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Quel che resta della Libia

18 Luglio 2017

Intervista a Gabriele Iacovino, Ricercatore e Analista del Centro Studi Internazionali (Ce.S.I.) di Roma

«La nostra preoccupazione nasce dalle notizie riguardanti il coinvolgimento delle Forze speciali, un’Unità dell’Esercito Nazionale Libico, e in particolare del suo comandante, Mahmoud al-Werfalli, nelle torture inflitte a detenuti e nell’esecuzione sommaria di almeno 10 uomini fatti prigionieri»: parole appena pronunciate da Liz Throssell, portavoce dell’UNHCHR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani), in relazione ai casi emersi a partire dallo scorso marzo su cui occorre far luce. La Rappresentante prosegue nella denuncia invitando l’Esercito Nazionale Libico posto sotto il comando del Generale Khalifa Haftar «a condurre indagini complete e imparziali su queste accuse» nonché «a sospendere dall’incarico Mahmoud al-Werfalli in attesa delle conclusioni dell’indagine».

All’impegno annunciato da parte dell’Autorità militare implicata di avviare un’inchiesta è seguito un nulla di fatto, oltre al silenzio sulle immagini contenute in 4 video, circolati sui network tra marzo e luglio, relativi ai crimini di guerra commessi sui detenuti.

Se la Libia è lontana da una ipotetica unità nazionale lo è, prima ancora, da una tutela dei diritti fondamentali della persona.

Dopo la ‘campagna’ di Minniti nel Fezzan e il suo incontro con i sindaci dell’area costiera, il rapporto bilaterale tra Italia e Libia si articola tra i legami di cooperazione internazionale (aiuti allo sviluppo, politica petrolifera) e il contrasto all’immigrazione illegale. La strategia italiana è stata annunciata come una «inversione di tendenza» dal Ministro degli Esteri Angelino Alfano, in occasione della presentazione dell’ «Agenda per l’Africa». Il documento contiene diverse priorità, come una serie di aiuti immediati alla Libia e ai Paesi di transito «disposti a rafforzare il controllo delle loro frontiere nel pieno rispetto dei diritti dei migranti e dei rifugiati», rispetto che dovrebbe garantire la presenza dell’UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) nelle aree interessate. Ai 50 milioni di euro destinati dall’Italia al Niger per il controllo del Fronte Sud Niger-Libia, si sono aggiunti 60 milioni da parte dei Paesi membri dell’UE a favore degli Stati africani di transito, oltre a nuovi finanziamenti destinati al Trust-fund europeo e all’istituzione (decretata lo scorso febbraio) di un ‘Fondo Africa‘ di 200 milioni di euro presso la Farnesina.  Una politica volta, negli intenti, ad affermare la «centralità del continente africano» e, contemporaneamente, a «rafforzare la frontiera esterna» dell’Europa, respingendo i «flussi irregolari» di persone che tentano di raggiungerla.

Gabriele Iacovino, Ricercatore e analista del Centro Studi Internazionali di Roma, ci ha offerto una lettura dettagliata dei diversi fenomeni correlati alla realtà libica, secondo una prospettiva capace di restituirli all’osservatore quali processi connessi a uno ‘spazio’ definito, a molteplici livelli, da logiche di potere.


Iacovino, come si sono evoluti i rapporti politici tra Italia e Libia dai tempi del Trattato di amicizia del 2008 e qual è il peso attuale dell’Italia all’interno dello scacchiere libico rispetto alla stabilizzazione del Paese? Si può realmente parlare di un rapporto ‘privilegiato’ rispetto ad altri Stati europei?

Tanto è cambiato rispetto ai tempi del Trattato di amicizia, anzitutto perché, rispetto al Paese di allora, la realtà libica si è totalmente trasformata. Non che Stati come Francia o Gran Bretagna non abbiano avuto rapporti speciali con la Libia; dire, però, che le relazioni di questi Paesi con Gheddafi fossero le stesse rispetto a quelle che aveva l’Italia sarebbe comunque una falsità storica. In particolare, ci nasconderemmo dietro un dito non ricordando che le operazioni militari contro il regime di Gheddafi sono state iniziate dalla Francia, che vedeva in Gheddafi non più un alleato, ma un ostacolo per i propri interessi. Questa divergenza di interessi si rispecchia anche oggi: la Libia contemporanea non è più un Paese unitario, ma consiste, principalmente, di tre ‘paesi’: la Tripolitania, il Fezzan e la Cirenaica. Gli interessi europei in Libia sono posizionati in distintamente in queste regioni. Se, infatti, l’Italia ha in Tripolitania un focus maggiore (con una ripresa dell’interscambio commerciale e la prospettiva di nuove opportunità per le imprese italiane), Regno Unito e Francia ce hanno interessi in Cirenaica. Il Fezzan è lasciato un po’ in disparte perché è una terra difficile da controllare, dove le risorse abbondano, ma persiste una maggiore difficoltà nel trovare interlocutori stabili. Di fatto in questo momento l’Italia è uno dei pochissimi Paesi (a parte la Tunisia) ad avere aperto, lo scorso 10 gennaio, un’ambasciata a Tripoli, dove non è presente neppure l’ONU. Il nostro è forse l’unico Paese europeo interessato a supportare il premier Serraj e il rafforzamento del suo governo (il c.d. «Governo di Accordo Nazionale»), quindi a sostenere il processo avviato dalle Nazioni Unite – con tutte le lacune verificatesi negli ultimi anni. Senza dubbio, gli interessi italiani sono a Tripoli.

Allude agli interessi nel settore energetico?

La stragrande maggioranza dei pozzi controllati dall’ENI si trova tra la Cirenaica e il Fezzan, quindi nella parte nord-orientale del Paese. Oltre alle importazioni di greggio (48% del totale) e di gas naturale (41,1%), esportiamo derivati del petrolio, macchinari e generi alimentari conservati (frutta e ortaggi), anche se il bilancio, crollato dal 2011 e in progressiva ripresa, ha subito una ricaduta (con un interscambio di 2,8 miliardi di euro nel 2016 rispetto ai 15 del 2012). Inoltre, le nostre aziende hanno interessi nel campo delle infrastrutture, a seguito della dichiarata volontà di proseguire nel progetto (avviato, sulla scorta del «Trattato di amicizia», nel lontano 2010) di un’autostrada costiera divisa in 4 lotti e lunga 1700 km.

Il consolidamento di questo rapporto bilaterale potrebbe portare a un’effettiva stabilizzazione, passando per un’intesa tra i vertici che lo governano?

La stabilizzazione dell’intero Paese non avverrà mai se non si trasforma il processo messo in piedi dall’ONU in un reale processo di inclusione di tutti gli attori libici.

Chi intende esattamente per ‘tutti gli attori libici’?

Ovviamente non parlo solo di Serraj e Haftar, che sono diventati i rappresentanti più ‘esposti’ delle due fazioni (quella di Tripoli e la fazione di Bengasi), ma del coinvolgimento di tutte le realtà locali in cui il Paese risulta frammentato. In tale processo, se vogliamo, solo l’Italia negli ultimi mesi si è fatta portatrice di questa soluzione, coinvolgendo Misurata, che è una realtà a sé stante, ma anche le realtà municipali del Fezzan, con l’obbiettivo di cercare un accordo condiviso allo scopo di arginare i flussi migratori ostruendo i canali utilizzati dalla criminalità organizzata del Nordafrica per tradurre i migranti sulle coste libiche e, da lì, farli imbarcare verso l’Italia. Tuttavia questa è, al momento, l’unica soluzione: creare un processo di transizione e di ricostruzione istituzionale capace di coinvolgere tutti gli attori, a più livelli, attribuendo la dovuta rilevanza alle sfere politiche locali. Non possiamo, allora, compartire il problema considerando la Tripolitania da una parte, la Cirenaica dall’altra, e lasciando perdere il Fezzan, di cui nessuno parla, che è una delle porte principali – se non la porta principale – di tutta l’instabilità libica. Del resto, tutte le problematiche in oggetto sono collegate, quindi gli interessi inerenti alla cooperazione internazionale, alla visibilità degli attori locali, allo scambio economico e al contenimento del fenomeno migratorio si trovano interconnessi nella complessità dossier libico.

Esiste, secondo Lei, la possibilità di coniugare un’azione di vertice, attraverso i rappresentanti politici delle tre Regioni libiche, con accordi diffusi tra le autorità locali interessate dal transito dei flussi migratori? Quali sono le istanze principali di questi soggetti?

Di fatto, se non si va ad agire sulle forze locali, difficilmente, dialogando soltanto con le forze di vertice si avranno dei risultati, perché i vertici, sul territorio, sono poco rappresentativi. È più nostra la necessità di avere interlocutori riconoscibili con i quali portare avanti un dialogo, ma poi se quegli interlocutori non ‘fanno presa’, non possiedono una reale rappresentatività a livello regionale e locale, questo dialogo otterrà pochi risultati. Inevitabilmente, sarà necessario coniugare un discorso che comprenda gli esponenti più in auge (come Haftar e Serraj, che sono rappresentativi di alcuni poteri locali a Tripoli e Bengasi), ma anche tutta una serie di   potentati locali e di autorità locali e tribali. Non dimentichiamo che la Libia, per consuetudine storica e strutturale sul piano dell’organizzazione sociale, è un Paese che ancora oggi si fonda principalmente sul potere tribale più che sul potere centrale. Su questa constatazione, una volta di più nella storia, dovrà fondarsi un dialogo multi-attoriale, a 360 gradi.

Ritiene che le modalità negoziali avviate dal Ministro Minniti nella zona costiera e nel Fezzan si muovano già in questa direzione?

Senza dubbio, ovviamente con un focus, che è quello di trovare una soluzione o una parte delle soluzioni a un problema che vede l’Italia impegnata in prima battuta: il controllo dei flussi di migranti.

Si potrebbero prospettare, ricorrendo a una rete istituzionale internazionale, altre modalità -alcune, per altro, proposte direttamente dagli stessi interlocutori o presunti tali- per ricercare la mediazione con le autorità locali?

Senza intraprendere un dialogo diretto, c’è poco da fare; lo abbiamo visto negli ultimi anni: il processo negoziale portato avanti dalle Nazioni Unite ha sempre cercato di far rispettare da tutte le parti un accordo trovato con alcuni dei loro rappresentanti. Ed è sempre crollato, in quanto da una parte si era trovato un accordo con Bengasi, che poi doveva essere fatto rispettare anche da Tripoli; poi si è trovato un accordo con Tripoli che doveva essere fatto rispettare anche dagli esponenti di Bengasi. Si capisce bene che, se l’accordo non è unitario, una parte lo avvertirà sempre come un’imposizione esterna.

Questo avveniva anche in epoca coloniale…

La problematica principale, come dicevamo, è che la Libia è sempre stato un Paese basato più sul potere tribale – o comunque localizzato – che sul potere centrale.

A livello tribale e locale, si ricerca una serie di garanzie e di vantaggi economici?

L’istanza più importante è il riconoscimento del loro status. È sempre una dinamica di divisione e gestione del potere: di questo stiamo parlando, comprendendo in essa un riconoscimento di respiro internazionale. Ciascuno vuole essere riconosciuto a livello locale e nazionale – ammesso che esista una ‘nazione libica’ -, ma desidera anche avere un interlocutore internazionale che riconosca la propria attorialità politica, che li  consideri ‘potenti’. Senza questo dialogo capace di portare al riconoscimento di diverse autonomie locali, difficilmente si darà una soluzione che implichi una ricostruzione istituzionale libica. La Libia non era altro che l’imposizione, da parte di un regime, di un potere sulle altre realtà politiche locali. Questo regime è crollato con Gheddafi. Se si continua a pensare a un governo unitario e centrale che dovrà essere riconosciuto dai vari potentati locali, tale realtà istituzionale sarà sempre sentita come un’imposizione.

Dopo la stesura di una quarta bozza della Carta costituzionale libica, criticata da giuristi, avvocati e ong impegnati nella difesa dei diritti umani per la sua debolezza in termini di garanzie egualitarie (ad esempio: restrizioni confermate ai diritti delle donne, negazione della cittadinanza per il bambino nato da madre libica),  non esistono segni positivi dai cantieri della Costituente libica?

Al momento si può solo cercare la ricostruzione istituzionale attraverso una costruzione costituzionale, che poi non è altro, come processo storico generale, che il risultato un sentimento nazionale – e non il passo precedente. In altre parole: non è la Costituzione che crea il sentimento nazionale ma, semmai, il contrario. Procedere per inversione porterebbe a creare ulteriori problemi.

Sembra che, attualmente, non esistano altri strumenti formali percorribili…

Nonostante un processo negoziale diplomatico lento e, comunque, accorto, finora non si sono raggiunti risultati, come il processo avviato dall’ONU ha dimostrato. Dopo il tedesco Martin Kobler, dal 21 giugno il nuovo inviato speciale per la Libia designato dal Consiglio di Sicurezza è il politologo ed ex-Ministro alla Cultura libanese Ghassan Salamé. Lo scorso dicembre, lo stesso Kobler denunciava al Consiglio la situazione critica del governo tripolitano, deprivato del potere dall’Assemblea Nazionale, soggetto a vuoti di intesa e di cooperazione con le autorità locali, alle minacce alla sicurezza sul territorio e agli effetti di un sistema economico deficitario (circa il 70 % del PIL nazionale). Frattanto, mentre il Pentagono riconosce al Governo italiano un ruolo di primo piano in Libia, si è prospettato – proprio dagli USA – l’invio di contingenti atti a contrastare l’immigrazione illegale (con nuove attività di intelligence e presenza di forze speciali americane sul territorio, soprattutto in Tripolitania).  Allo stesso tempo, la NATO è concorde con la richiesta di Serraj per l’invio di 50 commandos e di ufficiali in grado di addestrare le Forze libiche contro la minaccia terroristica e l’azione dei trafficanti.

 Questo generale aumento di impegno da parte degli USA pone un’aspettativa concreta, sul piano militare (emersa durante incontro bilaterale tra i Ministri Roberta Pinotti e James Mattis del 12 luglio), nei confronti del nostro Paese. Tuttavia, l’Italia per ora sembra procedere con una politica ponderata, basata soprattutto sulla cooperazione economica e sull’outsourcing della questione migratoria. Quali sono le possibili evoluzioni di questo scenario?

Il discorso americano è abbastanza ‘semplice’, nella sua complessità. Gli americani, anche con la presidenza Trump, hanno finora seguito il leitmotiv dell’amministrazione Obama, scegliendo praticamente di disinteressarsi della Libia. Questo Paese non costituisce uno scenario di loro interesse, se non per quel che riguarda operazioni mirate di contro-terrorismo  (come è avvenuto in  Mali nel 2013, a supporto della missione europea ‘EUTM Mali’). Così hanno fatto anche nel corso degli ultimi anni: nel momento in cui si individua un esponente del jihadismo globale che ha compiuto o potrebbe compiere attività contro gli Stati Uniti, con un’operazione di forze speciali si va, chirurgicamente, a catturare o eliminare quel gruppo o quella persona (nel caso di individui operanti per proprio conto). Peraltro, gli USA continuano a non avere interessi né un disegno preciso nei confronti della Libia, che rimane una questione prettamente europea perché europei sono i Paesi che hanno maggiori interessi in Libia. Lo dicevamo prima: Italia, Francia e Gran Bretagna su tutti. Certo, c’è stato il discorso di un possibile invio di una quota di forze speciali americane, però tutto sembra rimanere in sospeso. Del resto, la questione è nata nel momento in cui l’amministrazione Trump ha parlato della gestione di alcune rappresentanze diplomatiche americane all’estero. Infatti ciò è avvenuto lo stesso giorno in cui è stato nominato il nuovo ambasciatore americano in Italia. Pertanto, l’ipotesi di riaprire la rappresentanza diplomatica americana sia a Tripoli che a Bengasi, potrebbe implicare la presenza di personale militare americano a protezione delle ambasciate, più l’aliquota di marines che è sempre inviata in un territorio definito ‘instabile’ o ‘a rischio’. Per il resto, onestamente non vedo una maggiore attenzione degli Stati Uniti per la Libia.

Diversamente, la Francia potrebbe nutrire forti interessi a intervenire?

Più che a intervenire, la Francia sembra propensa a portare avanti un discorso in grado di rafforzare gli i propri interessi in Libia, che sono relativi a una regione diversa rispetto a quella  ‘italiana’. Per dirla in termini un po’ ‘crudi’, in uno scenario libico che vede da una parte Serraj e dall’altra Haftar, mediaticamente attestati come le figure di spicco dei due schieramenti (ma molto poco rappresentative!), la Francia ha molto più interesse a supportare Haftar che Serraj.

E la Gran Bretagna?

In questo frangente, il Regno Unito affronta problematiche molto maggiori – dal suo punto di vista – legate alla gestione della Brexit e a uno scenario elettorale gestito con molta difficoltà da Theresa May. Perciò, diremo che quello Stato attualmente non possiede la stabilità interna occorrente a proiettare all’estero la propria influenza: deve risolvere problemi importanti a casa propria.

Resta, in questo scenario articolato e pieno di incognite, il problema cruciale della tutela delle persone. Nel quadro di una gestione coordinata ed esternalizzata dei flussi, resterebbero spazi di tutela e garanzia per i diritti fondamentali di chi emigra (come è, del resto, auspicato dalla nostra Agenda per l’Africa)?

Più che parlare di gestione ‘esternalizzata’, si dovrà impostare il problema in termini più ampi. Da una parte, l’Italia da sola non può gestire l’ultima parte dei traffici, cioè quella che vede i migranti partire dalle coste libiche verso il Mediterraneo. La questione dei numeri e del loro controllo, ormai, è diventata abbastanza ingestibile. In risposta, bisognerà anzitutto andare a operare nei Paesi da cui partono i migranti, che non sono solo Paesi in guerra, ma anche Paesi che versano in condizioni economiche difficili. Questo aspetto apre una discussione che verte sulla distinzione tra rifugiato e emigrante economico : nel sistema attuale, è necessario spiegare a chi muore di fame a casa propria che è un migrante economico  e non un rifugiato e, quindi, deve essere rimandato a casa. Non è questa la sede per aprire la discussione, ma la discussione esiste.   In più, occorre tenere presente la necessità di portare avanti dei piani di sviluppo in questi Paesi, con il complemento fondamentale delle politiche di collaborazione con i Paesi di transito. Se, infatti, è vero che c’è un numero sempre maggiore di persone che vivono in guerra, in povertà e in condizioni non-umane, negli ultimi anni sono cresciuti anche i network criminali che hanno sfruttato queste persone (perché di sfruttamento si parla, dato che queste persone pagano un prezzo per fare una traversata e provare ad arrivare in Europa). Anche i canali, questi network criminali, sono cresciuti e collaborare con i Paesi di transito è il primo passo per bloccare questi network criminali, che si arricchiscono e si rinforzano trasportando centinaia di migliaia di persone verso le coste della Libia.

Il timore è che, bloccando le reti criminali, le persone che già non sono garantite nei loro diritti durante il transito, poi continuino a non esserlo anche nelle aree di respingimento o di stazionamento.

È un problema enorme. Oltre alla mancanza di uno Stato e di istituzioni forti, in Libia manca anche la presenza delle Nazioni Unite. Si potrebbe anche ipotizzare un supporto da parte di agenzie delle Nazioni Unite come l’UNHCR, che potrebbero gestire e controllare i campi profughi presenti sul territorio. Tuttavia, essendo i centri di raccolta degli immigrati gestiti dalla criminalità organizzata, appare logicamente difficile implementare tutto questo.

Non sono stati esperiti tentativi in questo senso?

Purtroppo no: mancando un’autorità con cui parlare in Libia, di fatto è difficile anche allestire un discorso.