Rifiuti nucleari, il piano dell’Italia ancora non c’è: cosa rischiamo
17 Luglio 2017
Quasi 30 mila metri cubi di scorie. E non abbiamo presentanto un programma. Né individuato un deposito. L’Ue apre una procedura di infrazione. Così il governo potrebbe essere costretto a trovare un sito. La grana.

La prima legge italiana risale al 2003: vecchia di quattordici anni. La direttiva europea risale al 2011: sei anni fa. La scadenza per inviare il programma con la strategia nazionale era il 23 agosto 2015: superata da quasi due anni. Ma il tempo è passato e l’Italia un piano complessivo per la gestione dei rifiuti radioattivi che indichi le strategie per lo smaltimento, le attività di ricerca e di monitoraggio e un sito per il deposito nazionale non ce l’ha ancora.
DUE MESI PER RISPONDERE. Per questo il 13 luglio 2017 la Commissione europea ha inviato a Roma quello che nel gergo di Bruxelles si chiama “parere motivato”. E cioè un richiamo formale al rispetto del diritto dell’Unione, che fa scattare due mesi di tempo per rispondere prima del deferimento alla Corte di giustizia europea. E il problema sta proprio qui: perché è difficile, quasi impossibile, fare in due mesi ciò che non è stato fatto finora.
Il nostro Paese è ancora fermo alla seconda fase della valutazione ambientale strategica. Sul sito del ministero dello Sviluppo, competente in materia assieme a quello dell’Ambiente, il “rapporto” è stato pubblicato il 26 giugno. Questo significa che il confronto con le amministrazioni dei Comuni e delle Regioni interessate è nel migliore dei casi appena partito.
QUALE SITO UTILIZZARE? Manca ancora una strategia e una programmazione condivisa e soprattutto la definizione del luogo scelto come deposito nazionale. E ora entro 60 giorni, se non vuole finire al tribunale Ue, l’Italia dovrebbe annunciare quale sito è destinato a ospitare gli scarti radioattivi del passato, del presente e del futuro del Paese.
Il 60% dei rifiuti radioattivi, secondo i dati del ministero, dovrebbero provenire dallo smantellamento delle vecchie centrali nucleari. Dovrebbero, perché lo smantellamento in capo alla Sogin, la società pubblica pagata attraverso le nostre bollette, è proceduto a dir poco a rilento.
PROGRAMMAZIONE GIÀ SMENTITA. Nel 2014 il vecchio Consiglio di amministrazione ha riconosciuto ufficialmente la propria insufficiente capacità di pianificazione. E, secondo quanto riportato dall’ultima relazione della Corte dei conti, ha rimodulato i propri obiettivi, riducendoli del 42% per il 2015 e del 37% per il 2016. La programmazione per il 2015-2018, insomma, è già stata smentita dai fatti e il nuovo cda ha stilato un nuovo piano per il quadriennio 2016-2019
QUASI 30 MILA METRI CUBI DI RIFIUTI. Intanto, in mancanza del deposito nazionale, i quasi 30 mila metri cubi di rifiuti radioattivi attualmente presenti sul suolo nazionale sono ancora divisi tra otto depositi “temporanei”, tra quelli nei pressi delle quattro vecchie centrali, da Caorso in provincia di Piacenza a Trino in provincia di Vercelli, e quelli vicino agli impianti di ricerca sul ciclo del combustibile nucleare.
Il sito con la più alta concentrazione di materiale radioattivo d’Italia – Saluggia, sempre in provincia di Vercelli, dove si concentra il 75% della radioattività del Paese – è però idrologicamente inadatto. Il bando di gara per la costruzione dell’impianto di messa in sicurezza dei rifiuti liquidi, i più pericolosi, è stato prima indetto e cancellato, poi vinto nel 2012 da Maltauro, Saipem e Areva, e commissariato per turbativa d’asta. Oggi i lavori procedono, ma sempre in attesa della localizzazione, progettazione e costruzione di un deposito nazionale.
UN DEPOSITO DA 2,5 MILIARDI. Il progetto stando alla relazione ambientale pubblicata a giugno costa «attorno agli 1,5 miliardi di euro». A questo, si legge nel rapporto, vanno aggiunti «i costi derivante dalla realizzazione di attività di ricerca e sviluppo», che saranno finanziati «da soggetti sia pubblici sia privati e sono stimati dalla stessa Sogin S.p.A. per circa 1 miliardo di euro». Ma il problema, e quello che oggi ci chiede l’Ue, è prima di tutto scegliere l’area, considerando anche le scorie che dovrebbero rientrare dall’estero dopo il riprocessamento del materiale radioattivo. Ma sulla scelta del sito la politica nicchia da almeno due anni.
Nel 2015 Sogin ha redatto la Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee, che tra le altre cose deve tenere conto dei rischi idrogeologici del territorio, ma niente finora è trapelato. A luglio di quell’anno i due ministeri competenti hanno fatto sapere che «il percorso che deve portare all’individuazione dell’area è molto più articolato, ma allo stesso tempo aperto e trasparente», una procedura nella quale «verranno coinvolti Regioni ed enti locali interessati, cittadini e comunità scientifica». Il rischio, che nessuno vuole correre, è la rivolta delle comunità locali. Ma l’attuale governo potrebbe essere costretto a pagare il prezzo politico di anni di inadempienze.
QUATTRO MESI DI CONSULTAZIONE. La relazione di fine giugno prevede un iter lungo, pensando giustamente a un percorso partecipativo, ma che sembra un lusso per chi con le scorie è costretto da anni a convivere in maniera “temporanea”. Dopo l’attesa pubblicazione della Carta nazionale che ancora nessuno ha visto, dovrebbe esserci una fase di consultazione di quattro mesi, poi un seminario nazionale, poi ancora la stesura della carta nazionale delle aree idonee e a questo punto le amministrazioni potranno presentare la loro manifestazione di interesse per ospitare il deposito delle scorie. Poi dovrebbero seguire ulteriori indagini di approfondimento. E «sulla base delle manifestazioni d’interesse sarà quindi possibile procedere alle fasi successive della ricerca del sito». Mesi, mesi e ancora mesi che Bruxelles non sembra più disposta a concedere.