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Ucraina, un futuro più che mai incerto

24 Luglio 2017

Non ridiventerà comunque una “piccola Russia”, come vorrebbero o fingono di volere i ribelli del Donbass

Una volta di più, da oltre tre anni a questa parte, le cronache dei giorni scorsi segnalano un riaccendersi delle ostilità nell’est ucraino, conteso tra il governo di Kiev e i ribelli filorussi. Ostilità tipiche di un conflitto ‘ibrido’ o ‘a bassa intensità’, come viene spesso definito quello in corso nel Donbass. Il quale, tuttavia, oltre a provocare un inesauribile stillicidio di vittime, non accenna minimamente a spegnersi nonostante il contemporaneo protrarsi di colloqui multilaterali di pace che si trascinano ancora più stancamente e, secondo ogni apparenza, del tutto sterilmente.

Resta così vivo un focolaio di crisi capace di ridivampare con violenza in qualsiasi momento coinvolgendo una cerchia di belligeranti diretti o indiretti più ampia di quella attuale, che comprende a tutti gli effetti pratici anche la Russia, in rotta di collisione con l’Occidente non solo sulla questione ucraina. Una volta di più, però, le armi tornano a sparare e ad uccidere in circostanze tali da rendere obbligatorio domandarsi se si vada davvero in quella direzione oppure se qualcosa si stia invece muovendo, malgrado tutto, in senso opposto.

A prima vista, la prospettiva meno augurabile si presenta come la più probabile. I nuovi scontri sul campo sono stati preceduti di pochi giorni dal completamento dell’iter per il varo dell’accordo di associazione tra l’Ucraina e l’Unione europea, avvenuto l’11 luglio con la sua ratifica, che non era scontata in partenza, da parte del parlamento olandese, ultimo dei 28 chiamati a pronunciarsi. La sua entrata in vigore avrà così luogo il prossimo 1° settembre, e benchè si tratti solo di un primo passo verso un’eventuale ammissione dell’Ucraina nella UE come membro a pieno titolo va ricordato che era stata proprio la rinuncia del vecchio governo di Kiev, pressato da Mosca, a compierlo a provocare la “rivoluzione di Maidan” e l’esplosione della crisi ucraina.

Non è sicuro che l’ostilità russa a qualsiasi legame tra Kiev e Bruxelles sia tuttora irriducibile. E’ però sicuro che al Cremlino lo sviluppo ora suggellato sia visto decisamente di malocchio, se non altro perché dovrebbe contribuire a migliorare la situazione economica ucraina rafforzando quindi il governo del presidente Petro Poroscenko anche sul piano interno, dove deve fronteggiare più sfide sulle quali Mosca non manca di fare leva per combatterlo e screditarlo con ogni mezzo. Venerdì scorso, ad esempio, Vladimir Putin ha dichiarato alla TV che l’Ucraina sta affogando nella corruzione (certo assai diffusa nel Paese) anche ad alto livello politico.

Ancora più sicura è, comunque, l’inaccettabilità per la Russia di un’ammissione dell’Ucraina nell’Alleanza atlantica, che gli attuali dirigenti di Kiev perseguono invece con crescente risolutezza. Dopo avere ricevuto una nuova visita di Jens Stoltenberg, segretario generale della NATO, Poroscenko ha preannunciato l’avvìo di negoziati al riguardo, pur riconoscendo che è ancora prematuro parlare di una domanda di ammissione. In compenso, ha assicurato che le riforme non solo militari necessarie per raggiungere l’obiettivo sono già programmate per un’attuazione entro il 2020.

Il presidente ucraino, che ovviamente non ignora la riluttanza (per dire il meno) tuttora predominante nello schieramento atlantico ad imbarcare una new entry così problematica sotto ogni aspetto, può giustificare la sua insistenza con un appoggio popolare all’opzione NATO ormai divenuto, a quanto risulta, maggioritario e salito al 69% dei consensi. L’alleanza, d’altronde, non si limita a lasciare la porta dichiaratamente aperta a Kiev. In attesa che le condizioni richieste vengano soddisfatte e che maturino circostanze più favorevoli, non lesina la disponibilità a coltivare una cooperazione oltremodo concreta e significativa in campo militare e più in generale in tema di difesa e sicurezza.

Si sono appena concluse nel Mar Nero e dintorni le manovre navali Sea Breeze 2017 con la partecipazione di forze anche aeree, terrestri e anfibie di numerosi Paesi, per lo più membri della NATO come Romania e Turchia, ma comprendenti anche la Georgia, e con USA e Ucraina in veste di co-ospitanti. Lo scopo ufficiale era quello di rafforzare la sicurezza marittima regionale e la comune “capacità di reagire a diversi scenari”. Alcuni dei maggiori alleati atlantici, nel frattempo, continuano a prestare una multiforme assistenza al potenziamento dell’apparato bellico di Kiev.

Ma non mancano ulteriori novità, o meglio aggiornamenti. Mentre negli USA non cessano le pressioni sul governo per fornire all’Ucraina anche “armi letali”, Stoltenberg ha ribadito l’impegno della NATO ad aiutare Kiev a rafforzare le sue difese contro attacchi cibernetici su vasta scala, come quello che ha colpito il Paese un mese fa, sostenendo che una volta ammessa nella NATO la seconda repubblica ex sovietica potrebbe contare sull’automatico soccorso degli alleati, in base al famoso articolo 5 del trattato nord-atlantico, contro un’aggressione esterna anche, appunto, con strumenti fino a ieri inediti.

Se a occidente si parla dunque di finalità difensive, quanto elencato finora viene invece percepito da Mosca come un insieme di mosse, gesti e propositi offensivi nei propri confronti, e sia pure più o meno intollerabilmente tali a seconda dei casi. E ciò, va detto, non senza qualche pezza giustificativa. La già citata Georgia, ad esempio, che il Cremlino ha sempre considerato parte della propria zona di influenza o come minimo legato storicamente e culturalmente alla Russia, si trova oggi in una situazione molto simile all’Ucraina. Già territorialmente amputata in seguito ad un breve ed impari conflitto con il grande vicino, tenta adesso di sottrarsi alla sua egemonia regionale cercando anch’essa la protezione della NATO, che tendenzialmente non gliela nega. Forte di questa embrionale copertura, simboleggiata dall’apertura di una base militare atlantica, non si astiene dall’assumere atteggiamenti provocatori verso il Cremlino.

La piccola patria di Stalin aveva già involontariamente “prestato” all’Ucraina il proprio ex presidente, Mikheil Saakashvili, nemico giurato (e ampiamente ricambiato) di Putin e tuttora impegnato in attività internazionali antirusse dopo l’abbandono della carica di sindaco di Odessa. I dirigenti di Tbilisi che gli erano subentrati, all’insegna di un’effimera distensione con Mosca, hanno finito col seguire in sostanza il suo esempio, sia pure con qualche maggiore cautela e minore accanimento esteriore.

La capitale georgiana ha ospitato la settimana scorsa Poroscenko, che al termine dei colloqui con il presidente Giorgi Margvelashvili ha parlato, senza essere smentito, di sforzi coordinati tra i due governi per recuperare i rispettivi territori perduti e ora in mano a separatisti filorussi devoti al “nostro comune aggressore”. Un linguaggio del genere il presidente ucraino non poteva usarlo il giorno successivo, ricevendo a Kiev in visita ufficiale il suo omologo bielorusso Aleksandar Lukascenko, guida incontrastata di un’altra repubblica ex sovietica, ben più legata e vicina alla Russia sotto vari aspetti e tuttavia visibilmente gelosa anch’essa della propria indipendenza al punto da attirarsi ricorrenti sospetti di flirtare a tale scopo con l’Occidente per meglio difenderla.

Sospetti probabilmente eccessivi anche in considerazione del carattere autoritario del regime di Minsk, che si mostra comunque attivamente interessato a mantenere e anzi intensificare i rapporti sia con l’Unione europea sia con Paesi in conflitto aperto o latente con Mosca come appunto l’Ucraina. Nei colloqui di Kiev, dove Lukascenko si era già recato nello scorso aprile, l’accento è caduto sulla cooperazione bilaterale già esistente o programmata in numerosi campi a cominciare da quello economico. Sono stati debitamente trattati, però, anche i problemi politici regionali con in testa, naturalmente, il conflitto ucraino, sul quale la Bielorussia ci tiene a svolgere una funzione mediatrice non limitata all’ospitalità offerta fin dall’inizio ai colloqui plurilaterali di pace e non si sa quanto gradita a Mosca.

In un’ampia fascia adiacente ai confini occidentali della Russia sembra insomma profilarsi una quanto meno parziale convergenza di interessi alla quale il Cremlino guarda verosimilmente con preoccupazione.  Che a sua volta si manifesta, per il momento, con un apparente irrigidimento delle sue posizioni, in particolare riguardo al nodo centrale e più scottante della problematica regionale, quello ucraino. Senza dimenticare, comunque, altri in corso di aggrovigliamento, ad esempio nell’area caucasica.

Alla fascia in questione potrebbe infatti aggiungersi l’Armenia, tradizionalmente attratta dall’Occidente molto più che dalla Russia ma forzatamente legata a Mosca dall’antica inimicizia con la Turchia e dalla più recente disputa territoriale con l’Azerbaigian, un altro conflitto mai risolto e nel quale il Cremlino fatica parecchio ad esercitare la sua naturale funzione di arbitro. Adesso le forniture di armi russe anche all’avversario minacciano di mettere a rischio la multiforme fedeltà armena a Mosca, quando lo stesso Azerbaigian si è sempre distinto, sinora, per la sua indocilità nei confronti della Russia. Il tutto sicuramente condizionato, in buona parte, dall’andamento tutt’altro che rettilineo e prevedibile dei sempre cruciali rapporti tra Russia e Turchia.

Non meno cruciali, e forse ancora determinanti, restano naturalmente i rapporti tra Russia e Stati Uniti. Ma anche l’imprevedibilità del loro andamento dopo l’avvento di Trump alla Casa bianca deve avere spinto Mosca a dare segni di impazienza come, già nello scorso giugno, il riconoscimento dei documenti di identità rilasciati dai governi delle due “repubbliche” del Donbass, finora mai riconosciute come tali neppure dalla loro grande protettrice. E adesso i più sospettano, plausibilmente, che la mano russa stia dietro anche al più sorprendente colpo di scena, o si preferisce di testa, sfoderato dai protagonisti della lunga vicenda ucraina.

L’autore ne è stato un personaggio non nuovo alle improvvisate: il presidente della “repubblica” di Donezk Aleksandr Zacharcenko, che ha preannunciato martedì scorso nientemeno che la proclamazione di una nuova Ucraina sostitutiva di quella attuale, composta da nove province federalizzate e con capitale trasferita da Kiev (declassata a semplice centro storico-culturale) proprio nella periferica Donezk. Con un nome, inoltre, che è tutto un programma: Malorossija, cioè piccola Russia, lo stesso nome comunemente usato, non senza sottintesi spregiativi, nella Russia “grande” al tempo degli zar.

Un implicito salto in avanti, quindi, rispetto alla Novorossija ripescata invece tre anni fa dal periodo bolscevico per designare l’intero Donbass ribelle e aspirante all’annessione all’odierna Russia, seguendo l’esempio della Crimea, almeno come alternativa all’ampia autonomia (comprendente persino la politica estera) all’interno dello Stato ucraino vanamente reclamata sinora anche nei colloqui di Minsk. Un’annessione, peraltro, della quale Mosca non voleva saperne perché apparentemente interessata in via prioritaria ad una sistemazione di proprio gradimento dell’intera Ucraina, usando il Donbass come semplice ostaggio e strumento di pressione.

Una sparata quasi farsesca, quella di Zacharcenko? A prima vista sì, tenuto conto che ne hanno preso subito le distanze, per quanto non polemicamente, sia i suoi soci della “repubblica” di Luhansk (o Lugansk, in russo) sia il Cremlino. Il cui portavoce, Dmitrij Peskov, dopo avere definito la sortita puramente personale, ha però aggiunto che si tratta di idee meritevoli di considerazione ed esame anche in sede negoziale, a Minsk o altrove. Ciò è bastato per alimentare gli immancabili sospetti di un gioco delle parti, del quale resterebbero comunque da chiarire le finalità.

Se effettivamente proposta a Minsk (dove il confronto diretto si svolge, o meglio si trascina, tra il governo di Kiev e i ribelli del Donbass, con Russia, Francia e Germania formalmente in secondo piano) l’”idea” di Zacharcenko servirebbe ovviamente solo a precludere definitivamente qualsiasi trattativa bilaterale o multilaterale. Potrebbe invece essere presa in qualche considerazione, o piuttosto provocare in qualche modo l’apertura di un nuovo negoziato in altra sede. Ad esempio, tra Mosca e Washington, dove non è per nulla assodato che ogni dialogo sia stato ormai pregiudicato dal Russiagate e dai ripensamenti, ondeggiamenti o contraddizioni di Trump.

Due settimane fa “the Donald” ha mandato a Kiev il suo segretario di Stato, Rex Tillerson, per rassicurare Poroscenko e compagni circa la continuità dell’impegno americano in difesa della sovranità e integrità territoriale ucraine e l’esigenza che sia Mosca a compiere il primo passo verso una soluzione del conflitto, necessaria a sua volta per scongelare (come ha precisato il successore di John Kerry) anche i rapporti USA-Russia. A quanto pare, la missione ha avuto successo. Poroscenko vi ha visto un “potente segnale” dell’appoggio americano, rallegrandosi anche per la nomina di un rappresentante speciale del presidente USA in e per l’Ucraina nella persona di Kurt Volker, già capo delegazione presso la NATO.

Solo un paio di giorni prima, tuttavia, Trump si era incontrato anche con Putin, in margine al vertice dei G20 ad Amburgo. Una prima volta pubblicamente, con susseguente conferenza stampa comune, e due ore più tardi segretamente e per la durata di un’ora, come è stato appurato nei giorni scorsi dopo smentite o  minimizzazioni da entrambe le parti. Trump ha parlato di un colloquio “formidabile”, Putin secondo Peskov se n’è detto soddisfatto. E tutto ciò nonostante la recente conferma con relativo inasprimento delle sanzioni americane contro Mosca a causa sia del Russiagate sia del conflitto in Ucraina. Non resta quindi che attendere il riscontro delle parole nei fatti. Il Ministero degli Esteri russo, ad ogni buon conto, si è detto disposto a ricevere Volker.