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Quel che resta dei BRICS

28 Luglio 2017

Con Marcello Ciola, ricercatore del Nodo di Gordio, parliamo delle prospettive odierne di quelle che furono le economie emergenti

Dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989, sembrò che la super potenza uscita vincitrice dalla Guerra Fredda, gli Stati Uniti d’America, fosse destinata a dominare la politica e l’economia mondiale per molto tempo: superata l’era della divisione in blocchi, il pianeta sembrava essere divenuto un unico ‘villaggio globale’ che, a parte poche eccezioni, prosperava sotto l’egemonia statunitense. Finiti i contrasti tra le grandi potenze, si parlò addirittura di ‘Fine della Storia’.

La natura illusoria di tale percezione non tardò a palesarsi. Già all’inizio del millennio, nuovi contrasti emersero dalle ceneri della Guerra Fredda, primo tra tutti il terrorismo che, l’11 settembre del 2001, spazzò via per sempre la sensazione di essere entrati in un’era di pace e prosperità.

Fu in questo periodo che si cominciò a parlare di economie emergenti: di Paesi che, una volta relegati a ruoli marginali, cominciavano ad avere un forte peso economico e, di conseguenza, politico. In questi anni fu coniato il termine BRICS: Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica.

Questi Paesi, una volta considerati ‘secondo mondo’ (ad eccezione della Russia che, però, con il crollo dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, aveva attraversato una fortissima crisi economica, politica e sociale), balzarono in primo piano sulla scena politica internazionale: se da alcuni furono percepiti come pericolosi concorrenti per le economie dominanti (i Paesi del G7), per altri divennero il simbolo di una rivalsa nei confronti di un ‘primo mondo’ che, ormai da molto tempo, si era arrogato il diritto di decidere le sorti del pianeta.

Considerazioni ideologiche a parte, i BRICS presero consapevolezza del proprio ruolo e, nel 2009, diedero ufficialmente vita ad un’alleanza strategica.

A meno di dieci anni dalla nascita ufficiale del gruppo, però, le cose sembrano essere già notevolmente cambiate. Sia a causa della crisi economica globale, sia per delle debolezze strutturali, alcuni dei Paesi BRICS (soprattutto Sudafrica e Brasile) non hanno mantenuto le promesse di grande crescita di inizio millennio. Altri Paesi (Russia ed India) non riescono a raggiungere un pari peso al livello politico ed economico e, di conseguenza, non possono assurgere al ruolo di nuove potenze egemoni.

L’unico dei BRICS ad aver centrato in pieno i suoi obiettivi è la Cina. La Repubblica Popolare Cinese, infatti, ha un’economia che, nonostante sia stata intaccata dalla crisi globale, continua ad avere un tasso di crescita inimmaginabile in qualsiasi altro Paese al mondo (6,9%); allo stesso tempo, si tratta di una potenza politica e militare globale che, oramai, è in grado di trattare da pari con gli USA e con i Paesi dell’Unione Europea.

Considerando la situazione attuale, si potrebbe pensare che i Paesi del BRICS siano nella posizione di dover scegliere se essere inglobati, in un prossimo futuro, nella sfera di influenza cinese o se, al contrario, smettere di collaborare con Pechino per cercare di guadagnare posizioni di maggiore potenza internazionale.

Oggi, ha ancora senso parlare di BRICS? Quali sono, verosimilmente, gli scenari futuri del gruppo? Russia ed India accetteranno di essere ridotte a dei feudi cinesi o i BRICS sono destinati a sciogliersi per cercare nuovi assetti internazionali? Per tentare di dare una risposta a queste domande, abbiamo parlato con Marcello Ciola, ricercatore del centro studi Nodo di Gordio.

Quando si è cominciato a parlare di BRICS? Quale era, in quel momento, la situazione politica ed economica del mondo?

In realtà il termine BRIC risale ai primi anni 2000; coniato da Jim O’Neill, economista di Goldman Sachs, è entrato in utilizzo corrente della politica internazionale qualche anno dopo. Inizialmente, il termine indicava un insieme di 4 Paesi (Brasile, Russia, India e Cina a cui si aggiunse il Sudafrica qualche anno dopo) il cui PIL PPA [Prodotto Interno Lordo a Parità di Potere d’Acquisto] aggregato del 2000 era pari al 23% di quello mondiale e le cui previsioni economiche apparivano più che rosee nel decennio successivo. In quel momento si stava vivendo la ‘paura e la speranza’ di inizio millennio, un misto di timore dovuto al terrorismo che aveva dato già le prime avvisaglie negli anni ’90 ma che ha mostrato il suo vero volto nel settembre 2001 e di fiducia nello sviluppo economico trascinato da, appunto, le potenze emergenti (alcune delle quali uscivano da profonde crisi economiche) e dai grandi processi di integrazione economica, commerciale e finanziaria che si stavano determinando, uno su tutti l’euro. Soprattutto l’elemento dell’espansione economica ha mosso i BRICS verso l’unione al fine di animare la battaglia politica per una maggiore condivisione del potere decisionale a livello mondiale.

Tenendo conto dell’evoluzione del contesto politico-economico, quale è la situazione attuale dei BRICS? Al di là della Banca Centrale del gruppo (con sede in Cina), ha ancora senso parlare dei BRICS come di un gruppo di Paesi con fini politici ed economici comuni?

Attualmente la realtà dei BRICS è in profonda crisi non solo economica ma anche politica. Si tratta però di crisi differenti rispetto a come le concepiamo noi in Europa: la ‘crisi economica’ è in sostanza la crescita minima di Russia, Brasile e, soprattutto, Sudafrica e il rallentamento di quella di Cina e India (che comunque crescono a ritmi che in Europa ci sogniamo). Parlare di BRICS oggi non ha molto senso e, personalmente, penso che fin dalla costituzione ufficiale del gruppo nel 2009 il senso della loro comunione fosse già venuto meno: degli Stati popolosi, geograficamente rilevanti e dal mercato interno in forte espansione si stavano aggiungendo alla lista dei ‘papabili BRICS’ – un esempio su tutti, la Turchia. Questa rapida perdita di identità ha portato il BRICS a diluirsi in altre organizzazioni regionali organizzando i propri meeting o all’interno di altri contesti (come successe nel 2015 quando l’incontro annuale fu organizzato in seno al summit di Ufa della Cooperazione di Shanghai) o in funzione di accordi con organizzazioni ‘gemelle’ (come il BIMSTEC). Anche l’obiettivo di porsi come attore-interlocutore fondamentale circa questioni riguardanti la politica e l’economia internazionali è venuto meno: la funzione che i BRICS speravano di attribuirsi (escludendo i Paesi del G7) è stata assunta negli anni dal G20 (che, invece, coinvolge anche i Paesi del G7). Infine, la poca omogeneità politica e continuità geografica dei membri BRICS ha fatto sì che molti altri fini politici ed economici venissero meno col tempo soprattutto successivamente alle battute d’arresto delle economie di questi Paesi.

Il Sudafrica sembra non aver mantenuto le promesse di grande crescita che ci si aspettava anni fa e lo stesso si potrebbe dire del Brasile che, in grave crisi, si rivolge sempre più all’interno che non all’esterno: quale è il rapporto di questi due Paesi con il resto del gruppo?

Il Sudafrica è la grande delusione del gruppo in quanto ha completamente tradito le aspettative di crescita economica e politica. Il Brasile è alle prese con una forte crisi di politica interna che lo ha parecchio allontanato dalla scena politica non solo mondiale ma anche regionale. I rapporti di questi due Paesi con gli altri tre membri BRICS rimangono comunque buoni, soprattutto per quanto riguarda la Cina e la Russia. Per Brasile e Sudafrica i rapporti commerciali, tecnologici e militari con Pechino e Mosca restano di fondamentale importanza per non essere completamente esclusi dalla scena politica mondiale ed essere, eventualmente, sostituiti da concorrenti regionali (come, per esempio, l’Argentina) e, soprattutto, per non perdere le grandi potenzialità di investimenti esteri diretti che l’organizzazione può offrire, sia sul piano multilaterale che bilaterale. Negli ultimi due anni si parla di una ‘Braxit‘ ma per il Brasile, così come il Sudafrica, rimanere su questo scacchiere multilaterale vuol dire avere un contatto privilegiato con Delhi e Pechino. Certo è che sarà fondamentale per i due partner non asiatici adattarsi a un mondo che va sempre più nella direzione ‘asio-centrica’.

La Russia, nonostante il grande capitale di peso politico derivato dalla sua storia, non riesce a diventare una vera super-potenza economica: quali sono, attualmente i rapporti tra Russia e Cina?

Tra Russia e Cina i rapporti sono ai massimi storici. Non ci si dimentichi che fino al 1989 tra le due sponde del fiume Amur ci si sparava neanche troppo raramente e le dispute territoriali avevano assunto un peso determinante nelle cattive relazioni tra i due Stati. Fortunatamente queste ultime si sono risolte grazie anche alla Cooperazione di Shanghai (negli anni ’90 Shanghai Five), forum internazionale di sicurezza e difesa comune ma che, in realtà, si occupa di molti altri ambiti di collaborazione, attorno cui gli interessi di Pechino e Mosca si stanno convogliando condizionando tutta la politica internazionale. Rimane un rapporto giustificato soprattutto alla luce delle politiche assertive e non conciliatorie di Stati Uniti e Unione Europea e da una forte dipendenza dai reciproci assets (materie prime, soprattutto idrocarburi, per la Russia e capitali economico-finanziari per la Cina). I due Paesi hanno instaurato una coerente ed efficace partnership su numerosissime questioni di politica regionale e internazionale che si traduce in un comportamento comune nei forum internazionali quali, per esempio, l’ONU e negli scenari di crisi politica ed economica.