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Afghanistan: cambia poco, ma Trump sembra far sul serio

12 Agosto 2017

Si ritorna alla ‘guerra al terrore’ in versione 2.0 con sdoganamento dei talebani, comprehensive approach, carta bianca ai militari

«La sconfitta non è tra le opzioni», dice il generale McMahon (un ipotetico generale Stanley McChrystal) rappresentato dal magistrale Brad Pitt nel film ‘The War Machine‘. Donald Trump sembra muoversi nella stessa direzione: «la gente è stanca di una guerra senza vittoria», questo l’incipit del discorso di Donald J. Trump sull’Afghanistan del 21 agosto.

Cambia l’impegno in Afghanistan, più sul piano formale che su quello sostanziale. A guardare i numeri, che si prevede aumentino di circa il 50% rispetto all’impegno attuale  -che in termini numerici corrisponderebbe ad un invio di ulteriori 4000 soldati-, si potrebbe in breve tempo passare da 8500 a 12.500 unità statunitensi sul terreno. Ma formalmente Trump non parla di numeri, e questo gli consente un maggior margine di manovra politico, anche in previsione di una richiesta agli alleati della Nato di aumentare i loro contingenti (e tra questi anche l’Italia, il secondo principale contributore in termini numerici). Ma perché mai oggi, un aumento di truppe così limitato dovrebbe ottenere risultati diversi da quelli sperati con le precedenti strategie di 4 amministrazioni statunitensi? da George W. Bush le due di Barack Obama ed ora Trump, fatte di aumenti anche consistenti (100mila truppe statunitensi nel 2010-11).

Il Presidente Donald Trump ha fatto alcune premesse preparatorie all’illustrazione della sua revisione strategica di un impegno che è divenuto ormai definitivamente ‘in’ Afghanistan e non più, ammesso che lo sia mai stato, ‘per’ l’Afghanistan. Queste le premesse di una revisione della strategia statunitense.
Il popolo americano è stanco di una guerra senza vittoria il che può significare che o ci si deve ritirare o ci si deve impegnare per vincere la guerra. Delle due l’una, e Trump dichiara (anche lui) di volerla vincere la guerra in Afghanistan. A ciò si unisce la frustrazione dei cittadini americani, condivisa dal Presidente, verso una politica estera statunitense che ha impegnato troppo tempo, energie, denaro e vite nel tentativo di ricostruire paesi sulla base di un modello ideale statunitense, invece di perseguire il bene primario degli interessi americani di sicurezza.
Dunque, oggi, il Presidente Trump, contraddicendo la sua ferma posizione resa nota a più riprese nel 2013, nel 2015 e ancora nel 2016, ha intenzione non solo di non andarsene dall’Afghanistan bensì di aumentare l’impegno, anche lui per vincere una guerra così come hanno dichiarato in precedenza gli altri due presidenti che lo hanno preceduto. Un cambio di sostanza e non solo di forma, poiché colloca l’Amministrazione statunitense sul piano dell’interventismo, in opposizione al non-interventismo isolazionista dell’ormai ex consigliere strategico Steve Bannon. Ed oggi, dopo aver ‘studiato e analizzato l’Afghanistan da diverse angolature’  -parole del Presidente- Trump ha definito i suoi tre principi fondamentali per l’impegno americano in Afghanistan.
Il primo principio, tenendo conto degli enormi sacrifici fatti (2.200 soldati USA caduti e oltre 800miliardi spesi), è la volontà di continuare a combattere, ma con una strategia vincente e gli adeguati strumenti per poterla realizzare. Nulla di nuovo, ma ancora sfugge quale possa essere la strategia vincente.
Il secondo principio pone l’accento sull’inaccettabilità delle prevedibili conseguenze di un’uscita definitiva dall’Afghanistan: «un ritiro frettoloso creerebbe un vuoto che i terroristi, tra cui l’ISIS e al-Qa’ida, saprebbero immediatamente riempire». Su questo Trump ha ragione da vendere e dichiara di non voler ripetere l’errore epocale commesso da Obama che, ritirando frettolosamente le truppe dall’Iraq nel 2011, ci ha consegnato un Medioriente devastato così come oggi possiamo vederlo.
Il terzo principio, infine, è la consapevolezza che nell’Asia del Sud, e non solo in Afghanistan, vi siano immense minacce alla sicurezza, tenuto conto che solo in Afghanistan e Pakistan vi è la più alta concentrazione di organizzazioni terroristiche al mondo -20 quelle designate dagli Stati Uniti.

E proprio il Pakistan è uno dei fattori che contribuirebbero, secondo un Trump che anche in questo caso avrebbe ragione, all’instabilità dell’Afghanistan garantendo basi sicure per i gruppi insurrezionali, terroristi e alimentando il caos. Una situazione inaccettabile, tanto più che Pakistan e India, in perenne contrasto, sono due potenze nucleari. Un concetto, forse poco politically correct, ripetuto in campagna elettorale.
Ma Trump, in questo dimostrando di essere consapevole di quanto impone la real-politik, sa che le conseguenze di un ritiro sarebbero peggiori allo scenario attuale; dunque si va avanti, facendo leva sul piano comunicativo, sulle emozioni e sui sentimenti ancora vivi dopo gli attacchi terroristici in Spagna e ribadendo concetti espressi in occasione della sua visita in Arabia Saudita lo scorso mese di maggio: «combattere il terrorismo all’interno dei territori in cui si alimenta, si sviluppa ed espande, tagliandone le fonti di finanziamento e contrastandone la narrativa ideologica».

Dunque, con Donald Trump, si ritorna alla ‘guerra al terrore‘ in versione 2.0, dopo aver sdoganato la natura ‘insurrezionale‘ dei talebani (che ‘insorti’ rimangono essendo esclusi dalla black-list statunitense) e la loro esclusione dalla galassia terrorista. Una guerra di parole che colloca il nemico, ancora una volta ad uso e consumo di un’opinione pubblica domestica e occidentale, sul piano fortemente ideologico, della contrapposizione noi-loro, giusto-sbagliato. Un clichè sempreverde, accettabile quanto opportuno, ma anche su questo piano nulla di nuovo se non un’omissione che non è passata inosservata.

Di fianco alla parola ‘terrorismo‘, criminale, crudele, perdente, scompare il termine ‘islamico‘. Ma come? Mai come in questo caso l’utilizzo della formula ‘terrorismo islamico‘ sarebbe stato più appropriato, essendo il riferimento esplicito al terrorismo del cosiddetto ‘Stato islamico’, l’ISIS da ‘cacciare e sconfiggere’. Questo è un elemento di novità, sostanziale, nel processo comunicativo del Presidente americano che lascia immaginare qualche remora verso chi lo accusa di tollerare quelle idee e quegli approcci ideologico-identitari contestati durante i recenti scontri di natura ‘razziale’ a Charlottesville. Ma nel suo discorso alla Nazione Trump va avanti con fermezza.

In Afghanistan e in Pakistan, continua il Presidente, gli interessi statunitensi sono chiari: fermare il ristabilimento di aree sicure per i gruppi terroristici, prevenire il possesso di armi e materiali nucleari da parte dei terroristi. Interessi chiari sì, ma parziali: manca, in particolare, il riferimento al controllo delle fondamentali basi strategiche, così come sancito dagli accordi bilaterali tra Washington e Kabul siglati nel 2012, ufficializzati nel 2014 e in vigore sino a tutto il 2024 (e oltre). Basi strategiche che consentono agli Stati Uniti di porre sotto controllo l’Iran, i Paesi dell’Asia centrale, parte della Russia e della Cina, il Pakistan, quasi tutta l’India. Questo è un motivo valido per rimanere in Afghanistan; gli altri, se contano effettivamente qualcosa, sono poco meno che secondari.

Ma al di la di quelle che sono le motivazioni, di poco interesse per un’opinione pubblica distratta da altri problemi di tipo quotidiano e lontana da una guerra che dura da 17 anni, la strategia per l’Afghanistan e l’Asia meridionale (dimentichiamoci l’acronimo Af-Pak di obamiana memoria) dovrebbe cambiare in maniera ‘radicale’, a detta del Presidente. Vediamo come.

Punto primo, cambio di approccio concettuale: da ‘temporale‘ a uno basato sulle ‘condizioni‘. In effetti il contrario di ciò che fece Obama, dichiarando con due anni di anticipo (anche agli stessi talebani) la data del ritiro, indipendentemente dai risultati ottenuti  -è vero però, va detto, che Obama nel suo famoso discorso di West Point dichiarò contestualmente che avrebbe vinto la guerra (e Trump non ha mancato di rimarcarlo). Dunque, condizioni sul terreno e segretezza dei piani: mai dire quando e dove si attaccherà. Sembra essere semplice buon senso, sembra.

Punto secondo, il pilastro fondamentale della nuova strategia sarà l’integrazione di tutti gli strumenti del potere americano: diplomatico, economico e militare   -quello che in ambito accademico è da tempo comunemente noto come ‘DIME: Diplomacy, Information, Military, Economic’. Una volta (tra il 2009 e il 2012) si sarebbe chiamato ‘comprehensive approach‘, oggi non è più così.
Bene allora la confermata disponibilità ad un power-sharing con i talebani, sebbene non si sappia come e se questi decideranno di sedersi al tavolo delle trattative o se aspetteranno la conclusione della (ennesima) strategia di successo statunitense. In ogni caso, nell’attesa, gli Stati Uniti continueranno a combattere i talebani (e tutti gli altri) sul campo di battaglia.

Talebani che nel frattempo, evidenziando a loro volta quanto poco innovativa sia la nuova strategia di Trump, rispondono (con poca fantasia) che l’Afghanistan diventerà un cimitero anche per i nuovi soldati. Ma al di là delle parole è facile immaginare che la posizione statunitense possa avere un’influenza indiretta su un processo negoziale che, sebbene sul piano formale pare essere inconcludente, su quello sostanziale vede crescere la componente insurrezionale disponibile a un accordo tra le parti: in sostanza un riconoscimento di quanto i talebani già detengono sul piano sostanziale.

Ma una cosa su tutte si impone nella nuova direzione data da Trump all’impegno in Afghanistan: la rinuncia al ruolo di nation-builder. D’ora in poi lo Stato afghano farà a meno del supporto statunitense che si limiterà ad ‘uccidere i terroristi’. Si vedrà cosa ciò significhi, tenuto conto delle sostanzialmente due uniche voci nel PIL dell’Afghanistan: ‘aiuti esteri’ e ‘narcotraffico’: è facile intuire dove ciò porterà, ma è anche opportuno chiedersi come ciò potrà essere compatibile con il pilastro numero due.

Il terzo pilastro fondamentale della strategia di Trump è il cambio di approccio con il Pakistan che, d’ora in poi, deve cessare immediatamente ogni tipo di supporto ai talebani e agli altri gruppi terroristi, pena la cessazione della collaborazione con gli Stati Uniti. A non aiutare nei buoni rapporti con il Pakistan potrebbero, però, contribuire le relazioni privilegiate degli Stati Uniti con l’India, principale partner economico e per la sicurezza dell’Asia meridionale, a cui Trump chiede di essere maggiormente presente in Afghanistan. Opzione questa, eufemisticamente parlando, poco apprezzabile da parte del Pakistan, che da sempre tenta di contrastare qualunque iniziativa indiana in quello che considera il proprio retroterra strategico nel confronto con la stessa India.

Infine, il pilastro fondamentale sul piano operativo: gli strumenti militari e le regole di ingaggio essenziali alla nuova strategia. In primo luogo -finalmente direbbero i militari- maggiore autonomia ai vertici di comando sul terreno: dunque uno stop a quel ‘micro-approccio’ diretto da Washington che tanto ha rallentato e limitato la condotta delle precedenti operazioni, e via all’iniziativa dei comandanti impegnati sul campo di battaglia, al fronte, che devono poter operare con ampia autonomia e un obiettivo chiaro e definito. Dunque l’autorità per le questioni operative passa  -embra un’ovvietà, ma Obama ci ha abituati a questo- ai militari. Militari che, voltando pagina rispetto al passato, avranno un impiego sempre meno convenzionale e sempre più basato su forze per operazioni speciali e droni, azioni puntiformi e rapide, anziché unità di manovra forti ma lente sul terreno, eliminazione dei vertici avversari anziché distruzione dei capisaldi di resistenza. Questo è un cambi di approccio sostanziale, per quanto in linea con l’ultima fase della strategia Obama.

Insomma, Trump fa sul serio e sembra davvero intenzionato a vincere una guerra con 12.500 uomini, numeri non confermati, laddove Obama, con un’eccessiva cautela dettata da ragioni di opportunità politica, ha fallito con oltre 100mila unità. Ma, come abbiamo visto, i numeri non equivalgono alla tipologia di truppe, che saranno molto diverse rispetto al passato.

Questo per quanto riguarda la guerra combattuta. Resta poi il sostegno alle forze di sicurezza afghane, addestrate e sostenute da una NATO impegnata in Afghanistan con l’operazione ‘Resolute Support’, una missione di tipo ‘train, assist, advise’. La NATO, e tra i suoi partner anche l’Italia, sarà chiamata a contribuire con un aumento dei contingenti nazionali allo sforzo voluto da Trump. L’Amministrazione statunitense sarà in grado di ottenere più soldati da un’Alleanza Atlantica i cui membri sembrano essere sempre più stanchi? É molto probabile.

E l’Afghanistan in tutto questo? «Gli afghani garantiranno la sicurezza e costruiranno il loro Paese e ne definiranno il futuro». In altre parole, lo Stato afghano è chiamato a rimboccarsi le maniche, poiché lo strumento militare statunitense si impegnerà a fare la guerra a tempo determinato, non a ‘costruirne la democrazia’ o a ‘modificarne o influenzarne usi e modi di vivere’.

Ora l’Amministrazione americana dichiara di voler vedere dei risultati concreti. Approccio certamente apprezzabile, benché ottimista, ma intanto il Presidente Ashraf Ghani ha annunciato di voler raddoppiare il numero di forze speciali, a conferma di una policy militare orientata a colpire obiettivi puntiformi con operazioni mirate anziché manovrare grandi unità convenzionali sul terreno. È questo un adattamento, certamente opportuno, all’evoluzione del conflitto asimmetrico e una presa d’atto dell’incapacità delle forze di sicurezza afghane di poter contrastare, da un lato, l’espansione del fronte insurrezionale di cui fanno parte anche i talebani e, dall’altro, di opporsi al crescente fenomeno di jihad globale introdotto dall’ISIS in Afghanistan.

Parafrasando l’ottimo Ben Kingsley, l’Hamid Karzai del film ‘The war machine‘: «la nuova strategia assomiglia molto a quella vecchia». Ma qualche elemento innovativo si impone, a partire dall’approccio deciso del Presidente Donald J. Trump, che non è poca cosa.