlantiche di sicurezza». Tra i principali obiettivi dell’Italia per la regione balcanica, attestati da Comitati di coordinamento (istituiti, ad esempio, con Croazia e Slovenia), dagli accordi di collaborazione strategica intergovernativi o dal dialogo trilaterale con Serbia e Albania – avviato nel 2015 – troviamo:  il consolidamento istituzionale , il rilancio dell’economia attraverso la transizione al libero mercato , ma anche la lotta al crimine organizzato. Ciò si pone in linea con la strategia da noi promossa per la Regione adriatico-ionica a partire dal novembre 2014, anno della presidenza italiana del Consiglio UE.

Altri fatti indicativi non solo di un rafforzamento cooperativo, ma dell’effetto ‘gravitazionale’ dell’area europea sui Paesi balcanici  sono: l’ingresso della Croazia nell’UE come Paese membro dal 1° luglio 2013 e la candidatura dell’Albania nel 2014 . In merito all’adesione di Serbia e  Montenegro, sono stati avviati i negoziati (rispettivamente, nel 2012 e 2013), mentre Albania e Croazia, nel 2009, sono entrate nella NATO.

Il perseguimento degli obiettivi di sicurezza e stabilità è assistito dal dialogo a livello istituzionale europeo, ma anche dalla partecipazione dell’Italia al gruppo di dialogo informale (c.d. «Quint») che comprende USA, Regno Unito, Francia e Germania. Proprio in merito alla policy di stabilizzazione, l’Italia ha preso parte attivamente a missioni internazionali per il Kosovo come KFOR (NATO), assumendo il ruolo di Comandante di Missione dal 2013, o EULEX , missione civile europea avviata nel 2008 in supporto alle pubbliche autorità kosovare, finalizzata a edificare un ordinamento democratico centrato sullo stato di diritto e prorogata – con minori responsabilità – al giugno 2018. Per la Bosnia–Erzegovina, il nostro Paese è presente, con circa 900 uomini, in EUFOR «Althea», missione militare dell’UE iniziata nel 2004, su mandato delle Nazioni Unite, per sostituire l’operazione NATO «Joint Forge». A seguito di una progressiva riduzione strutturale, i suoi obiettivi si sono modificati dal mantenimento della pace nel Paese alla formazione e al potenziamento – per capacità, equipaggiamenti e tecnologie – delle Forze Armate bosniache.

Per la sua presenza economica (investimenti e relazioni di durata), l’Italia è solo seconda alla Germania, con un interscambio commerciale – stando alle fonti ufficiali – di più di 20 miliardi di euro, in particolare con Croazia, Serbia e Albania, e con quote di mercato del 18,8 % come cliente e del 10,9% in qualità di fornitore. Oltre alla diffusione degli istituti di credito (Unicredit in Croazia, Bosnia e Slovenia; Intesa San Paolo, presente in questi Stati e in Serbia ed Albania; Generali in Slovenia, Croazia e Serbia, dove è presente anche Fonsai), nei diversi Paesi sono interessati dai nostri investimenti i settori automobilistico (FIAT) e calzaturiero (Geox) in Serbia, tessile (Benetton) in Croazia, Serbia e Slovenia, energetico (ENI e Edison) in Croazia e in Montenegro (Terna e A2A), oltre alla grande distribuzione in Kosovo (Conad), Croazia (Oviesse) e Slovenia (Oviesse, Eurospin e Autogrill).

Il «processo» balcanico è ulteriormente integrato dalle iniziative italiane di cooperazione allo sviluppo nei seguenti ambiti: agricoltura, sanità, energia, educazione, trasmissione di competenze e strumenti di governance dei territori alle amministrazioni locali, ricerca e cooperazione alla Cultura – con l’Albania in prima fila – , ma anche iniziative di soccorso dopo le inondazioni del maggio 2014  (Serbia, Bosnia, Croazia) e di sminamento umanitario (attivo in Bosnia da un decennio).

Questi interventi (finanziati sia dall’Italia che da organismi internazionali come l’ONU, la Banca Mondiale o l’OSCE), dovranno coordinarsi con i propositi, ormai risalenti nel tempo, del «Patto di Stabilità per il Sud-Est europeo». Firmato a Sarajevo il 31 luglio 1999, questo documento poneva a condizione degli aiuti concreti e di una prossima integrazione in Europa dei Paesi balcanici due esigenze fondamentali: raggiungere la stabilità geopolitica e combattere la criminalità organizzata. Esso impegnava gli USA, i Paesi membri dell’Unione e quelli parte dell’allora G8, oltre a diversi istituti finanziari e organizzazioni internazionali, in operazioni coordinate di sostegno e vigilanza a favore di Romania, Bulgaria, Bosnia-Erzegovina, Croazia. Si trattava di una strategia nuova e ben diversa dalla consueta logica reattiva e ‘puntuale’ delle risposte esterne alle crisi balcaniche. In base ad accordi di ‘buon vicinato’, i Paesi del Sud-est europeo aderivano a una politica moderata, a livello regionale, da un coordinatore speciale e fondata su 3 pilastri: il rispetto dei diritti umani, la ricostruzione e la cooperazione allo sviluppo, l’aspetto securitario.

Dal Patto, al quale aderirono anche la Turchia, l’Ungheria e l’Ucraina, era esclusa la Repubblica Federale jugoslava (almeno finché Milošević fosse rimasto in carica), con un Kosovo da ricostruire compreso tra i destinatari dell’intervento e un Montenegro in veste di osservatore. In questa politica, l’Italia si è messa in gioco sia come donatore bilaterale di rilievo, sia con le proprie risorse umane. Oggi, pur mantenendo la sua prospettiva regionale integrata, il Patto è stato chiuso nel 2008 e formalmente sostituito dal «Consiglio per la Cooperazione Regionale» che, tra i vari ambiti, si occupa anche di contrastare il crimine organizzato e la corruzione, appoggiando l’attività del SECI («Regional Centre for Combating Transborder Crime») in sinergia con Europol.

I processi di stabilizzazione sono, a ben vedere, ‘connaturati’ alle aree di frontiera: dopo lo sgretolamento della Jugoslavia socialista, i Balcani – frontiera europea e, in un senso più vasto, ‘confine dell’Occidente’ – diventano crocevia tra integrazione politica per ‘attrazione’, iniziativa economica e legalità.

I crimini connessi alla dimensione transfrontaliera  riguardano diverse tipologie di contraffazione (relativa alla natura della merce, all’identità aziendale, al packaging), ma anche la tratta di persone, soprattutto di giovani donne originarie dell’area balcanica o provenienti dall’Estremo Oriente, finalizzata allo sfruttamento della prostituzione. Si tratta di un fenomeno sviluppatosi soprattutto dopo il 1992, al quale recentemente Stati come l’Albania Serbia e Kosovo hanno cercato di ovviare (ad esempio, nel caso albanese disponendo Strategie triennali antitratta o rapporti di cooperazione con enti internazionali e ong).

Il problema ‘interno al problema’ è che si tratta di fenomeni radicati che vivono grazie alle logiche di frontiera, eludendo le normative nazionali, ai quali è difficile porre rimedio con strategie di polizia e intelligence in grado di coprire le attività organizzate sottotraccia e i loro precorsi. Il radicamento attraverso potentati locali risorti sotto nuove forme è tanto più forte in quanto capace di adattarsi ai nuovi flussi di persone, che non sono solo quelli connessi alla prostituzione, ma al traffico  di  persone che tentano la rotta balcanica trovandola ufficialmente chiusa.  Diverse procedure in atto, che Europol, priva di un’assistenza integrata e di una collaborazione capillare a livello nazionale, regionale, e oltre-frontiera, non è in grado di monitorare, passano sotto silenzio nel discorso ufficiale:  nel discorso che insiste sulla lotta alla corruzione, ma anche negli impegni dichiarati dal nostro Paese, separato dai Balcani da un braccio di mare, alle Nazioni Unite.

Al Consiglio di Sicurezza, tra le priorità annunciate dall’Italia figurano: il conflitto siriano, la  stabilizzazione della Libia, il contrasto ai flussi migratori provenienti dal Sahel, il  sostegno alla mediazione ONU in Africa (Stati del Corno, Yemen, Congo), perfino i rapporti tra Sudan e Sud Sudan. E i Balcani? Il rischio di una miopia, quantomeno presente nel discorso ufficiale, relativamente ai possibili sviluppi della criminalità organizzata balcanica attraverso il fenomeno migratorio sono reali: non parliamo qui della nostra mafia, potenzialmente connessa, come lo sono anche le mafie straniere non solo sul fronte delle armi e della droga, ma in complesse operazioni finanziarie; le reti balcaniche agiscono in base a specifiche logiche di potere ricostituite intorno a figure di ex combattenti, ufficiali militari o mujaeddin, che – dopo il collasso della Federazione – hanno convertito il loro status gestendo a cavallo dei confini flussi migratori destinati, secondo i report ufficiali, ad aumentare sensibilmente.

Un fenomeno prioritario, che potrebbe trovarci impreparati nella risposta integrata sulla quale stiamo investendo ingenti risorse economiche ed umane.