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Stranieri e profughi, la Danimarca vira a destra

28 Luglio 2017

Restrizioni all’assunzione di stranieri, stretta sul welfare, chiusura ai profughi. La politica del Paese sta cambiando. E alle prossime elezioni il Nye Borgerlige potrebbe entrare in Parlamento.

In Danimarca le cose stanno cambiando per chi non ha passaporto del posto. L’apertura e il respiro europeo stanno lasciando spazio a formazioni politiche e provvedimenti caratterizzati da un concetto: chiusura. Chiusura alla forza lavoro straniera, quando non strettamente necessaria, e chiusura agli immigrati nel generoso sistema di welfare tradizionale, per dirottarli in un sistema diverso, più restrittivo. La destra avanza. Attraverso la crescita di partiti spiccatamente di quest’area e attraverso le linee tracciate dal governo.

«Obbligare le imprese ad anteporre, per legge, personale disoccupato locale nelle assunzioni. Stranieri ingaggiabili solo con documentazione che certifichi l’assenza di profili adeguati tra i connazionali nelle liste di disoccupazione». È una proposta del Danske folkeparti, partito di destra estrema che non ha ministri ma è fondamentale per la tenuta della maggioranza del premier liberale Lars Lokke Rasmussen nel Folketing, il Parlamento. Sebbene la proposta (avanzata pochi giorni fa dalle pagine del quotidiano Politiken con l’intenzione di portare sui tavoli istituzionali d’Europa una modifica agli accordi di libera circolazione dei lavoratori) abbia trovato scettici, se non palesemente contrari, gli altri partiti, i socialdemocratici, ossia il principale gruppo di opposizione di centrosinistra, si sono detti favorevoli a incoraggiare le aziende ad assumere personale locale, senza intervenire con una legge.

DISOCCUPAZIONE AL CENTRO DEL DIBATTITO. La disoccupazione è attorno al 4%, percentuale relativamente bassa, ma in Danimarca la questione occupazionale è spesso al centro del dibattito politico. In cui non mancano i riferimenti alla forte presenza di stranieri, soprattutto dell’Europa centro-orientale, nel mondo del lavoro. Da qui la preoccupazione per i danesi che ne sono rimasti fuori. Vero, il 4% non è una fetta massiccia (le imprese sono addirittura costrette a guardare all’estero per alcuni profili qualificati), ed è pure meno del 5% di un paio di anni fa, ma il Paese era riuscito a scendere sotto il 2% nel 2008 e uno studio dell’anno scorso di una accreditata rivista online del settore, Ugebrevet A4, aveva segnalato che 25 mila dei 41 mila posti di lavoro creati tra il 2013 e il 2015 erano andati a stranieri. Insomma, c’è una certa attenzione alla questione occupazionale, per varie ragioni.

Le cose per gli stranieri, però, si stanno facendo più complicate. La politica sta rispondendo alla pressione dei flussi migratori con politiche più severe. A metà maggio, per esempio, sono stati portati da sei a otto gli anni di soggiorno in Danimarca necessari per la richiesta di residenza permanente per i cittadini extra-Ue (sempre quattro se si soddisfano particolari condizioni supplementari, relative al livello di salario e al passaggio di test linguistico-culturali). Inoltre i liberali, che guidano il governo, stanno pensando a restrizioni nelle politiche sociali per i cittadini non danesi, destinate a trovare accoglimento tra i membri del Dansk folkeparti. E, perché no, forse anche tra i socialdemocratici che qualche mese fa hanno sottoscritto una proposta della maggioranza per portare da due a sei anni la permanenza minima nel Paese di uno dei genitori come requisito per elargire pienamente l’assegno familiare a stranieri.

LE CONSEGUENZE SUL WELFARE. Il peso degli stranieri sul welfare della Danimarca, uno Stato popoloso quanto metà Lombardia, è cresciuto parecchio. Un dato su tutti: in sette anni gli immigrati non occidentali nel sistema assistenziale sono aumentati di 24 mila unità, raddoppiando, e sono ora più di un terzo del totale. Il timore di raggiungere livelli di squilibrio nella gestione dei migranti ha inoltre spinto la maggioranza e i socialdemocratici a far passare un provvedimento denominato «freno di emergenza». È entrato in vigore due mesi e mezzo fa e consiste nella possibilità, per il governo, di attivare al confine il respingimento dei richiedenti asilo davanti a un’ondata migratoria imponente. Senza risparmiare i minori non accompagnati, se non in casi eccezionali, come quando i genitori risultano già sul suolo danese.

L’estrema destra ha trovato un terreno piuttosto fertile in Danimarca negli ultimi anni e negli ultimi tempi. Il Dansk folkeparti, Partito del popolo danese, dal 2012 sotto la direzione di Kristian Thulesen Dahl, dopo la lunga leadership di Pia Kjærsgaard iniziata nel 1995, anno di fondazione, può oggi essere definita la principale realtà della cosiddetta far right nel Paese scandinavo, anche se una classificazione non è semplice. Con una linea economica dai tratti quasi socialdemocratici, ha nei suoi programmi una stretta decisa sull’immigrazione. È stato il secondo partito più votato alle ultime elezioni dopo i socialdemocratici e nel quadro proporzionale danese è stato determinante, assieme ai liberali, per la nascita della maggioranza a sostegno del premier Rasmussen.

LA NUOVA DESTRA DI PERNILLE. Ma un partito su posizioni ancora più radicali si sta ritagliando un ruolo nella politica nazionale. Una formazione nata da non molto. È stata fondata a ottobre 2015 e si chiama Nye Borgerlige, che in italiano è traducibile in Nuova Destra. La guida una donna, Pernille Vermund, 41 anni, che l’ha lanciata dopo essere fuoriuscita dal Partito conservatore (formazione minore della maggioranza), con cui in passato era stata eletta nel consiglio comunale della città di Helsingor, quella del castello di Amleto, 60 mila abitanti a 40 chilometri da Copenaghen, verso nord.

VERSO LE ELEZIONI DEL 2019. Il Nye Borgerlige potrebbe spingere la Danimarca ancora più a destra. Oltre a volerla fuori dall’Unione europea con un referendum, ha predicato lo stop delle procedure di asilo in assenza di un lavoro o se al di fuori dei piani di reinsediamento dell’Agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite (che riguardano un numero ridotto di rifugiati su cui ha competenza l’Agenzia) e manifestato la volontà di congedarsi dalla Convenzione internazionale sui rifugiati e da quella sugli apolidi. Secondo recenti sondaggi, oscilla attorno all’1,5% ma ha superato il 4% alcuni mesi fa e per entrare in Parlamento basta il 2%. Le elezioni non sono così lontane: sono attese per la primavera del 2019 e il Nye Borgerlige sta gettando le basi per arrivare a ottenere quello che potrebbe rivelarsi un pesantissimo pass d’ingresso.