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Niente di nuovo sul Sahara Occidentale ?

di Beatrice Chioccioli/Foto: Ficco Marino
Luglio 2017

Di seguito un articolo scritto per il blog universitario Eurosorbonne sulla attuale situazione del Sahara Occidentale. La storia ci insegna che le conseguenze del colonialismo vanno ben oltre la colonizzazione stessa. I colonizzatori lasciano spesso il posto a poteri e popoli che entrano in conflitto. E la popolazione subisce inerme. 


Focus su una sitazione geopolitica dimenticata dall’opinione pubblica

[Un articolo in francese su questo tema, scritto in collaborazione con JONES Matthew, è
comparso il 16 Marzo 2016 su http://www.eurosorbonne.eu/]

“No es lo mismo”. Due ragazzi della mia età discutono in spagnolo sul paragone tra l’eventuale
indipendenza della Catalogna e la situazione politica nel Sahara occidentale, luogo di cui sono
originari. Siamo a 2600 chilometri da casa loro, in un’ex industria chimica all’interno di un
hangar. Fuori, la Garonna. Dentro, un campo di rifugiati. Uno tra coloro che mi ospitano
esamina scrupolosamente la mia carta d’identità e giura che anche lui ne avrà una così un
giorno, mentre un altro serve del thé in bicchierini di vetro al lato opposto della stanza. Se ripete
più volte lo stesso gesto, mi spiegano, è perchè nel deserto bisogna assicurarsi che non ci siano
più granelli di polvere all’interno della bevanda prima di poterla sorseggiare.
In occasione del quarantesimo anniversario della proclamazione della Repubblica Araba
Sahraui Democratica (RASD), lo scorso 27 febbraio, ho vissuto per qualche giorno in un questo
pezzo di Africa a Bordeaux: un piccolo concentrato di baracche in cui duecento uomini e donne
apolidi, appartenenti alla stessa comunità, si rifugiano in attesa di ottenere l’asilo nel Paese dei
diritti umani. Senza acqua corrente né servizi igienici, con elettricità precaria, installata da loro.
Mi raccontano del loro oceano di sabbia, in cui si nascondono mine. Quello che chiamano
“Stato” e che rivendicano come proprio, è una zona di 2800 km2 situata a sud del Marocco, che ne controlla attualmente l’80%. Ex possessione spagnola, il territorio sahraui viene occupato
immediatamente dopo il ritiro degli iberici nel 1976: infatti, sebbene inizialmente conteso tra il
Fronte Polisario (ossia il movimento, politico e militare, di liberazione popolare sahraui,
fondato ancor prima della decolonizzazione), il regno cherifiano e la Mauritania, quest’ultima
si ritira nel 1979, teoricamente a favore del Polisario ma di fatto lasciando spazio a quelli che i
sahraui hanno sempre considerato come nuovi colonizzatori. Il Marocco fa allora erigere un
muro tra la zona in suo possesso e quel poco che rimane nelle mani dei combattenti sahraui:
vari punti del deserto nei pressi della barriera sono ancora oggi dei campi minati,
geopoliticamente catalogati – mi mostrano su Google Maps – come delle no-man’s land (“terre
di nessuno”).
Nel corso degli anni ’70, il conflitto ha provocato la migrazione massiva del popolo sahraui, in
esilio da quasi mezzo secolo: in 200.000 sono nati ed a tutt’oggi (soprav)vivono accantonati in
campi umanitari nella parte sud-occidentale della vicina Algeria, nei pressi di Tindouf. C’è chi
la definisce una seconda Palestina, e chi – un giornalista europeo, raccontano – suggerisce ai
sahraui rimasti sul posto di “fare attentati, come Hamas, almeno otterrebbero un po’ di
attenzione da parte dei media”. L’ONU stessa non riconosce il Sahara Occidentale come
territorio autonomo, ma lo considera ancora come una zona non decolonizzata; l’organizzazione
ha ottenuto un cessate il fuoco delle parti coinvolte nel 1991, e si è accordata con le stesse sulla
necessità di un referendum che dia il diritto agli abitanti del territorio conteso
all’autodeterminazione. Tuttavia, esso non ha avuto luogo per il momento, mentre la fiamma
dello scontro armato non si è spenta completamente (e, tenuto conto della situazione, rischia di
riavvivarsi). Eppure, visti i numeri, avrebbero votato sette marocchini per ogni sahraui.
Se la situazione di non riconoscimento del diritto del popolo sahraui a disporre per se stesso
perdura, è anche a causa della volontà di preservare i propri interessi economici e geopolitici
da parte di una serie di Paesi non direttamente implicati nel conflitto: in particolare diversi Stati
europei, allo scopo di mantenere le loro relazioni col Marocco, non hanno mai riconosciuto la
RASD. Prima tra tutti la Francia, che rappresenta il primo investitore straniero per il regno di
Mohamed IV (21% del settore nel 2014, secondo l’Agenzia marocchina per lo sviluppo degli
investimenti), e che in qualità di membro del Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha da sempre
imposto il proprio diritto di veto contro la proclamazione d’indipendenza del popolo sahraui.
Nella stessa ottica, la grande maggioranza dei Paesi europei riconosce il Fronte Polisario come
rappresentante legittimo dei sahraui, ma non come governo di uno Stato indipendente in esilio:
ciò conviene all’Unione poichè undici dei suoi membri godono, grazie ad un accordo bilaterale
col Marocco, dello sfruttamento delle acque costiere del Sahara Occidentale, estremamente
ricche di pesce. Per delle evidenti ragioni geografiche, alcuni Paesi d’Europa possiedono uno
spazio piuttosto ristretto in cui realizzare le proprie attività di pesca nel Vecchio Continente: i
Paesi Bassi, la Lituania, la Lettonia, ma anche la Germania e la Polonia tra gli altri traggono
dunque un grande vantaggio dal diritto di accesso alle acque saharaui. Una ventina di Stati
hanno persino ritirato la loro decisione di riconoscimento della RASD sotto la pressione del
regno maghrebino che, da parte sua, tenta di conservare le importanti riserve di fosfato ed altre
ricchezze del territorio occupato, attaccando di fatto qualsiasi difensore della casa saharaui:
l’episodio più recente vede la Svezia cedere al “ricatto economico”, a seguito di un boicottaggio
di tutte le sue società presenti in Marocco; nell’ottobre del 2015, il governo di Rabat ha infatti
annullato la costruzione di un negozio Ikea nella regione di Casablanca, non mancando di
denuciare il sostegno degli svedesi a delle “organizzazioni ostili” al Paese. Stoccolma ha
successivamente abbandonato la sua posizione di supporto della RASD, constatano delusi i
rifugiati con cui condivido un thé zuccherato all’estremo, quasi volessero indorare così la pillola
dell’ingiustizia.
Tra un sorso dolcissimo e l’altro, i sahraui passano dal riassumermi le complicate vicende di
cui è oggetto e testimone il loro luogo natale ad analizzare la loro società e il loro stile di vita
tradizionale: più dell’alto tasso di alfabetizzazione (stando ad un rapporto OXFAM del 2015,
uno tra i più elevati del continente, superiore al 90%) mi colpisce l’importanza accordata al
gentil sesso, particolarità interessante nell’ambito di una cultura arabo-musulmana. Eredi di un
modello matriarcale, le sahraui erano originariamente incaricate di gestire le tende e tutti i beni
materiali, mentre l’attività di commercio su lunghe distanze veniva affidata agli uomini;
l’opinione femminile resta a tutt’oggi fondamentale all’interno delle tribù, la cui importanza è
proporzionale al numero di donne che ne fanno parte. C’è persino un proverbio locale che recita:
“Se tua moglie ti dice di gettarti in un pozzo, prega solo che non sia profondo”. Ci si potrebbe
domandare se le relazioni tese col Marocco, esso stesso un Paese musulmano moderato, non
siano oggi una fonte di alimentazione per questa contro-tendenza femminista piuttosto
originale, che non è tale esclusivamente per il mondo arabo in fin dei conti! Un occhio attento
noterà infatti una differenza di trattamento nei confronti delle ragazze da parte dei sahrauis che
hanno risieduto per alcuni anni in Spagna o a Cuba: piovono i rimproveri dei loro compagni per
questi giovani “non abbastanza rispettosi”, se mi interrompono nel parlare – mentre gli amici
maschi che sono con me in visita al campo, seppur ospiti, non vengono messi su un piedistallo.
La cerimonia del thé è finita. La mia esperienza da rifugiata si conclude alla soglia dell’hangar.
Fuori, la Garonna. Ma anche il lungofiume nuovo di zecca, dove il sindaco ha fatto piazzare un
piccolo giardino, panchine, ed un’elegante illuminazione da festa in veranda per gli innamorati
che verranno ad abbracciarvisi nelle sere d’estate. È un peccato che sia febbraio, e che duecento
persone dormano in una baraccopoli cinque metri più in là. Peccato che io, nel tentativo di
avvicinarmi alla realtà di queste persone, possa decidere quando il viaggio comincia ma
soprattutto finisce. Mi sento un po’ meglio se so di abbandonare i sahraui per scriverne la storia:
nel dovere d’informazione si trova una piccola riconquista di giustizia, una flebile ma tenace
resistenza contro il vuoto dell’amministrazione, contro l’inefficienza delle risposte umanitarie
da parte di una delle più importanti democrazie al mondo, contro l’indifferenza dell’uomo
comune. Appena scendo dall’autobus di ritorno a Parigi, mi giunge la notizia che Ban Ki-Moon
si renderà la settimana successiva a Tindouf: forse qualcosa si sta muovendo? A ciò si aggiunge
la recente decisione della Corte di giustizia dell’Unione Europea di annullare l’accordo agricolo
tra l’UE ed il Marocco, sulla base delle argomentazioni portate avanti dal Fronte Polisario.
Forse è il momento di brindarci su… con una tazza di thé.