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Migranti: tra geopolitica e geografia umana

5 Luglio 2017

In vista del vertice di Tallin, a Bruxelles sono state ribadite diverse restrizioni per le organizzazioni coinvolte
Bourbon Argos, Dignity I, Prudence (Medici senza frontiere); Vos Hestia (Save the Children); Sea-Eye, Seefuchs, Aquarius, Iuventa  (attive per 5 Ong tedesche); Phoenix, Topaz Responder (MOAS, Ong italo-americana con sede a Malta); Golfo azzurro (Proactiva Open Arms, Ong spagnola): sono tutti nomi di imbarcazioni non governative che operano da anni nel Mediterraneo al fine esclusivo di affiancare le Guardie costiere nazionali e le navi delle missioni europee «Frontex» e «Sophia» nella ricerca e nel soccorso umanitario.

In vista del vertice di Tallin di giovedì 6 luglio, e dopo la riunione di domenica a Parigi dei tre Ministri degli Interni italiano, francese e tedesco, a Bruxelles sono state ribadite diverse restrizioni per le organizzazioni coinvolte. Dopo la minaccia di chiudere i porti, avanzata la scorsa settimana dall’Italia, l’obiettivo di ridurre gli sbarchi si è concentrato sul ruolo dei soccorritori indipendenti. In base a un nuovo «Codice di condotta» che sarà redatto dal nostro governo, le Ong citate dovranno presentare bilanci più trasparenti e rispettare i divieti, primo fra tutti quello di non entrare nelle acque libiche; inoltre, le loro navi non potranno spegnere i trasponder per essere sempre localizzate. Questo cambio di indirizzo ha sollevato le proteste degli attori interessati nelle operazioni (durante le quali, in 48 ore, sono state salvate 12 mila persone), di parte dell’opinione pubblica e dell’AOI (Associazione delle Ong Italiane), che ha chiesto al governo un incontro tempestivo con le rappresentanze delle associazioni comprese nel «Tavolo nazionale Asilo» (tra esse citiamo, oltre all’UNHCR – che è membro permanente – : Medici senza frontiere, Oxfam Italia, Save the Children, A Buon Diritto, Amnesty International, la Comunità di S. Egidio, l’Associazione per gli Studi giuridici sull’immigrazione, il Centro Astalli).

L’altra grossa questione interessa i ricollocamenti, finalizzati ad allentare la pressione dei flussi su Grecia e Italia, ed è legata alla prima. Già prima del Piano d’azione esposto a Bruxelles, crollava l’aspettativa su una questione già decisa: né la Francia, né la Spagna – impegnata insieme al re del Marocco in una meticolosa politica di respingimenti –  apriranno i loro porti a organizzazioni di soccorso aventi sede in entrambi i Paesi. Sia pure con l’assistenza finanziaria dell’UE nel Canale di Sicilia, la strategia di accelerare i rimpatri è coerente con una progressiva comune tendenza all’impermeabilità delle frontiere. Ciò non vale solo per l’Austria e i Paesi balcanici, che hanno offerto alla Germania l’occasione per inasprire la propria normativa sull’accoglienza, ma per il ‘muro’ francese a Ventimiglia. La Francia ha cambiato Presidente, ma è coerente con la linea dura che rifiuta alternative sostenibili al Centro di Sangatte (un ‘paese nel paese’, 10 km a Ovest di Calais, che dal 1999 ha visto il concentramento di migliaia di rifugiati e richiedenti asilo proiettati verso il Regno Unito ed è stato chiuso nel 2002, con dispersione dei suoi ospiti lungo la strada per l’Eurotunnel).   Vi sono, poi, governi che incentivano apertamente l’uscita dal proprio territorio; come quello norvegese, che offre 1000 euro ad ogni richiedente che abbandoni il Paese – con buona pace della tradizionale sensibilità scandinava all’integrazione sociale.

La questione, apparentemente ‘appesa’ all’esito di un pre-vertice informale, contiene tutte le premesse della sedimentazione. A livello ufficiale, sembra quasi che si nutra la convinzione che i flussi esistono solo a partire dall’ingresso in Europa. Contenere i flussi presuppone, quantomeno, il rispetto delle quote di ricollocamento da parte dei diversi Stati membri. Per fare un esempio, a fronte della risalente promessa della Francia di accogliere 7115 rifugiati provenienti dall’Italia, l’impegno è stato rispettato per 990 posti disponibili e 330 persone effettivamente ricollocate. L’elusione delle quote è prassi corrente in Slovacchia, Ungheria, Polonia, e Repubblica Ceca, tanto che la Commissione europea, il 14 giugno, ha aperto una procedura di infrazione contro quel gruppo di Stati (c.d. «Gruppo di Visegrad»), con l’eccezione della Slovacchia.

Nell’immaginario diffuso, luoghi come Sangatte, Lampedusa, i porti del Sud Italia alimentano la fobìa di una duplice minaccia – demografica e securitaria – , occultando prospettive realisticamente avanzate da ricercatori sociali ed economisti.

Lo sblocco, secondo il Piano varato dalla Commissione, di 35 milioni per gli aiuti all’Italia (46 saranno invece destinati alla Libia) mostra l’incapacità di tradurre in termini non monetari una questione ‘fisica’ come quella dell’accoglienza: non per i numeri assoluti, comunque destinati a crescere secondo i pronostici del CNR e di Eurostat, ma per la gestione e il collocamento delle persone negli Stati di arrivo.

Impegnare fondi europei nella gestione dei flussi migratori, mentre i Paesi di primo arrivo rimangono isolati rispetto a un fronte euromediterraneo chiuso, è un po’ come assicurare liquidità per una ricostruzione post-disastro senza capitale umano: anche nell’ottica contenitiva volta a frenare la mobilità, gli aiuti finanziari non valgono come naturale sostituto di risorse quali l’esistenza di una rete di operatori specializzati, di spazi e strutture di accoglienza, la conversione delle capacità personali in energia positiva per la società che accoglie. Per applicare queste misure, in ogni Stato con le specificità del caso, l’Europa è necessaria non come frontiera, ma – appunto – come istituzione.  Ripristinare una politica comune fondata sulla dignità sociale e sull’umanità come risorsa, prima che sul trasferimento di persone, potrebbe cancellare, almeno in parte, realtà di sfruttamento localizzate e note alle autorità pubbliche, in nome di quei principi di cooperazione e solidarietà che stanno tra i pilastri dell’UE.  Il legame tra numero di migranti e futuro dei Paesi europei esiste, se pensiamo al concorso dei primi alle dinamiche produttive e al rinnovo del un tessuto sociale. Lo afferma la Dott.ssa Eugenia Ferragina, dell’«Istituto di Studi sulle Società del Mediterraneo» (ISSM-CNR) di Napoli, citando in proposito una ricerca di Eurostat: «nel 2050, la popolazione europea, in assenza di migrazioni, perderà altri 58 milioni di abitanti, con conseguente invecchiamento della forza lavoro e diminuzione delle capacità di innovazione e competitività». Nella stessa linea si pongono diversi economisti (come l’americano Michael Clemens, esperto in migrazione del «Center for Global Development» di Washington D.C., Christian Lutz in Germania o Katerina Lisenkova in Gran Bretagna), secondo i quali il fenomeno migratorio (dal loro punto di vista, la circolazione dei lavoratori) ha prodotto effetti generalmente positivi sulla crescita economica dei Paesi europei.

I limiti alzati alle frontiere e, per l’Italia, ai porti di primo approdo sono la risultante di una storia non così recente che, quando non irrompe nelle vesti dell’emergenza, ha la facoltà di sparire dal discorso politico dell’Unione. Tra le priorità del «Libro Bianco» presentato a Bruxelles a inizio marzo dal Presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, la questione migratoria non compare tra i 5 scenari che, da qui al 2025, definiranno lo stato dell’Europa.

Nell’ambito del presente ‘distacco istituzionale’ unitario, i dati di una geografia umana creata dalla geopolitica stridono con la composizione della società europea contemporanea: finora, la ‘società migrante’ non sembra essere quella che già abita le nostre città, ma una proiezione dei rapporti tra Stati sovrani, nella ripartizione asimmetrica delle responsabilità, a cui si sommano le pressioni territoriali (i fermi e gli internamenti) e i respingimenti oltre frontiera o in mare aperto.

Sul piano della distribuzione interna, si è prospettata a gran voce la possibilità di un’ulteriore riforma del «Regolamento di Dublino», che stabilisce competenza e responsabilità nell’esame delle richieste di asilo in capo allo Stato membro di primo arrivo. Nella maggior parte dei casi, infatti, è quello lo Stato che ha svolto un ruolo maggiore rispetto all’ingresso del richiedente nel territorio dell’UE; in altre ipotesi, potrebbe essere il Paese che rilascia il visto o il permesso di soggiorno a un cittadino di uno stato terzo che vi si trattenga fino al loro scadere, per poi presentare la domanda di asilo.  Altri criteri di individuazione previsti sono l’ingresso legale in uno stato membro, la domanda presentata nella zona internazionale di transito di un aeroporto e l’unità del nucleo famigliare. Tuttavia, il primo criterio (l’ingresso e il soggiorno illegali in uno Stato dell’UE), come risulta dagli effetti applicativi del Regolamento in oggetto, è prevalente.

Da parte dei diretti interessati, a fronte di un’applicazione disomogenea del diritto europeo,  il c.d. «asylum shopping» consiste nel ricercare i sistemi di asilo e di accoglienza più vantaggiosi tra i vari Paesi, benché i richiedenti non siano formalmente titolari di questa scelta. La logica di raggiungere il Paese nel quale ci si vuole stabilire, per poi fare domanda di asilo è inficiata da un sistema che ha prodotto fenomeni come il diffuso sottrarsi alle procedure di registrazione, alle reti degli hotspot  identificativi,  e una mobilità sommersa  attraverso frontiere nazionali sempre più blindate.

In base al sistema di Dublino, assistiamo in questi anni a un elevato numero di ritorni forzati nei Paesi di ingresso (soprattutto Italia e Grecia, che subiscono così una pressione anomala) al fine di presentare la richiesta. Per Italia, solo nel 2016, il ‘rientro’ ha interessato 3129 persone. Tali pressioni determinano, allo stato attuale, una ripartizione sbilanciata delle responsabilità tra i singoli Stati.

In proposito, si era proposto in Commissione un meccanismo correttivo capace di determinare una nuova ripartizione delle richieste secondo ricchezza, dimensioni e capacità di assorbimento dei diversi Stati membri, perciò in un senso ben distinto dal criterio del luogo di primo ingresso. A questa opzione si è affiancata anche un’ipotesi di lungo termine consistente nel trattamento delle richieste, con la conseguente devoluzione di responsabilità, a livello europeo: un cambiamento che richiederebbe profonde modifiche strutturali.

In merito alle più recenti proposte di riforma, nell’esigenza di ripartire in maniera più ‘sostenibile’ le domande di asilo, la Commissione europea ha avanzato, nel maggio 2016, un documento esaminato e rivisto, in sede parlamentare, da Cecilia Wikström, eurodeputata del gruppo ALDE («Alleanza dei Democratici e Liberali per l’Europa»). Durante il lavoro di revisione sono stati presentati oltre 100 emendamenti. Da parte sua, Wikström ha lavorato per rendere più flessibile la nuova normativa, ad esempio cancellando il controllo di ammissibilità preventiva delle domande di asilo e reinserendo la clausola che permette a un qualsiasi Paese membro di esaminare una domanda anche fuori dai casi previsti dal Regolamento.

Presentato il 9 marzo di quest’anno, il c.d. «Dublino IV» contempla criteri più certi per individuare lo Stato competente all’esame delle richieste di asilo. Tuttavia, la ratio è identica al precedente Regolamento (c.d. «Dublino III», n. 604/2013): prevale lo Stato di primo approdo / ingresso irregolare, o soggiorno regolare, ma entro termini più ristretti e domanda presentata alla frontiera, ossia in stato di fermo. Ciò comporterà una dislocazione dell’assistenza da parte degli operatori specializzati nella protezione internazionale (come il «Tavolo Nazionale Asilo», coordinato dall’UNHCR) proprio nelle aree di frontiera.

Sono, poi, previste quote di richiedenti redistribuite in funzione  dei parametri demografici e del PIL di ciascuno  Stato, ma solo a partire dal superamento del 150% della sua soglia di accoglienza (per l’Italia, questa è stata fissata dal Viminale in 3 persone ogni 1000 abitanti). L’ultimo aspetto è sanzionatorio, e mira a impedire la mobilità sommersa, definita «secondaria», e il transito in Paesi diversi da quelli in cui si è tenuti a presentare la richiesta. Infatti, secondo l’ Art. 6 dell’atto in questione, lo Stato interessato dovrà informare il richiedente che «il diritto di richiedere la protezione internazionale non implica, da parte del richiedente, il diritto di decidere quale Stato membro sarà responsabile ad esaminare la domanda».

Nella presente proposta è difficile individuare un recupero dei principi di solidarietà e cooperazione europei che garantirebbero una più equa ripartizione dei richiedenti tra gli Stati membri. Non a caso, il «Dublino IV» è stato contestato da diversi soggetti, tra cui giuristi e associazioni per i diritti umani, come quelle incluse nell’ECRE («European Council for Refugees and Exiles»). Peraltro, se la pressione sui Paesi di primo ingresso costituisce un arbitrario sbilanciamento rispetto ai principi richiamati, anche il sistema per quote delineato non è esente da criticità. Su tale opzione, che ha preso il via dall’«Agenda europea sulla migrazione» del 2015, la Prof.ssa Chiara Favilli, Docente di Diritto dell’Unione Europea all’Università di Firenze, rilevava un nodo fondamentale, ossia il fatto che la redistribuzione per quote delle persone che giungono negli Stati sia una misura ‘rischiosa‘: «se fosse approvata, il fatto di prendere persone dall’Italia e portarle, ad esempio, in Repubblica Ceca, in Lettonia, in Polonia contro la loro volontà è tutt’altro che semplice. Non stiamo parlando di trasferimenti di merci, ma (…) di persone con una pluralità di esigenze e soprattutto con il desiderio di avere una vera chance alternativa di vita». Tuttavia, secondo la giurista, si tratta comunque di un segno positivo di cambiamento rispetto al sistema vigente. Quest’ultimo, «come una diga che cerca, con scarso esito, di trattenere un fiume in piena», prevede che lo Stato competente sia anche quello in cui chi ottiene l’asilo dovrà rimanere. Il flusso, però, esiste e un simile argine alla mobilità crea problemi enormi. Nella prospettiva di un temperamento, «gli Stati che vedono arrivare persone che dovevano essere esaminate in Italia, potrebbero comunque accoglierle, magari applicando con più flessibilità ed estensione il criterio del legame familiare» (da questo punto di vista, il «Dublino IV» estende la cerchia dei familiari ai fratelli e alle sorelle, che potrebbero richiedere il ricongiungimento). Ancora, contro la rigidità del Regolamento, un’altra modifica auspicabile consiste, per Favilli, nel permettere a chi ottiene lo status di rifugiato internazionale di andare a soggiornare in un altro Stato membro.

Se il problema centrale resta la gestione dei flussi, ciò che può iniziare a mutare è l’idea stessa di ‘flusso’: qualcosa di diverso da uno stock che deve essere trasferito. La logica dello spostamento, che scatta all’ombra del dritto di cittadinanza per soggetti a vario titolo indesiderati (cittadinanza da acquisire o già esistente e non pienamente riconosciuta), permane nella tutela dell’ordine pubblico da parte degli Stati nazionali. Nondimeno, spostare il problema non porta a risolverlo; con buone probabilità, lo aggrava.

In questo scenario, assistiamo al riproporsi una vecchia logica, persistente nell’esercizio delle sovranità nazionali, che ricalca la forma del ‘campo di persone’, la realtà concentrazionaria di quei «centri di accoglienza temporanea» che appartengono stabilmente alla geometria del potere democratico.

Aspettare il vertice di Tallin con la consapevolezza di una strategia rigida di contenimento, in cui la sovranità immobile degli Stati fa premio sulla capacità di risposta dell’Unione in nome dei principi che l’hanno costituita, non è semplice perché difficilmente si romperà l’asse di una contrattazione sbilanciata e, in quanto tale, fittizia.

Il clima di ambiguità politica e incertezza che ne deriva è, forse, l’effetto di un disconoscimento: del non vedere, cioè, che la società è già in una fase accelerata di ricombinazione, che la futura cittadinanza non potrà fondarsi su un nazionalismo storicamente trascorso, vivente solo a livello ideologico, e che una dimensione localizzata dell’integrazione può esistere a partire dalle istituzioni come punto di origine di quel processo – e non di convalida tardiva, forzata o parziale. Nel nostro caso, il Sistema di protezione per i richiedenti asilo e i rifugiati (SPRAR) è stato pensato come articolazione locale dell’accoglienza e, nel caso di una reale cooperazione intereuropea, potrebbe segnare la strada ad altri contesti nazionali.